Scienze giuridiche
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Browsing Scienze giuridiche by Author "Bernasconi, Alessandro"
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- PublicationDIRITTO ALL'INFORMAZIONE SULL'ACCUSA E PROCESSO PENALE(Università degli studi di Trieste, 2009-04-02)
;Tagliani, Ida ;Bernasconi, AlessandroBernasconi, AlessandroE’ rintracciabile, nell’attuale sistema processualpenalistico, un paradigma del diritto alla “informazione sull’accusa”, quale consacrato nell’art. 111 comma III Cost.? La risposta a simile quesito – cui si propone di giungere la presente ricerca – impone di saggiare gli istituti funzionali, nella fase investigativa, a concretizzare tale diritto alla luce del connotati del “giusto processo”, mediante un duplice percorso che, per un verso, esplora la possibilità di reductio ad unum dell’apparato informativo e, per altro verso, ne sonda il grado di effettività. L'opera si articola nelle tre parti di seguito illustrate. La prima sezione è dedicata alla definizione del concetto di “diritto all’informazione sull’accusa” nella teoria delle fonti. Il primo capitolo è dedicato alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e al Patto internazionale sui diritti civili e politici che, per primi, hanno configurato una organico modello di fair trial, ove il diritto all’informazione sull’accusa partecipa della duplice natura di precipitato del diritto di difesa e presupposto per l’esercizio, all’interno del processo, delle singole facoltà difensive. A fronte della laconica previsione dell’art. 6 § 3 lett. a CEDU – che, al pari dell’omologa disposizione contenuta nell’art. 14 § 3 lett. a ICCPR si risolve in una mera enunciazione dei caratteri della comunicazione –, si impone la ricostruzione del paradigma informativo attraverso l’analisi della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. La giurisprudenza di Strasburgo affronta la tematica senza atteggiamenti preconcetti e sviluppa un modello di informazione, per un verso, dinamico e duttile, atto a modularsi attraverso le diverse fasi procedimentali, e, per altro verso, conforme ai canoni della tempestività e della efficienza. A tal fine, il concetto stesso di accusation, cui il diritto all’informazione è ancorato, non pare postulare formule o atti sacramentali, ma si traduce nella attività dell’organo inquirente che, nel caso concreto, sia abbia a determinare «ripercussioni importanti» sulla sfera personale della persona sottoposta alle indagini: l’avvio del procedimento, l’iscrizione della notizia di reato, l’esecuzione di una perquisizione o di un sequestro. Il secondo capitolo è dedicato alla definizione del diritto all’informazione sull’accusa all’interno della nostra Carta costituzionale, muovendo dalla sua “archeologia”. Invero, sin dai primi anni ’60, la dottrina e la giurisprudenza si sono interrogate in ordine alla possibilità di enucleare un modello di fair trial dalle disposizioni contenute nella Costituzione. Lo sforzo euristico degli interpreti si è inizialmente incentrato sull’art. 24 Cost., fino a giungere, nel 1996, all’esplicitazione, ad opera della giurisprudenza costituzionale, di un canone del “giusto processo” quale formula scaturente dal coordinamento dei «principi che la Costituzione detta in ordine tanto ai caratteri della giurisdizione, sotto il profilo soggettivo e oggettivo, quanto ai diritti di azione e difesa in giudizio». Parallelamente al consolidarsi di una via costituzionale ante litteram al due process of law, si assiste al progressivo manifestarsi dell’influenza delle norme contenute nelle convenzioni internazionali in materia di diritti della persona e processo penale. Simile fenomeno – che intreccia la tematica del rango rivestito, nella gerarchia interna delle fonti, dalle disposizioni pattizie – assume particolare rilievo nelle pronunce della Consulta, ove l’art. 6 § 3 CEDU viene evocato, con crescente frequenza, quale parametro “ausiliario” nel giudizio di conformità delle norme subordinate alla Costituzione. L’escalation culmina, nel 1987, con l’inserzione dell’ossequio ai principi enunciati nelle convenzioni internazionali di riferimento tra i criteri direttivi atti guidare, ai sensi dell’art. 76 Cost., il legislatore delegato alla redazione dell’attuale codice di procedura penale. La questione della diretta precettività, nel nostro ordinamento, delle norme pattizie – elette a principio informatore del codice di rito – viene, peraltro, messa in secondo piano dalla introduzione, ad opera della l. cost. n. 2 del 1999, della disciplina del giusto processo nel tessuto costituzionale. In controtendenza rispetto alla concezione “minimalista” postulata dai giudici costituzionali, da ultimo, con la sentenza n. 361 del 1998, il legislatore del 1999 introduce, nell’art. 111 Cost., un concetto “forte” di contraddittorio, che partecipa della duplice natura di canone oggettivo di esercizio della funzione giurisdizionale, in quanto fulcro del giusto processo, e di garanzia soggettiva operante nell’ambito penale. La centralità del diritto di contraddire consente di attribuire spessore teleologico alla prerogativa, riconosciuta a ogni persona sottoposta a procedimento, di essere informata, nel più breve tempo possibile e in via riservata dell’accusa elevata a suo carico: si attua in tal modo quel “diritto a difendersi conoscendo” che costituisce imprescindibile prodromo per imbastire qualsivoglia tutela processuale delle ragioni dell’imputato. Esaurita la disamina dei principi, la ricerca si impernia sulla ricognizione della fenomenologia informativa nell’attuale sistema codicistico, con riferimento a quegli istituti che sono funzionali a consentire la conoscenza “sul processo” e “nel processo” nella fase investigativa, che, sulla scorta dell’esegesi operata sull’art. 111 comma III Cost., costituisce la naturale sedes materiae del diritto all’informazione sull’accusa. Viene in rilievo l’istituto della informazione di garanzia, funzionale nell’impianto originario del codice di rito, a squarciare la segretezza investigativa con una seppur embrionale parentesi di discovery connessa all’espletamento di un atto cui il difensore abbia diritto ad assistere. Lo strumento informativo in argomento permette di focalizzare l’attenzione sul canone della riservatezza, oggetto di positivo richiamo da parte dell’art. 111 comma III Cost. Dotato di un requisito interno atto, in tesi, a consentire il massimo riserbo – ossia l’invio mediante piego chiuso raccomandato – l’istituto in argomento ha patito, nei primi anni novanta, una sistematica strumentalizzazione che, da presidio di garanzia per la persona sottoposta alle investigazioni quale era stato concepito, l’ha trasformato in veicolo di condanna anticipata. Il conseguente tentativo, operato dal legislatore del 1995, di restituire respiro all’informazione di garanzia ha, invece, finito per comprimere il diritto della persona indagata alla conoscenza della sussistenza di un’investigazione a suo carico attraverso la compressione dell’ambito di operatività dell’art. 369 c.p.p. Contestualmente alla modifica della disciplina dell’informazione di garanzia, in una logica di “pesi e contrappesi” si è inteso recuperare uno spazio di discovery mediante la modifica della disciplina del registro delle notizie di reato, regolato dall’art. 335 c.p.p., il cui accesso, nella lettera originaria del codice di rito, era interdetto sino alla formulazione dell’imputazione. Il riconoscimento del diritto della persona cui il reato è attribuito di ricevere comunicazione delle iscrizioni a proprio carico non ha, invero, sortito un effetto compensativo, atteso che la disciplina dell’accesso – lungi dal configurare una inviolabile prerogativa – patisce due testuali eccezioni. La prima, connessa alla tipologia della notitia criminis, è funzionale ad interdire ex ante la conoscibilità delle iscrizioni relative a procedimenti che abbiano ad oggetto reati di particolare gravità. La seconda è ricondotta al potere, attribuito al pubblico ministero, di secretazione delle inscrizioni in presenza di specifiche esigenze investigative. In una logica di disorganica stratificazione degli istituti, nel 1999 – dopo il fallimento dell’esperienza della contestazione della “imputazione provvisoria” di cui alla l. n. 234 del 1997 – fa il suo ingresso, sulla scena processuale, l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, ai sensi del quale si onera il pubblico ministero, nell’ipotesi in cui non intenda richiedere l’archiviazione, di provvedere, a pena della nullità del successivo atto di esercizio dell’azione penale, di notificare alla persona sottoposta alle indagini un’informativa in cui l’ostensione degli atti di indagine si coniuga al riconoscimento di un corredo di facoltà difensive. L’avviso in argomento, contrariamente agli auspici del legislatore, lungi dall’attestarsi quale strumento principe per l’attuazione del diritto all’informazione sull’accusa, si è rivelato un «garanzia incompiuta» che, seppur dotata dei requisiti della comprensibilità e del dettaglio, contraddice il richiamo al «tempo più breve possibile», in tal modo deprivando il suo destinatario (anche) del beneficio della fruizione del tempo e delle facilitazioni necessarie per la predisposizione della strategia difensiva. A tale aporia funzionale si assomma la progressiva compressione, anche sulla scorta dell’esegesi giurisprudenziale, dell’ambito di operatività dell’istituto che, pertanto, non è idoneo a fungere da paradigma del diritto all’informazione sull’accusa. Dopo una breve analisi della disciplina dell’informazione sul diritto di difesa, regolato dall’art. 369-bis c.p.p., e sugli strumenti informativi operanti nel procedimento per l’accertamento della responsabilità amministrativa degli enti dipendente da reato (d.lgs. n. 231 del 2001), il presente lavoro si chiude con un bilancio sulla funzionalità dell’apparato informativo configurato nel codice di rito penale alla concretizzazione del principio consacrato nell’art. 111 comma III Cost. Sul profondo deficit della strumentazione – al di là della mancata rispondenza ai singoli connotati della tempestività, del dettaglio e della riservatezza – pare pesare la carenza di organicità nell’affidare l’attuazione del diritto all’informazione ad una pluralità di istituti privi di coordinamento e suscettibili di applicazione solo eventuale.2166 9324 - PublicationResponsabilità degli enti e reati informatici: profili sostanziali e processuali(Università degli studi di Trieste, 2013-04-19)
;Spinelli, AdrianoBernasconi, AlessandroL’ingresso, all’alba del nuovo millennio, della responsabilità penale delle persone giuridiche ha rappresentato una innovazione di non poco momento nel panorama giuridico italiano. Superato il dogma societas delinquere non potest, l’impresa diviene imputabile per i reati commessi, nel suo interesse o a suo vantaggio, da persone ad essa intranee. Altro intervento legislativo di particolare rilievo è dato dalla legge sulla criminalità informatica del 18 marzo 2008 n. 48; con essa si rinnova la disciplina dettata nei primi anni Novanta dello scorso secolo, con la l. 23 dicembre 1993 n. 547. I primi capitoli del presente lavoro mirano a coniugare le tematiche accennate, prendendo spunto dall’introduzione nel d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231 dell’art. 24-bis, attraverso il quale la responsabilità dell’ente viene in essere laddove siano commessi crimini informatici. In particolare, delineati nel primo capitolo i profili storico-comparatistici della responsabilità “penale” dell’impresa, nel secondo capitolo viene ricostruito il complesso meccanismo di imputazione elaborato dal legislatore italiano: l’interesse o il vantaggio dell’ente derivante dal reato commesso da un “apicale”, ovvero da un “subordinato”. Segue l’analisi dei modelli di organizzazione, gestione e controllo previsti dagli artt. 6 e 7 d.lgs. n. 231 del 2001, dei quali si espongono ed esaminano la struttura e la funzione. Il terzo capitolo concerne il menzionato art. 24-bis del decreto. Premessi taluni cenni circa l’evoluzione legislativa in materia di criminalità informatica, l’attenzione si focalizza sul contenuto del dettato normativo: i reati presupposto puntualmente individuati, da un lato, e le sanzioni (e misure cautelari) previste, dall’altro lato. Il quarto ed ultimo capitolo ha ad oggetto le disposizioni processuali della l. n. 48 del 2008, con le quali si è proceduto alla tipizzazione dei mezzi di ricerca della prova digitale: ispezione, perquisizione e sequestro di dati informatici. Una innovazione di non poco conto, si diceva, la quale, tuttavia, desta talune perplessità. Poste in luce le molteplici criticità evidenziate dalla dottrina, sono suggeriti alcuni interventi correttivi, necessari per garantire la corretta elaborazione dell’evidenza digitale.1732 6477 - PublicationIl sistema cautelare nel processo penale de societate tra esigenze di effettività e profili di incostituzionalità(Università degli studi di Trieste, 2009-04-02)
;Baresi, Monica ;Bernasconi, AlessandroBernasconi, AlessandroL’interesse per il processo de societate, con particolare riguardo alla disciplina dettata in tema di misure cautelari applicabili agli enti, nasce senza dubbio dalla considerazione che il d. lgs. 8 giugno 2001 n. 231 rappresenta uno dei provvedimenti più rilevanti e più significativi degli ultimi decenni nel panorama normativo italiano, in quanto l’introduzione, per effetto del medesimo, di una diretta responsabilità sanzionatoria dei soggetti collettivi dipendente da reato costituisce una svolta epocale, specie per coloro che ritengono che con esso sia stato definitivamente messo al bando il “costoso” principio societas delinquere (et puniri) non potest. Esigenze di politica criminale, tese ad introdurre risposte sanzionatorie per fronteggiare la sempre più dilagante criminalità d’impresa, da un lato, e sollecitazioni provenienti in ambito comunitario ed internazionale, finalizzate alla armonizzazione delle risposte sanzionatorie degli Stati, dall’altro, hanno indotto il legislatore, delegante prima e delegato poi, a disciplinare la materia, superando i dubbi sull’an della responsabilità. Con riferimento al quomodo della sua formulazione, la l. delega n. 300 del 2000 e il d. lgs n. 231 del 2001 hanno qualificato come amministrativa la forma di responsabilità addebitabile all’impresa e, al contempo, hanno previsto che il suo accertamento avvenga ad opera del giudice penale con le forme del relativo processo. Tale peculiarità – giustificata dalla necessità di coniugare efficienza e garanzie – ha originato la querelle circa la reale natura (amministrativa, penale o mista, tale da dar luogo alla nascita di un tertium genus) della responsabilità introdotta dal d. lgs. n. 231 del 2001. Si è constatato che la vexata quaestio non costituisce esercizio esegetico fine a se stesso, bensì risponde all’esigenza di comprendere quali siano i principi informatori della disciplina, allo scopo di verificarne anche l’ortodossia costituzionale. Ad esempio, stabilire che, al di là della etichetta adottata, si tratti in realtà di responsabilità penale significa, in primo luogo, dover superare - sul piano della dogmatica - i tradizionali ostacoli (innanzitutto il principio della responsabilità penale personale e quello rieducativo della pena ex art. 27 commi 1 e 3 Cost.) al riconoscimento di una siffatta responsabilità in capo alle persone giuridiche. In secondo luogo, vuol dire analizzare e verificare se la costruzione dell’illecito contestabile all’ente e il relativo procedimento di accertamento rispettino i canoni costituzionali propri della citata responsabilità, sia sul piano del diritto sostanziale sia su quello del diritto processuale. Sotto quest’ultimo profilo, in particolare, vengono chiamati in causa la garanzia del giudice terzo ed imparziale, il diritto ad una (effettiva) difesa, le regole del giusto processo e, non ultimo, il principio della presunzione di non colpevolezza, intesa sia come regola di trattamento - che vieta l’assimilazione dell’imputato al colpevole - sia come regola di giudizio - che impone all’accusa l’onere della prova della colpevolezza - sia, ancora, come norma fondante il riconoscimento del diritto al silenzio, con il divieto di far discendere dall’esercizio di tale facoltà conseguenze sfavorevoli per l’imputato (e, a maggior ragione, per l’indagato). Evidente che ogni qual volta si palesasse una loro ingiustificata ed irragionevole violazione si prospetterebbe l’incostituzionalità della disciplina. Tuttavia, anche qualora non si volesse giungere a qualificare come propriamente penale la natura della responsabilità in parola, non potrebbero essere revocati in dubbio i principi costituzionali che governano il processo penale, riproponendosi ugualmente la necessità di verificare il loro rigoroso rispetto, pena – ancora – l’illegittimità della disciplina. Tale conclusione, sul piano dell’accertamento processuale dell’illecito, consegue proprio all’opzione processual-penalistica del legislatore. Infatti, l’aver affidato l’accertamento dell’illecito amministrativo degli enti al giudice penale in seno al relativo processo (oltre che l’aver attinto ai meccanismi imputativi e punitivi dell’universo penalistico) rappresenta qualcosa in più, in termini di garanzia, rispetto all’etichetta formale adottata dal legislatore. Poichè la ratio posta a fondamento della scelta del processo penale come luogo di accertamento della responsabilità della persona giuridica risiede proprio nella necessità di assicurare alla medesima standards di garanzie maggiori di quelli offerti in sede di procedimento amministrativo (sul paradigma delineato dalla l. 689 del 1981) e poichè tali garanzie affondano le loro radici nella Costituzione, ne consegue che le previsioni sovraordinate inerenti i diritti e le facoltà dell’imputato nel processo penale sono destinate ad assisterlo sia che questi abbia una natura fisica, sia che abbia natura giuridica, indipendentemente appunto dalla qualifica della natura della responsabilità chiamata in causa. Dunque, più che alimentare la diatriba sulla reale etichetta da attribuire alla responsabilità in esame, si è cercato di verificare la “qualità” dell’impianto garantistico offerto alla societas nel corso del procedimento di accertamento della medesima. Per questa via, si è constatato che la normativa, specie quella relativa alle cautele, appare poco rispettosa della Grundnorm scritta nell’art. 27 comma 2 Cost. da cui dipende il riconoscimento della presunzione di non colpevolezza dell’imputato. In effetti, il legislatore del 2001 pare ricorrere al processo penale, non tanto per perseguire le sue precipue finalità di accertamento dei fatti e di applicazione della pena, quanto piuttosto per realizzare impropri scopi di prevenzione generale e speciale. In altri termini, il processo viene utilizzato come “messaggio”, attribuendogli fini di stigmatizzazione, di intimidazione, di prevenzione e di rieducazione che non gli sono propri. Ciò è in particolar modo testimoniato dalle inedite finalità di recupero alla legalità dell’ente-imputato, che impregnano la disciplina relativa alle cautele. Nell’ambito dell’accertamento della responsabilità dell’ente le misure cautelari applicate contra societatem vengono, infatti, piegate ad esigenza di emenda e di rieducazione, servendo a propiziare l’adozione di condotte riparatorie o riorganizzative e non a tutelare esigenze funzionali al processo. La coincidenza tra tipologia delle cautele e la corrispondente morfologia delle sanzioni incide sull’identità funzionale delle prime, che finisce per essere eccessivamente appiattita sul crisma sanzionatorio. Proprio sul versante teleologico, infatti, viene meno l’essenza dell’istituito cautelare (annullando la differenziazione tra cautele e sanzioni), in quanto il periculum in mora è esclusivamente identificato con il rischio di reiterazione dell’illecito: ne scaturisce un intervento cautelare marcatamente orientato verso obiettivi di prevenzione speciale, vale a dire obiettivi di matrice extraprocessuale, certamente più coerenti con un intervento di tipo sanzionatorio. Si riaffacciano pertanto riserve d’ordine costituzionale non dissimili da quelle prospettate riguardo alla omologa previsione codicistica di cui all’art. 274 comma 2 lett. c c.p.p.. E’, in effetti, intuibile come il fine assegnato alle misure interdittive sottintenda una equivoca fungibilità tra cautele e sanzioni, di dubbia conformità al canone costituzionale di cui all’art. 27 comma 2 Cost. inteso come regola che vieta l’assimilazione dell’imputato al colpevole. In quest’ottica, la disciplina appare fortemente criticabile laddove essa consente che gli indizi di “illecito amministrativo” fungano da presupposto per interventi “educativi” finalizzati al recupero dell’ente alla legalità, lasciando intendere che l’ente sia ritenuto presunto colpevole ovvero – e la prospettiva non è certo più tranquillizzante – che l’accertamento della sua responsabilità sia comunque un fatto secondario rispetto allo scopo sotteso all’intervento cautelare. In questa prospettiva, il tratto marcatamente preventivo del sistema in esame sembra collidere con la ricerca di un giudizio sul merito: prevenzione e condanna sono strumenti distanti se analizzati nell’ottica degli strumenti impiegabili per perseguire l’una o l’altra. La società che intende provare nel processo la sua estraneità all’illecito amministrativo contestato rischia di essere assoggettata alla misura cautelare per il fatto di non essersi adeguata in itinere agli assunti dell’inquirente e il “periculum libertatis” potrebbe addirittura essere rinvenuto nella mancata ammissione dell’addebito mosso, ovvero nel silenzio mantenuto dall’ente sull’ipotesi di illecito formulata nelle indagini preliminari. E’ evidente che, sia nell’uno che nell’altro caso, viene minato il fondamento garantistico del divieto di attribuire rilevanza alle scelte difensive ai fini delle esigenze cautelari e viene negato il diritto al silenzio dell’ente, imponendogli impropri obblighi di allegazione e di collaborazione. Di dubbia conformità al principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza, questa volta inteso come regola di giudizio che impone all’accusa l’onere di dimostrare - oltre ogni ragionevole dubbio - la colpevolezza dell’imputato, appare altresì la disposizione di cui all’art. 6, relativa alla disciplina del criterio di imputazione soggettiva della responsabilità all’ente quando l’autore del reato presupposto risulti essere un soggetto apicale. Sul piano dell’accertamento processuale, tale previsione si traduce in un’impropria inversione dell’onere della prova. Per raggiungere l’esenzione dalla responsabilità, infatti, spetta all’ente provare – in via concorrente – l’adozione ante delictum di un efficace compliance program, l’inesistenza di lacune o inadempienze nel controllo svolto dall’organo di vigilanza appositamente istituito e l’elusione fraudolenta del modello di organizzazione e di gestione da parte del soggetto apicale. Il carattere concorrente delle condizioni da provare si risolve in una probatio diabolica, che incide sulla regola di giudizio secondo la quale il giudice pronuncia sentenza di esclusione della responsabilità dell’ente anche quando manca o è insufficiente o contraddittoria la prova dell’illecito amministrativo. Essa, infatti, troverà spazio solo laddove risulti dubbio che il reato presupposto sia stato commesso dai vertici nell’interesse o a vantaggio della società, ma quando l’incertezza attenga alle condizioni riportate nell’art. 6, il giudice dovrà pronunciare sentenza di condanna, con buona pace della regola consacrata nell’art. 27 comma 2 Cost. Apprezzamento merita, invece, il peculiare iter applicativo della misura cautelare interdittiva contra societatem. Infatti, con apparente incremento dello standard di garanzie tipiche del paradigma del codice di rito, che pospone l’interrogatorio dell’accusato all’adozione della misura cautelare, il procedimento applicativo delle misure cautelari contra societatem accoglie il modulo del contraddittorio anticipato. In effetti, la delibazione sull’applicabilità della misura interdittiva è iscritta nella cornice di un’udienza, pubblica o camerale, a seconda che la domanda venga presentata rispettivamente nell’ambito di un’udienza già fissata per l’esame del merito – aprendo una parentesi incidentale all’interno di questa – oppure al di fuori. L’innovazione è degna di nota, perché si riconosce nel contraddittorio tra parti contrapposte dinnanzi ad un giudice terzo lo strumento più efficace per garantire una decisione equilibrata, basata non sulla rappresentazione unilaterale dei fatti, ma sulla loro ricostruzione dialettica. La previsione che consente all’ente e al suo difensore di esaminare, presso la cancelleria del giudice, la richiesta del pubblico ministero e «gli elementi sui quali la stessa si fonda» prima della celebrazione dell’udienza garantisce, peraltro, l’effettività del contraddittorio. Non così, invece, la regolamentazione dell’udienza che segue. Infatti, quando l’istanza cautelare è presentata nella fase preliminare, l’udienza che ospita il contraddittorio ricalca il paradigma del procedimento camerale di cui all’art. 127 c.p.p. con scadenze più serrate. Tuttavia, la mancata previsione dell’obbligatoria (contestuale) presenza delle parti, da un lato, e la contrazione dei termini previsti per la fissazione e la celebrazione dell’udienza, dall’altro, incidono negativamente sull’effettività del diritto di difesa e, dunque, sul contraddittorio stesso. Sotto il primo profilo, infatti, è evidente che ridurre la presenza delle parti a mera facoltà sortisce l’effetto di limitare impropriamente il diritto al rinvio dell’udienza nel caso di legittimo impedimento del difensore. Invero, la rigorosa interpretazione della disciplina porta a concludere che l’unico soggetto abilitato a fare valere eventuali impedimenti, con correlativo diritto, sanzionato a pena di nullità, di ottenere il rinvio dell’udienza, è solo l’ente, nella persona del suo legale rappresentante, che abbia chiesto di essere sentito personalmente, ai sensi dell’art. 127 comma 4 c.p.p.. Ai fini dell’applicazione della misura cautelare, dunque, la presenza effettiva del difensore rischia di diventare irrilevante. Il dubbio sorge ove solo si consideri che qualora il difensore nominato rappresenti un suo legittimo impedimento per l’udienza camerale già fissata e chieda il rinvio dell’udienza, il giudice potrà disattendere la richiesta e nominare, in sua sostituzione, un difensore d’ufficio a norma dell’art. 97 comma 4 c.p.p., al quale tuttavia non è riconosciuto il diritto di ottenere un termine per la difesa ex art. 108 c.p.p., con evidente danno per la difesa del soggetto collettivo. Anche la contrazione dei termini previsti per la celebrazione dell’udienza appare idonea a comprimere impropriamente l’esercizio del diritto di difesa dell’ente. Invero, la particolare complessità dell’illecito amministrativo impone di garantire all’ente incolpato di disporre del tempo necessario per preparare la sua difesa in ossequio al disposto costituzionale dell’art. 111 Cost. Se si considera, però, che l’ente potrebbe venire a conoscenza del suo status solo con l’avviso di fissazione dell’udienza camerale per la decisione in ordine alla richiesta avanzata dal pubblico ministero, i cinque giorni di preavviso previsti per la celebrazione successiva dell’udienza appaiono davvero pochi per consentire all’ente di nominare un difensore, di costituirsi in cancelleria, di estrarre copia degli elementi depositati a sostegno della domanda cautelare, di esaminare tali atti, di effettuare investigazioni finalizzate alla produzione in udienza di elementi nuovi a favore dell’ente. Si corre, dunque, il rischio di vanificare il contraddittorio e di ridurre l’apporto della difesa a mera discussione del materiale presentato dal pubblico ministero. Infine, si evidenzia che, nella dinamica cautelare, il contraddittorio preventivo assolve ad una duplice e diversificata funzione per la persona giuridica: difensiva o collaborativa. L’ente, infatti, in quella sede può innanzitutto scegliere di difendersi contestando gli elementi addotti dall’accusa, assumendosi – come già evidenziato – il rischio di essere ritenuto soggetto “pericoloso” e, dunque di subire l’applicazione della misura interdittiva. Oppure, laddove essa intenda ottenere la sospensione della misura (ex art. 49), può manifestare, nel confronto con la pubblica accusa e davanti al giudice, la volontà di porre in essere gli adempimenti e le condotte riparatorie di cui all’art. 17. L’istituto da ultimo richiamato si pone in linea con la finalità special-preventiva tipica del d. lgs. n. 231 del 2001 e ha chiara natura premiale: esso tende ad incentivare le condotte di riorganizzazione idonee a ricondurre la politica d’impresa in linea con i canoni della legalità. Il ricorso a tale congegno premiale nella fase incidentale del procedimento di applicazione delle misure cautelari, tuttavia, suscita non pochi dubbi di costituzionalità per incompatibilità con il dettato di cui all’art. 27 comma 2 Cost., ancora una volta inteso come regola che vieta l’assimilazione dell’imputato al colpevole. In effetti, all’ente si chiede di attivarsi per rimuovere le cause dell’illecito prima che questo sia stato accertato con sentenza, anche non definitiva, e al giudice di decidere in ordine all’idoneità delle condotte riparatorie attuate utilizzando gli stessi parametri valutativi predisposti in sede di applicazione della sentenza di condanna. Con la non trascurabile differenza che, in sede cautelare, l’accertamento della responsabilità non è ancora avvenuto e la decisione si fonda su elementi indiziari provvisori ed incompleti. Tutto ciò senza considerare che la condotta di resipiscenza attuata dall’ente al fine di ottenere la sospensione della misura cautelare ha inevitabili riflessi in ordine al conseguente accertamento di merito, risolvendosi in ultima analisi in una rinuncia alla prova da parte della persona giuridica. In effetti, l’attività di ristrutturazione, che l’ente è spinto a realizzare per ottenere la sospensione e la successiva revoca della misura cautelare interdittiva, implica necessariamente il riconoscimento delle carenze organizzative e si trasforma in elemento a supporto della tesi accusatoria. Peraltro, il meccanismo di premialità così individuato si presta al rischio di strumentalizzazioni, laddove la cautela venisse concepita come utile strumento di pressione sull’ente per indurlo ad attuare condotte confessorie di “ravvedimento” post factum, impiego certamente contrario al canone costituzionale della presunzione di non colpevolezza, con sviamento della funzione tipica dell’istituto cautelare. Le reali prospettive di efficienza del sistema vanno (soprattutto) ascritte alla disponibilità di un apparato di cautele appositamente studiato per il soggetto collettivo sottoposto a processo: tanto che in sette anni di applicazione giurisprudenziale si contano quasi esclusivamente provvedimenti che attengono alle misure cautelari stesse. Esse, tuttavia, entrano in contraddizione con garanzie e principi fondamentali, frutto di una cultura liberal-democratica del processo, ritenuti “acquisiti” ed innegabili in una società che voglia definirsi non solo moderna ma anche civile.1885 14838