Scienze mediche
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- PublicationANALISI DELLA COMUNICAZIONE TRA PEDIATRA E MADRE ATTRAVERSO L'APPLICAZIONE DEL METODO F.A.C.S. DI P. EKMAN E W.V. FRIESEN(2007-07-25T06:40:37Z)
;GRECO, VANESSAKERMOL, ENZOABSTRACT In questo nostro lavoro abbiamo analizzato il rapporto pediatra – madre e bambino partendo dalla letteratura relativa a questo argomento, che ha avuto un particolare sviluppo negli anni successivi al 1960. L’originalità del nostro progetto consiste nell’aver utilizzato il sistema F.A.C.S – Facial Action Coding System - di P. Ekman e W. V. Friesen. Tale metodo consiste nella decodificazione delle espressioni emozionali del volto, quali sorpresa, paura, collera, disgusto, tristezza e felicità mediante le 44 unità d’azioni relative ai movimenti del volto e le 14 unità d’azione che rendono conto dei cambiamenti nella direzione dello sguardo e nell’orientamento della testa. L’applicazione del metodo F.A.C.S. ha permesso una codifica oggettiva delle emozioni e quindi dei parametri relativi alla relazione pediatra/madre. Sono stati esaminati 22 medici pediatri e 61 coppie genitore/bambino. I pediatri si dividevano in 8 pediatri maschi esperti e 8 pediatre femmine esperte; inoltre sono stati esaminati 6 pediatri specializzandi, di cui 4 femmine e 2 maschi. La metodologia applicata prevede l’uso di due videocamere che riprendevano contemporaneamente il volto del pediatra e quella del genitore/bambino. Le riprese avvenivano in 3 momenti della visita ambulatoriale: inizio, metà e conclusione. Dall’analisi dei filmati tramite il metodo F.A.C.S. risulta che tutti i pediatri hanno un ampio comportamento spaziale, un atteggiamento positivo e che l’emotività del loro volto è sempre presente. I pediatri specializzandi dimostrano maggiore perplessità/scetticismo rispetto ai pediatri esperti durante la visita. Nei pediatri specializzandi prevale la sorpresa (minore conoscenza della casistica rispetto ai pediatri esperti). I pediatri maschi dimostrano più perplessità nel corso della visita (in tutti i 3 momenti). Le pediatre femmine aprono e chiudono la visita col sorriso, mentre nel secondo momento prevale la sorpresa. I pediatri maschi partono e mantengono lo scetticismo/perplessità nel corso dell’intera visita. I pediatri maschi risultano meno socializzandi rispetto alle donne. Nel terzo momento prevale il sorriso sia nei pediatri esperti maschi/femmine sia nei pediatri specializzandi maschi/femmine. Da un punto di vista complessivo la difficoltà di comunicazione dei maschi può generare ansia/preoccupazione nei pazienti, mentre la bassa percentuale di perplessità da parte delle femmine genera maggiore rassicurazione durante la visita. In 40 casi su 61 è presente un solo genitore, mentre in 21 casi su 61 sono presenti entrambi i genitori. Tutti i genitori hanno utilizzati un ampio comportamento spaziale (l’avvicinarsi all’interlocutore, l’inclinazione del busto in avanti, l’ampia/scarsa o assenza di gesticolazione, l’irrigidimento del corpo, il ritrarre il busto all’indietro e il cambiare continuamente posizione). In 26 casi su 61 vi è stata un’ampia dimensione psicologica da parte dei genitori. L’emotività del volto dei genitori è sempre presente. La reazione emotiva dei genitori più frequente nel primo momento è il sorriso. I pediatri utilizzano prevalentemente tre emozioni nelle interazioni genitore/bambino durante le visite ambulatoriali. Le emozioni sono: sorriso, perplessità/scetticismo e sorpresa; a seconda del momento e della tipologia di pediatra queste si porranno in ordine diverso pur essendo costante il sorriso al primo e al terzo momento in tutte le variabili esaminate. Riguardo all’uso del sorriso si nota inoltre una prevalenza nelle pediatre femmine, perciò potremmo avanzare l’ipotesi che hanno migliori relazioni con i pazienti e facilitino la trasmissione di informazioni riguardanti le cure al bambino. Nei genitori vi è una più variegata serie di emozioni anche se prevale la reazione favorevole in chiusura di rapporto. Le emozioni in relazione ai due gruppi seguono un percorso omogeneo, cioè sorriso, perplessità, sorriso sia nei pediatri che nei genitori. Il genitore tendenzialmente (per circa 2/3) segue le emozioni espresse dal pediatra.1866 7380 - PublicationRuolo di integroni e di biofilm nell'antibiotico-resistenza in acinetobacter baumannii.(Università degli studi di Trieste, 2008-03-10)
;Morassutto, SabinaDolzani, LucillaAcinetobacter baumannii è un importante patogeno opportunista, noto per causare epidemie ospedaliere. Queste ultime sono quasi sempre sostenute da stipiti multiresistenti, che costituiscono un problema terapeutico. Se, da un lato, questo può venire affrontato con l’introduzione di nuovi farmaci, dall’altro può essere importante comprendere quali siano i meccanismi genetici che favoriscono la diffusione delle antibiotico-resistenze e quali possano essere le misure per contenerla. La rapidità con cui Acinetobacter baumannii appare in grado di acquisire nuovi determinanti genici di resistenza ha portato ad ipotizzare che gli integroni possano giocarvi un ruolo importante. Questi, infatti, costituiscono un sistema naturale di clonazione per cassette geniche contenenti determinanti di resistenza, che tendono ad accumularsi nel sito di ricombinazione. Gli integroni sono classificati in base alla sequenza del gene dell’integrasi, enzima responsabile dell’inserimento ed escissione delle cassette nel sito di ricombinazione; inoltre possono esser localizzati su elementi che ne favoriscono la mobilità, quali trasposoni o plasmidi. Questo lavoro ha perciò voluto approfondire lo studio di questi elementi genici in una raccolta di ceppi (58 in totale) che fosse quanto più possibile rappresentativa di quelli attualmente circolanti. Sono stati inclusi ceppi, non correlati epidemiologicamente, provenienti da diverse regioni d’Italia e d’Europa. La genotipizzazione molecolare dei ceppi ha permesso di suddividerli essenzialmente in tre gruppi: appartenenti al clone pan-Europeo I (n=20), al clone II (n=16) e ceppi sporadici (n=22). Questa suddivisione, ottenuta inizialmente con l’analisi di macrorestrizione, è stata confermata successivamente con il sequenziamento dei geni csuE e csuC, entrambi indispensabili per la formazione dei biofilm. Questa struttura, prodotta da diverse specie batteriche e poco studiata in A. baumannii, permette ai batteri di aderire saldamente a superfici e di proteggersi dall’azione di agenti esterni (antibiotici, sistema immunitario) mediante la produzione di uno slime costituito da esopolisaccaridi e proteine. Non sono stati trovati isolati attribuibili al clone III, che ha una diffusione molto più limitata degli altri e che non sembra circolare molto in Italia. La definizione di clone qui applicata indica semplicemente il riconoscimento di una discendenza comune (derivazione clonale, appunto) dei ceppi inclusi nel clone, cioè la derivazione da un comune, lontano progenitore. In accordo con studi precedenti, svolti sia in Italia che all’estero la frequenza di carriage di integroni di classe 1 è risultata elevata (62%). Bisogna considerare che la maggior parte dei ceppi che vengono comunemente isolati nella routine ospedaliera appartengono proprio ai principali cloni diffusi a livello europeo. Infatti, essi tendono, dopo aver causato focolai epidemici, a volte anche di modesta entità, a rimanere endemici negli ospedali. Il sequenziamento delle regioni variabili degli integroni di classe 1 ha confermato la presenza delle stesse cassette già trovate in studi precedenti nei ceppi dei cloni epidemici. Entrambi i cloni contengono sia la regione variabile di 2.5 Kbp che quella di 3.0 Kbp. E’ possibile quindi che esso sia stato acquisito anticamente, prima ancora della differenziazione nei due cloni e che la duplicazione della cassetta orfX, evento che differenzia le due regioni variabili, possa essere avvenuta in due occasioni separate. La localizzazione cromosomica di questi integroni e la possibile mancanza della transposasi nei ceppi del clone I lasciano supporre una loro ridotta capacità di trasferimento. L’ampia diffusione delle due versioni di questo integrone, quindi, potrebbe essere semplicemente il riflesso del successo dei ceppi che lo portano e non essere affatto dovuta a trasferimento orizzontale. Una parte dei ceppi del clone II possiede un integrone con una regione variabile diversa, sulla cui origine, allo stato attuale, non è possibile formulare ipotesi. Nei ceppi sporadici la frequenza di ritrovamento di integroni di classe 1 è bassa. Sono infatti risultati positivi solo due ceppi (9%), che hanno la stessa regione variabile, peraltro di frequente ritrovamento in ceppi di specie diverse. Entrambi sono stati isolati a Trieste e nello stesso ospedale, a distanza di 11 anni. Anche se la loro somiglianza, ottenuta con l’analisi di macrorestrizione, è piuttosto bassa (66%), non si può escludere che i due ceppi non siano correlati. La ricerca del gene int2* ha dato esiti positivi in 7 dei 58 isolati analizzati. La frequenza complessiva risulta essere quindi del 12%, molto più bassa di quella degli integroni di classe 1. Possiamo affermare, quindi, che gli integroni di classe 2 sono poco frequenti in A. baumannii, a conferma di quanto riportato in letteratura. In tutti i casi la localizzazione di intI2* era cromosomica e non è stato possibile amplificare sequenze di un trasposone associato. I risultati indicherebbero, quindi, che anche gli integroni di classe 2 sono poco mobili e che la loro presenza è legata soprattutto ad un sottogruppo del clone I. Per quanto riguarda le antibiotico-resistenze conferite da determinanti contenuti negli integroni di classe 1, queste riguardano alcuni antibiotici aminoglicosidici. Tuttavia, i ceppi portatori di integroni risultano tutti multiresistenti, con una media di otto resistenze ai vari antibiotici saggiati. Se, da un lato, questo risultato conferma la stretta associazione tra presenza di integroni di classe 1 e multiresistenza, dall’altro esso non è giustificato dal numero e dal tipo di determinanti contenuti nella regioni variabili degli integroni considerati. Una possibile spiegazione potrebbe essere costituita dall’inclusione di integroni in soprastrutture genetiche più complesse, contenenti altri determinanti. Oppure, più semplicemente, potrebbe accadere che quando un ceppo presenta tante resistenze è più probabile che alcune di queste siano trasportate da integroni. L’osservazione che all’interno degli integroni di classe 1 contenuti nei cloni epidemici era spesso presente la cassetta genica orfX, anche in duplice copia, ha portato ha dedicare una parte del lavoro alla determinazione della funzione del suo prodotto. La struttura predetta di quest’ultimo rivela un elevato grado di somiglianza con una famiglia di acetiltransferasi, la “GNAT superfamily”. Tra le funzioni delle proteine appartenenti a questa famiglia, vi sono la regolazione della trascrizione (istone-glicosiltransferasi) e la modificazione di antibiotici aminoglicosidici (aminoglicoside-acetiltransferasi). Il lavoro di questa tesi ha permesso di clonare il gene orfX dagli isolati di A. baumannii e di verificare la possibilità che la proteina conferisca ad E. coli la resistenza verso alcuni antibiotici. Dati preliminari indicano che il prodotto di orfX non conferisce resistenza agli antibiotici saggiati. Questi studi verranno comunque approfonditi, in primo luogo identificando la localizzazione sub-cellulare del prodotto di orfX, che gli esperimenti preliminari indicano come citoplasmatica. Si deve anche considerare che l’altro ruolo ipotizzato per la proteina codificata da orfX è quello di istone-acetiltransferasi, supportata anch’essa da dati di somiglianza. Questi enzimi hanno un importante ruolo nella regolazione dell’espressione genica negli eucarioti, in quanto l’acetilazione degli istoni porta allo svolgimento della cromatina e ad un aumento della trascrizione. La presenza di questo tipo di geni nei procarioti è gia stato documentato in Salmonella. E’ importante sottolineare che le infezioni polmonari sono tra le più gravi infezioni determinate da Acinetobacter e che recentemente alle istone-acetiltrasferasi è stato attribuito un ruolo di rilievo in molte delle comuni malattie polmonari in quanto promuovono l’attivazione di geni pro-infiammatori. Infine, il sequenziamento dei geni csuE e csuC ha permesso di dimostrare che gli alleli di entrambi i geni sono clone-specifici. Il gene csuC ha dato un’identità del 100% tra isolati appartenenti allo stesso clone, mentre gli alleli csuE differiscono per un solo nucleotide su 902. Gli alleli 1 e 2, corrispondenti ai due cloni epidemici, differiscono considerevolmente tra loro e dagli alleli trovati nei ceppi sporadici. Questi risultati, uniti a considerazioni sulla stabilità delle sequenze dei due geni, che, all’interno dello stesso clone, non hanno subito variazioni in ceppi isolati fino a 18 anni di distanza, portano ad affermare che il sequenziamento di uno dei due geni è sufficiente, da solo, ad identificare isolati appartenenti ai cloni epidemici I e II. Questo fatto potrà, in futuro, facilitare di molto la tipizzazione, ma anche consentire di identificare in tempi brevi ceppi dotati di un potenziale di virulenza elevato.2784 15853 - PublicationMast cell interaction with myelin and oligodendrocytes a new process in the pathogennesis of multiple sclerosis(Università degli studi di Trieste, 2008-03-14)
;Medic, NevenkaZabucchi, GiulianoRecentmente, sulla base di analisi morfologiche, biochimiche e genetiche delle lesioni dei pazienti affetti dalla SM e sul modello sperimentale della sclerosi multipla (SM), è stato proposto che i mastociti (MC) possano avere un ruolo nella patogenesi di questa malattia. Mastociti sono presenti sia nel sistema nervoso centrale (SNC) umano, sia in quello murino, e il loro numero aumenta in caso di alcune malattie. Nei topi, la maggior parte dei MC sono localizzati nel talamo e sono più degranulate nel modello sperimentale di encefalomielite allergica (experimental allergic encephalomyelitis, EAE), il modello sperimentale di SM. Componenti dei granuli di mastociti sono stati trovati nel fluido cerebrospinale dei pazienti colpiti da SM e, nelle lesioni di questi stessi pazienti, è stato trovato mRNA per proteine specifiche dei mastociti. Per quanto riguarda i modelli animali usati, i topi privi di MC (W/Wv) sviluppano una forma lieve di EAE, e, dopo la ricostruzione della popolazione di mastociti manifestano una patologia simile a quella dei topi wild type. Non è ancora chiaro il ruolo dei MC nello sviluppo della SM. Queste cellule potrebbero aumentare la permeabilità della barriera ematoencefalica (BBE), in seguito al rilascio di istamina, indurre la formazione dei peptidi encefalitogenici tramite l’attività proteinasica e presentare antigeni. Gli studi su topi W/Wv hanno dimostrato che i MC extracerebrali , possono innescare l’EAE suggerendo che l’attivazione dei mastociti al di fuori della sede di lesione può aumentare la permeabilità della BBB e, come conseguenza, promuovere l’entrata di linfociti T attivati nel SNC. Questa ipotesi richiederebbe tuttavia l’attivazione dei mastociti, evento il cui meccanismo è ancora sconosciuto. In alcune malattie demielinizzanti dell’uomo e degli animali, è stato visto che difetti nella fisiologia della mielina precedono lo sviluppo della malattia. Instabilità della mielina può portare alla vescicolazione degli oligodendrociti (ODC), processo che caratterizza le cellule endoteliali in caso di SM, e alla diffusione della mielina nell’ambiente extracellulare. Difetti della mielina possono essere il risultato dell’attività dell’enzima Peptidil Arginina Deaminasi (PAD), che converte residui di arginina in citrullina. Questo porta a una perdita di cariche positive, che rende la mielina sensibile alla vescicolazione e rende la MBP (myelin basic protein) più sensibile nei confronti dell’attività proteolitica. Musse e Harauz hanno riferito che Peptidil Arginina Deaminasi di tipo 2 (PAD2), presente nelle cellule mielinizzanti del SNC, può essere attivata da flusso di Ca2+ e può indurre modificazioni della MBP che portano alla perdita della struttura e stabilità della mielina, con apoptosi e rilascio dei epitopi encefalitogenici. L’incremento di deiminazione è un marker tipico della SM e di un modello sperimentale di SM; inoltre la MBP deiminato può indurre la frammentazione delle vescicole lipidiche. Esistono tanti esempi che danno supporto dell’ipotesi che l’instabilità della mielina può essere precedente alla malattia demielizzante. Tra questi sono inclusi pazienti con la forma cerebrale di X-linked adrenoleucodistrofia, il ceppo di ratti dmy, e il ceppo Lewis che over esprime le PLP, che presentano un basso livello di degenerazione della mielina ma svilupano una EAE più grave dei topi “wild type”. Inoltre è stato dimostrato che le cellule di oligodendroglioma rilasciano vescicole di mielina in coltura e così potrebbero indurre la diffusione di antigeni della mielina anche in sede extracerebrale. In caso di malattia demielinizzante indotta da Theiler’s Virus, la risposta immunitaria comincia con la presentazione di antigeni virali da parte di APC residenti in SNC alle cellule T CD4+. Anche in questo caso il danno agli ODC è precedente allo sviluppo della malattia. Un danno lieve agli oligodendrociti può indurre la vescicolazione della mielina e la sua diffusione. Come conseguenza, può essere innescata l’infiammazione ed il processo ripartivo, che potrebbe evocare la cascata di eventi che porta alle gravi lesioni degli oligodendrociti e neuroni nei pazienti SM. In conclusione è lecito considerare anche la possibilità che le risposte immunitarie ed infiammatorie, che caratterizzano le malattie demielinizzanti, possano essere una reazione ad processo neurodegenerativo, di natura sconosciuta. Le osservazioni riportate sopra, suggeriscono che la mielina stessa può essere il fattore nella cascata degli eventi che provoca autoimmunità. Di conseguenza, abbiamo ipotizzato che, le vescicole di mielina prodotte dagli oligodendrociti attraverso un processo degenerativo sconosciuto o le componenti della mielina usate per innescare l’EAE, possano interagire con i MC ed attivarli. Alcuni risultati suffragano di questa ipotesi. Per esempio, anticorpi di classe IgE anti-mielina sono presenti nel siero di alcuni pazienti affetti da SM, e possono essere presenti anche nel CSF di questi pazienti. Questi anticorpi, legati ad un antigene, possono stimolare direttamente i MC attraverso l’FcεR-I. Inoltre l’interazione dei mastociti con membrane provenienti da vari tipi di cellule (linfociti T, eosinofili, cellule Cajal, fibroblasti e le cellule endoteliali) induce l’attivazione e la maturazione dei MC: è quindi possibile che i MC possano essere attivati da mielina che rappresenta una parte specifica delle membrane degli oligodendrociti. Al fine di valutare la veridicità di questa ipotesi, abbiamo deciso di studiare il possibile ruolo delle vescicole di mielina (preparate da roditori sani ed EAE oppure da cervello umano), nell’innescare l’attivazione dei mastociti prelevati da peritoneo di ratto (RPMC). Abbiamo inoltre valutato l’eventuale interazione tra RPMC ed oligodendrociti provenienti da cervello di ratti neonati, in coltura. Nei nostri esperimenti abbiamo dimostrato che le RPMC aderiscono pozzetti coperti con mielina di topo o ratto, mentre più debole nei pozzetti rivestiti con BSA. Il grado di adesione è stato quantizzato con mezzi biochimici usando l’enzima chimasi come marker dei mastociti, e facendo riferimento ad una curva di taratura. Inoltre i RPMC aderiscono a pozzetti ricoperti con membrane dei neutrofili (PMN). Questi dati suggeriscono un’interazione tra RPMC e mielina di natura secifica. Le vescicole di mielina EAE inducono un incremento di adesione non significativamente diverso da quello riscontrato per la mielina isolata da cervello murino normale. I RPMC hanno mostrato un aumento dell’adesione paragonabile su pozzetti rivestiti da vescicole di mielina preparate da campioni autoptici di cervello umano. Per la purificazione della mielina, gli ODC vengono distrutti e le vescicole di mielina che ne derivano possono essere in conformazione sia “in-side out” (ISO), sia “right-side out” (RSO), e appaiono come delle strutture multi- o uni- lamellari. Le vescicole multi- o uni- lamellari, sono state separate e sembrano esercitare proprietà adesive non distinguibili nei confronti di MC di ratto. Per contro le vescicole RSO hanno proprietà pro-adesive (40,2±6,0%), mentre le ISO hanno bassa proprietà pro-adesiva (22,7±3,0%), simile a quella evidenziata nei pozzetti rivestiti da BSA. Visto che i pozzetti rivestiti da RSO stimolano l’adesione dei RPMC, in modo simile alle vescicole multi lamellari, abbiamo deciso di utilizzare quest’ultima preparazione (da cervello di ratto) per gli studi successivi. L’interazione con le vescicole mieliniche stimola fortemente il processo secretorio. Quest’ultimo è stato valutato dosando l’attività dell’enzima β-esosaminidasi (β-Exo) rilasciato da RPMC in contemporanea ai saggi di adesione sui pozzetti rivestiti da mielina. I PMN umani aderiscono sia alla mielina di ratto sia a quella di topo, ma la loro adesione non innesca il processo secretorio, valutato usando come marker l’enzima mieloperossidasi. Per avere ulteriori conferme sull’interazione tra mielina e MC, abbiamo deciso di utilizzare un saggio più preciso; a tal fine le vescicole di mielina sono state marcate con FITC e sono state utilizzate per l’analisi al citofluorimetro (FACS), dopo incubazione con RPMC. La mielina marcata con FITC si associa chiaramente ai RPMC in sospensione dopo 30 min di incubazione, confermando i dati ottenuti nel modello precedente. Avendo così dimostrato la forte adesione della mielina alle RPMC, ci siamo chiesti quale recettore potrebbe essere coinvolto. Siccome è noto che scavenger receptor A type I/II (SR/A type I/II) è responsabile dell’interazione tra macrofagi e mielina, ed i dati “in vivo” indicando la sua presenza su mastociti, abbiamo analizzato la possibilità che questo recettore potesse essere coinvolto nell’interazione tra mielina e mastociti. Usando la tecnica dell’immunoflurescenza abbiamo dimostrato che il recettore è presente sulla membrana di mastociti. Questo è stato confermato in analisi FACS e di Immunobloting. Per verificare se questo recettore è responsabile del riconoscimento della mielina da parte dei mastociti le vescicole di mielina marcate con FITC sono state incubate con mastociti e poi analizzate con FACS. Interazione è stata fortemente inibita dalla presenza dell’anticorpo anti SR-A. Forte inibizione è stata anche verificata con fucoidina (legando di SR-A) e con il peptide N-terminale usato per produrre l’anticorpo anti-SR-A. La tecnica di “quenching” con il trypan blue ha dimostrato che gran parte delle vescicole di mielina vengono ingerite da parte di mastociti durante i 30 minuti d’incubazione. Questa osservazione è stata confermata con la microscopia elettronica a trasmissione. Dopo il contatto con mielina i mastociti emettono lunghi e sottili pseudopodi, abbracciando e ingerendo le vescicole di mielina, ed alla fine rinchiudendole in un fagosoma. É stata osservata la secrezione dentro il fagosoma e nell’ambiente extracellulare. Al contrario neutrofili umani non sono in grado di ingerire mielina. Abbiamo trovato che mastociti producono e rilasciano anione di superossido durante l’interazione con la mielina. La quantità di superossido prodotta è paragonabile a quella prodotta da neutrofili stimolati con PMA, mentre più alta di quella prodotta dai macrofagi stimolati con mielina. I neutrofili umani non producono anione di superossido in presenza di mielina. Dopo aver dimostrato che RPMC interagiscono con la mielina, abbiamo deciso di indagare, usando il microscopio ottico ed elettronico, se RPMC sono in grado di interagire con oligodendrociti (ODC) in coltura. Le RPMC aderiscono al monostrato di ODC. L’adesione è sporadica corpi cellulari mentre è notevole su prolungamenti degli ODC. Anche i macrofagi aderiscono sul monostrato d’ODC in grado minore rispetto alle RPMC. Come nel caso dell’interazione tra vescicole di mielina e RPMC, il recettore anti-scavanger e il peptide N-terminale di SR-A, inibiscono in modo significativo l’interazione adesiva tra RPMC e ODC. I monostrati di ODC incubati con RPMC, vanno in contro a significative modificazioni morfologiche a partire da 90min di incubazione. Gli effetti sono osservabili già con l’aggiunta di 10000RPMC alle piastre di coltura. Queste alterazioni, osservate in tutti gli esperimenti effettuati, sono caratterizzate dalla contrazione del corpo cellulare e presenza di processi cellulari lunghi e sottili che connettono le cellule. I corpi cellulari e i nuclei sembrano più piccoli se paragonati a quelli di ODC non trattati. Inoltre le modificazioni coinvolgono tutte le cellule del monostrato, non solo quelle a cui si sono adese le MC, e ciò suggerisce che questo fenomeno sia dovuto al rilascio di fattori solubili prodotti dai mastociti. Lo stesso tipo do contrazione dei monostrati di ODC si è ottenuto aggiungendo alla coltura di ODC sonicato di RPMC o il medium di incubazione di RPMC stimolati con 48/80; anche l’istamina 0,1mM ha lo stesso effetto. Il meccanismo di questa alterazione è molto probabilmente dipendente dalle concomitanti modificazioni che abbiamo riscontrato negli ODC in presenza di RPMC. Gli ODC subiscono una forte modificazione sia a carico dei filamenti di actina, sia dei microtubuli in seguito all’adesione di RPMC, in confronto con ODC non trattati. La rete di actina appare impaccata attorno al nucleo, mentre l’assemblaggio della tubulina sembra più diffuso rispetto alle cellule non trattate, nelle quali si trova organizzata in agglomerati disposti lungo la trama di microtubuli. Riteniamo possibile che queste alterazioni siano determinate dall’ingresso di Ca2+ che abbiamo misurato negli ODC pochi secondi dopo l’interazione con RPMC usando la tecnica del “Ca2+ imaging”. In conclusione i nostri esperimenti suggeriscono che nella patogenesi dell’EAE e della SM umana un ruolo chiave possa essere giocato dall’interazione dei MC con la mielina, che, in diversi modi, può innescare e incrementare la reazione immune contro componenti della mielina e stimolare la progressione della malattia. Ipotizzando che le vescicole di mielina prodotte dagli ODC tramite il processo di vescicolazione causato dall’instabilità mielinica possa precedere e influenzare fortemente la progressione di EAE/MS tramite la stimolazione delle funzioni delle MC. Queste cellule possono incrementare la permeabilità della BBB, permettendo ad un maggior numero di linfociti T specifici per antigeni della mielina di raggiungere il cervello, inoltre possono presentare antigeni della mielina ai linfociti T.1646 2058 - PublicationIl sistema del complemento come strumento terapeutico nella terapia dei tumori.(Università degli studi di Trieste, 2008-03-14)
;Macor, PaoloTedesco, FrancescoIl cancro e le malattie cardiovascolari rappresentano le prime cause di morte nei paesi sviluppati; se queste ultime possono beneficiare di terapie chirurgiche e farmacologiche sempre più efficaci, i tumori, soprattutto alcuni tipi, continuano a rappresentare patologie con poche alternative terapeutiche. Nella maggior parte dei casi la chirurgia rappresenta la principale arma per eliminare le masse tumorali. La chemioterapia e la radioterapia cercano soprattutto di eliminare le cellule residue agendo sulla loro continua proliferazione, ma mancano di una reale specificità d’azione e causano ancora notevoli effetti collaterali. Le terapie più innovative puntano invece a sfruttare il sistema immunitario umano come meccanismo effettore. I tumori però derivano da cellule del nostro organismo ed il fatto che abbiano potuto svilupparsi dimostra che il nostro sistema immunitario non li riconosce come estranei e quindi non costruisce contro di essi un’efficiente risposta. I meccanismi effettori del sistema immunitario sono quindi potenzialmente in grado di distruggere in maniera selettiva le cellule tumorali e di causare in questo modo pochissimi effetti collaterali, ma necessitano di qualcosa che indirizzi e faccia partire la loro azione. L’utilizzo degli anticorpi monoclonali come strumento terapeutico vuole appunto sfruttare la loro capacità di raggiungere in maniera molto selettiva uno specifico bersaglio e di attivare di seguito il sistema immunitario. I meccanismi d’azione utilizzati dagli Ab, una volta legati alle cellule tumorali, si basano sull’induzione di processi apoptotici (in maniera dipendente dall’antigene a cui si sono legati), sull’attivazione della citotossicità cellulare e sull’attivazione della cascata complementare. Diversi autori hanno messo in risalto il fatto che gli anticorpi più efficaci in clinica sono proprio quelli con la maggior capacità di sfruttare quest’ultimo meccanismo. A differenza dell’apoptosi e della citotossicità cellulare, il complemento si basa su un sistema di proteine extracellulari che si attivano a cascata e portano alla morte della cellula tumorale, principalmente creando un poro transmembranario e provocando quindi la lisi osmotica del bersaglio. Il suo principale vantaggio sta proprio nell’azione rapida e diretta, che non necessita dell’attivazione di processi intracellulari (apoptosi) o del richiamo di cellule effettrici nella sede in cui si è sviluppato il tumore (citotossicità cellulare). Come detto però, non tutti gli anticorpi si sono dimostrati in grado di attivare la cascata complementare (1); altri, pur attivandola, non portano alla lisi della cellula bersaglio (2); altri ancora, pur avendo un buon effetto citotossico su cellule tumorali in vitro, si sono dimostrati poco efficaci una volta testati in vivo (3). In questi tre anni abbiamo voluto studiare le cause di questi insuccessi e abbiamo cercato di intervenire per proporre delle nuove strategie da utilizzare nell’immunoterapia dei tumori. 1. L’incapacità di attivare la cascata complementare, nella maggior parte dei casi, è da imputare ad un’insufficiente concentrazione degli antigeni associati al tumore; questo non permette di ottenere una congrua vicinanza tra gli anticorpi ad essi legati, che è la condizione essenziale perché attivino il sistema complementare. Utilizzando diversi anticorpi diretti contro epitopi distinti dello stesso antigene associato al tumore è stato possibile dimostrare che è possibile creare una densità anticorpale sufficiente ad ottenere buona attivazione complementare anche sfruttando molecole poco espresse sulla superficie delle cellule tumorali. Un effetto analogo si può ottenere anche utilizzando anticorpi diretti contro due diversi antigeni presenti sulla superficie delle cellule tumorali. 2. Le cellule tumorali derivano da cellule del nostro organismo e come tali esprimono sulla loro superficie delle molecole la cui funzione fisiologica è quella di inibire un’attivazione indesiderata della cascata complementare. Ne deriva che l’espressione, e spesso l’iper-espressione, degli inibitori di membrana del complemento sulle cellule tumorali riduce l’azione degli anticorpi e quindi la lisi delle cellule bersaglio. Sulla base di questo concetto abbiamo pensato di estendere la terapia anticorpale anche a queste molecole, isolando e caratterizzando degli anticorpi in grado di bloccare l’azione degli inibitori di membrana, affiancandoli poi ai comuni anticorpi terapeutici. In questo modo il sistema del complemento, attivato sulle cellule tumorali, non troverebbe ostacoli nella sua azione litica e potrebbe eliminare un maggior numero di cellule tumorali. 3. Se è ipotizzabile un’efficiente azione del complemento su cellule tumorali isolate o aggregati cellulari, è più difficile immaginare la riduzione di una massa tumorale già sviluppata solo attraverso la sua azione. Va ricordato che, se gli anticorpi possono diffondere nell’organismo, non è stata dimostrata la presenza di tutti gli elementi del sistema complementare nel micro-ambiente tumorale. E’ possibile quindi che anticorpi, con ottime prospettive dopo gli esperimenti su cellule in coltura, non dimostrino un reale effetto terapeutico negli esperimenti in vivo semplicemente perché manca il meccanismo effettore nella sede tumorale. Molte cellule dei distretti periferici, e le stesse cellule tumorali, possono produrre alcune proteine della cascata complementare, ma è indubbio che la maggior parte delle molecole del sistema del complemento sono prodotte dal fegato e circolano nel sangue. Creare dei danni ai vasi sanguigni intra-tumorali, oltre ad un effetto “anti-angiogenetico” diretto, permetterebbe quindi il passaggio delle proteine complementari dal circolo al micro-ambiente tumorale ed una migliore azione citotossica degli anticorpi antitumorali. A questo scopo abbiamo focalizzato la nostra attenzione sull’utilizzo di cellule endoteliali umane modificate geneticamente che possono venir reclutate dai vasi in via di formazione nelle masse tumorali ed in seguito venir lisate dal sistema del complemento in maniera specifica ed efficacie; in questo caso si indurrebbe, come auspicato, un aumento della permeabilità vascolare nelle regioni tumorali, con un passaggio di anticorpi anti-tumorali, proteine complementari e cellule effettrici proprio in quella sede. Con questi obiettivi ci siamo concentrati su alcuni modelli sperimentali: a) in primo luogo uno studio sul carcinoma ovarico utilizzando due anticorpi diretti contro due epitopi diversi di un antigene associato a questo tumore e che in precedenza, utilizzati singolarmente, non si erano dimostrati capaci di attivare il complemento. Questo studio è il risultato della collaborazione con l’Istituto Tumori di Milano ed in particolare con il gruppo della dottoressa Silvana Canevari, la quale ha potuto fornirci molti campioni prelevati da pazienti con carcinoma ovarico, utili per confermare i risultati ottenuti su linee cellulari. b) a fianco a questo ci siamo occupati delle leucemie linfatiche croniche, che esprimono sulla superficie cellulare due marker tumorali, CD20 e CD52, e contro cui sono diretti due anticorpi monoclonali utilizzati in clinica, Rituximab e Campath-1H. Sono state utilizzate cellule di pazienti con questa patologia, isolate e caratterizzate dal gruppo del dottor Valter Gattei del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano (PN). c) Il Rituximab, primo anticorpo entrato in clinica nella terapia dei tumori, esercita la sua azione principalmente in seguito all’attivazione del sistema complementare; tale azione risulta però limitata dalla presenza degli inibitori di membrana del complemento, come già da noi dimostrato in uno studio in collaborazione con il gruppo della dottoressa Josee Golay dell’Istituto Mario Neri di Milano e degli Ospedali Riuniti di Bergamo. Ogni linea di ricerca è partita con lo studio delle rispettive linee cellulari per avvalorare le idee proposte; i dati ottenuti sono stati poi confermati con analisi su campioni prelevati da pazienti o con modelli animali il più possibile rappresentativi della patologia umana. Una parte dei risultati sono stati oggetto delle pubblicazioni incluse, altri sono stati valorizzati dalla concessione di brevetti sulle molecole prodotte, altri ancora fanno parte di progetti tuttora in corso, ma nel loro insieme rappresentano la base di partenza degli studi che andremo a sviluppare in futuro.2569 18984 - PublicationEffetto antiapoptotico dell' IL-1ra nei miocardiociti ischemici-l'endotelio linfatico nella ricircolazione leucocitaria.(Università degli studi di Trieste, 2008-03-14)
;Gustini, Edoardo ;Dobrina, AldoVecile, ElenaEFFETTO ANTIAPOPTOTICO DELL’IL-1ra NEI MIOCARDIOCITI ISCHEMICI La morte di cellule cardiache per apoptosi è una fenomeno rilevante nelle cardiomiopatie ischemiche. Questo fenomeno è stato descritto nelle regioni peri-infartuali del miocardio nelle patologie coronariche e nel rimodellamento cardiaco dovuto a patologie ischemiche. L’attivazione, per via mitocondriale, della caspasi-9 gioca un ruolo fondamentale nell’apoptosi indotta da ischemia. Con questo lavoro si vuole dimostrare che: - l’antagonista recettoriale dell’interleuchina-1 (IL-1ra), che è catalogata come una citochina infiammatoria, è presente nei sieri di pazienti con una sindrome coronarica acuta a concentrazioni elevate. - l’IL-1ra è attivamente prodotta dalle cellule cardiache ischemiche. - l’IL-1ra inibisce, in vitro, l’attività della caspasi-9. - l’IL-1ra è una molecola che, in vivo, fa preservare i miocardiociti ischemici dalla morte per apoptosi. La scoperta di questa nuova funzione endogena dell’IL-1ra evidenzia l’importanza di questa proteina nel rimodellamento cardiaco, promuovendo la sopravvivenza dei miocardiociti nelle regioni ischemiche. Queste osservazioni pongono le basi razionali per iniziare a studiare possibili interventi terapeutici in specifiche patologie dove, con il controllo dell’apoptosi attivata per via mitocondriale, si potrebbero ottenere dei vantaggi sul piano clinico. L’ENDOTELIO LINFATICO NELLA RICIRCOLAZIONE LEUCOCITARIA La presente ricerca ha come obiettivo quello di mettere in evidenza il ruolo dell'endotelio dei vasi linfatici nella cosiddetta ricircolazione dei leucociti e nell’entrata nel circolo linfatico di cellule tumorali maligne in fase di metastatizzazione. Più precisamente il nostro obiettivo è quello di identificare quali chemochine prodotte dalle cellule endoteliali linfatiche siano implicate nella migrazione cellulare. Dopo aver confermato l’espressione di alcune chemochine da parte dell’endotelio linfatico, in particolare della C10, si è individuata la possibilità di costruire grazie ad una tecnica di silenziamento genico, l’RNAi, modelli sperimentali in cui le cellule con attività chemiotattica nei confronti delle cellule endoteliali linfatiche siano deficitarie dei recettori per la chemochina C10. Si è osservato che nelle cellule trattate diminuisce l’espressione dei recettori, confermando l’efficacia della tecnica di silenziamento genico utilizzata. Si è anche valutata la capacità delle cellule trattate di migrare verso un gradiente chemiotattico prodotto dalle cellule endoteliali linfatiche, constatando che le cellule trattate, dunque deficitarie del recettore, mostrano una minore capacità migratoria nei confronti del terreno condizionato dalle cellule endoteliali linfatiche. Si è anche constatato che, in vivo, le cellule deficitarie per i recettori della C10 hanno minore capacità di infiltrare il tessuto linfatico. Questi risultati convalidano la tesi che la chemochina C10 sia implicata nel processo di migrazione. Gli esperimenti precedentemente descritti sono sempre stati condotti su cellule murine; fino ad ora infatti esiste solo la possibilità di ottenere colture endoteliali linfatiche murine. Per poter studiare tali fenomeni nell’uomo si sta cercando di isolare cellule endoteliali linfatiche umane. A tale scopo si è prodotto in cavia un anticorpo che fosse specifico per la podoplanina umana. La podoplanina è una mucoproteina di membrana espressa dall’endotelio linfatico e non da quello vascolare, quindi costituisce un valido marcatore per distinguere questi due tipi di endotelio.2789 2809 - PublicationRole of p27Kip1 in cell proliferation and motility during oncogenic transformation.(Università degli studi di Trieste, 2008-04-01)
;Berton, StefaniaBaldassarre, GustavoIn many human cancers, p27 down-regulation correlates to a worse prognosis suggesting that p27 levels could represent an important determinant in cell transformation and cancer development. Using a mouse model system based on v-src-induced transformation, we show that p27 absence is linked to a more aggressive phenotype, with an increased cell growth and motility. In 3D systems, transformed p27null fibroblasts shift from a mesenchymal spindle-like shape to a more rounded cell morphology, accompanied by amoeboid-like morph-dynamics, membrane ruffling zones and loss of dendritic-like cell extensions. Importantly, the acquirement of an amoeboid motility in p27-/- transformed cells is associated with a higher ability to move in and colonize distant sites, in vivo. The reintroduction of different p27 mutants in transformed p27null cells clearly demonstrates that the control of cell proliferation and motility by p27 represents two distinct functions, both necessary to fully act as a tumor suppressor. In fact, while the N-terminus region is necessary to block cell proliferation, p27 controls cell shape and motility through its C-terminus domain. Interestingly, both the proliferative and motile advantage displayed by v-src-transformed p27-/- cells highlighted also after transformation with the oncogene Ha-Ras, suggesting the existence and the involvement of common pathways responsible for p27 functions. All together, our results demonstrate that p27 expression is an important determinant both in the first steps of cell transformation and tumor establishment as well as in the following progression to tumor dissemination and colonization of distant sites. Moreover, our study demonstrate for the first time that p27 can affect the motile and the invasive behavior by driving and regulating cell plasticity that, in turn, influences tumor cell morphology and movement.940 1848 - PublicationGenomic variability of host factors in AIDS: role of antimicrobial peptides resistance to lentiviral infections.(Università degli studi di Trieste, 2008-04-15)
;Milanese, MicheleCrovella, SergioL’AIDS è una delle maggiori pandemie in corso sulla Terra. Sfortunatamente l’elevato tasso di mutazioni del virus impedisce agli immunologi di trovare un vaccino efficiente contro il suo agente eziologico: il virus HIV-1. I peptidi antimicrobici sono una classe di importanti molecole coinvolte nella risposta immunitaria innata caratterizzati sia da attività sia antibatterica che antimicrobica e che, visto il loro ruolo come barriera primaria contro i patogeni, probabilmente ricoprouno un ruolo rilevante nella trasmissione e nell’infezione da HIV-1, probabilmente intervenendo nel sito dell’infezione per fornire una prima barriera contro l’ingresso del virus. Molti studi hanno evidenziato il ruolo anti-HIV-1 dei peptidi antimicrobici; nonostante ciò nessuno degli studi fatti prende in considerazione il fatto che differenti classi di peptidi antimicrobici possano cooperare in maniera sinergica, essendo presenti contemporaneamente sul sito dell’infezione. Nel nostro lavoro siamo stati in grado di studiare il ruolo di polimorfismi (SNP) a carico di differenti geni dell’immunità innata nell’infezione e nella trasmissione verticale in un gruppo di bambini brasiliani provenienti dalle zone più povere di Recife e dei suoi sobborghi. I gruppi che abbiamo studiato sono stati: controlli sani con la stessa origine etnica dei pazienti (l’origine etnica è stata verificata mediante sequenziamento della regione D-loop mitocondriale), pazienti infetti nati da madri sieropositive e bambini esposti al virus che nonostante siano nati da madri HIV-1 positive non hanno contratto il virus. In nessun caso le madri sono state sottoposte a taglio cesareo o a terapia antiretrovirale prima del parto per ridurre il rischio di trasmissione virale. Siamo stati in grado di dimostrare che due polimorfismi nella regione 5’UTR del gene DEFB1, e precisamente il -20(G/A) ed il -52(G/A), sono in grado di influenzare la suscettibilità all’infezione da HIV-1. Inoltre abbiamo evidenziato, mediante studi in vitro, che questi polimorfismi, assieme al polimorfismo -44(G/C), possiedono un’attività funzionale sulla trascrizione del gene. Siamo anche stati in grado di mostrare che un polimorfismo nel gene LTF, codificante la proteina lattoferrina, è fortemente correlato con una protezione dall’infezione da HIV-1. Il polimorfismo in questione, l’R29K, conferisce una maggiore attività antimicrobica alla lattoferrina e modifica la sequenza aminoacidica della regione N-terminale della proteina, la lattoferricina. Gli studi sulla sequenza del gene hCAP18, codificante per l’unica catelicidina umana conosciuta, LL37, non hanno dato risultati significativi. Non siamo riusciti ed evidenziare alcun polimorfismo non-sinonimo nei pazienti presi in esame. Siamo tuttavia stati in grado di identificare alcune nuove mutazioni che, sfortunatamente, sono troppo rare per avere una significatività statistica. Il locus defensinico 8p23 è conosciuto per essere soggetto ad un elevato tasso di ricombinazione. Di conseguenza molti dei geni delle defensine umane possono essere presenti in un numero di copie variabile, fatto che può influenzare l’espressione proteica di questi geni. Abbiamo quindi impiegato la tecnica dell’MLPA per studiare l’influenza del numero di copie dei seguenti geni: DEFA4, DEFA5, DEFA6, DEFB1, DEFB4, DEFB107B, DEFB108, DEFA3, DEFA7, DEFB4, DEFB103A, DEFB104, DEFB105, DEFB106, e DEFB107B. Abbiamo mostrato come un basso numero di copie del gene DEFB104 aumenta significativamente il rischio di infezione da HIV-1. Studi funzionali hanno poi evidenziato come l’espressione dell’mRNA sia linearmente dipendente dal numero di copie del gene DEFB104 presenti nel genoma. Non c’era alcun tipo di correlazione tra gli altri geni studiati e l’infezione o la trasmissione verticale del virus HIV-1. Inoltre, per rafforzare il nostro studio, abbiamo svolto delle indagini su altri geni dell’immunità innata, diversi da quelli delle defensine: MBL2 e la sua serin-proteasi associata (MASP2). Siamo stati in grado di evidenziare come gli aplotipi di MBL2 caratterizzati da una maggiore produzione di MBL siano protettivi nei confronti dell’infezione da HIV-1. I polimorfismi studiati sono stati il 52 Arg-Cys, il 54 Glu-Asp ed il 57 Glu-Gly nel primo esone di MBL2 e il -550(G/C) ed il -221(G/C) nel promotore del gene. Abbiamo anche genotipizzato i nostri gruppo per polimorfismi nel gene . 52 Arg-Cys, 54 Glu-Asp and 57 Glu-Gly, che è funzionalmente complementare ad MBL. Non abbimo trovato genotipi o aplotipi di rischio per i polimorfismi D105G e R99K. In conclusione siamo stati in grado di dimostrare che polimorfismi in molti geni dell’immunità innata possono influenzare l’infezione da HIV-1 e la sua trasmissione da madre a figlio, fornendo quindi un obiettivo per studiare nuove strategie per combattere la diffusione dell’HIV-1. Bisogna notare, tuttavia, che non si può dedurre una regola generale dai dati ottenuti, in quanto sembra che, almeno nel caso dell’HIV-1, l’immunità innata può ricoprire un ruolo duplice, in quanto una ridotta espressione genica a volte inibisce l’attività di HIV-1 e a volte la promuove.1096 2077 - PublicationMuscle catabolic mechanisms:from disuse atrophy to cachexia.(Università degli studi di Trieste, 2008-04-15)
;Bosutti, AlessandraBiolo, GianniThe phatophysiology of muscle atrophy is a complex multifactor process, which occurs in response to environmental solicitations, injury, various disease states, disuse and normal aging. Persistent low-grade or acute activation of inflammatory/oxidative cascade, acute stress, altered energy intake, or reduced mechanical action, contribute to muscle decline, as well as to the progression of chronic and acute associated disease. Elevated concentrations of pro-inflammatory markers have also devastating effects on the vasculature and are implicated in the pathogenesis of atherosclerosis, which at peripheral level contributes to muscle suffering. A more understanding of the molecular relationships underpinning muscle atrophy, inflammation and cardiovascular risk in different human clinical models should be helpful to design new therapies to the recovery of muscle. Thus, we investigated the effect of some effectors of inflammatory/oxidative responses on muscle atrophy, inflammation and cardiovascular dysfunction, in chronic, acute or healthy conditions. We explored: a) the interaction between energy restriction and muscle unloading in the regulation of lean body mass, protein kinetics or inflammatory response in healthy subjects; b) the links among inflammation, organ failure, cardiovascular risk and cytokine genotypes, in models of chronic muscle atrophy; c) the cross-interaction connecting translational machinery, proteolysis and apoptotic response with skeletal muscle atrophy induced by acute stress. We highlighted a link between inflammatory process, cardiovascular risk and muscle unloading, likely involving leptin hormone and the long pentraxin PTX3; the latter may represent a novel key of reading of some bed-rest effect on vasculature or inflammatory system. Cytokine genotypes (interpheron-gamma), and the extent of renal functions on cytokine clearence, may account of intraindividual variability and vulnerability to the process. Finally, we gained knowledge about a novel catabolic mechanism, involving the eukariotic elongation factor EEF1A1 and the stress response protein p66(ShcA) in acute muscle atrophy. We suggest that, a more controlled energy intake combined with various exercise regimes might protect from the effects of unloading and may be a reasonable approach to maintain muscle mass in health but also in disease conditions.1285 3040 - PublicationStudy of the regulation of BDNF protein synthesis and BDNF protein levels for clinical applications.(Università degli studi di Trieste, 2008-04-15)
;Leone, Emiliano ;Tongiorgi, EnricoCanossa, MarcoBrain Derived Neurotrophic Factor (BDNF), a member of the family of neurotrophins, is a key molecule involved in growth, development and modulation of neuronal system. Due to its critical role in a large number of neuronal processes including synaptic plasticity, BDNF altered function and levels are associated even more strongly with many different neuropsychiatric disorders such as schizophrenia and the associated cognitive impairment. In this PhD thesis, we demonstrated that BDNF, which mRNA is transported into dendrites in response to neuronal stimulation, is capable to be translated directly in the dendritic compartment after electrical stimulation. Considering that local protein synthesis (LPS) in dendrites is commonly accepted as a mechanism strongly involved in synaptic plasticity and cognitive processes, we designed a cellular assay based on the detection of BDNF LPS, capable to identify developing compounds able to improve cognitive performances in patients affected by neuropsychiatric disorders. In addition, we studied BDNF protein levels in serum of schizophrenic subjects, finding an alteration of the ratio between BDNF and its precursor form (proBDNF), known to elicits biological effects opposite to mature BDNF on neuronal system. Based on this evidence, we developed an ELISA kit for the measurement of proBDNF/BDNF ratio that could represent a powerful tool for diagnosis of psychosis and for the follow-up of the medical treatment.1366 3967 - PublicationLa prevenzione dell'obesità negli adolescenti.(Università degli studi di Trieste, 2008-04-17)
;Daris, SaraTecilazich, DomenicoIntroduzione: L'epidemia di sindrome metabolica ha origine multifattoriale: una delle cause è lo scorretto stile di vita adottato in giovane età. Obiettivo: Lo studio si propone di testare l'efficacia di un intervento di promozione alla salute che prevenga e modifichi positivamente le abitudini dei giovani preadolescenti. Metodi: Stiamo conducendo uno studio longitudinale caso/controllo, triennale, su 111 alunni frequentanti la scuola secondaria di primo grado di Trieste. Desideriamo verificare se gli alunni esposti ad interventi di promozione alla salute ripetuti e diversificati migliorano le abitudini ed aumentano le loro conoscenze in materia d'attività fisica (AF), alimentazione, fumo di tabacco e doping. Tali variazioni vengono valutate mediante misurazioni antropometriche (indicatori d'effetto), test motori, questionari self-reported (indicatori di risultato atteso), questionari di valutazione delle conoscenze (indicatori d'attività), ripetuti nel tempo. Risultati: Gli allievi del gruppo esposto hanno implementato il loro livello di conoscenza (indicatori d’azione) in tutte le macro-aree. Gli indicatori di risultato atteso hanno evidenziato dei risultati statisticamente significativi nell’area dell’AF nel test di resistenza cardiovascolare e nella riduzione delle ore trascorsi seduti. Non emergono differenze statisticamente significative per nessuno degli indicatori d’effetto, anche se i dati indicano un trend positivo per quanto riguarda il BMI; l’assenza di risultati è imputabile al fatto che le ricadute su questi indicatori sono a lungo termine. Conclusioni: Sarebbe auspicabile effettuare gli interventi lungo tutto il ciclo di studi perchè con il crescere dell’età e, quindi, delle conoscenze di base, i temi possono venir affrontati in modo più complesso ed approfondito. Il tema dell’educazione alla salute dovrebbe essere sostenuto da una maggior volontà socio-politica capace di coivolgere tutti i livelli della società.1410 21329 - PublicationImplementazione e valutazione di interventi di prevenzione dell'obesità in età evolutiva(Università degli studi di Trieste, 2008-04-17)
;Bruno, Irene ;Ventura, AlessandroCattaneo, AdrianoABSTRACT Descrizione generale del progetto L’obesità è globalmente riconosciuta come un problema di salute pubblica di proporzioni epidemiche. Questo riconoscimento è ufficiale anche in Italia ed il fenomeno non risparmia i bambini. L’OMS ha approvato nel 2004 una Strategia Globale su Dieta, Attività Fisica e Salute e ha chiesto ai governi di tradurre queste raccomandazioni in piani d’azione nazionali e locali. Non è chiaro, tuttavia, quali interventi ed attività debbano essere inclusi in questi piani d’azione. Obiettivi del progetto Obiettivo principale del progetto era quello di valutare fattibilità e risultati a breve termine di interventi, conformi alle raccomandazioni dell’OMS, volti a promuovere l’attività fisica e una sana alimentazione in età prescolare e scolare in due regioni italiane: Friuli Venezia Giulia e Toscana. In pratica, il progetto si prefiggeva di: · Identificare interventi ed attività teoricamente efficaci; · Valutarne la fattibilità nell’ambito di un approccio partecipativo e multisettoriale; · Stimarne i costi ed i possibili benefici; · Elaborare linee guida per l’estensione di tali interventi a livello regionale e nazionale. Attività svolte in Friuli Venezia Giulia con particolare attenzione a Trieste 1. Dopo un’ampia revisione della letteratura (articoli, revisioni sistematiche, raccomandazioni OMS, Green Paper dell’Unione Europea) e utilizzando esperienze nazionali ed internazionali (linee guida e piani nazionali e locali), sono stati identificati gli interventi e le strategie da proporre in tema di prevenzione del sovrappeso e dell’obesità nei bambini. La maggior parte di questi programmi e progetti sono risultati efficaci nel modificare alcuni comportamenti; ad esempio, nell’aumentare il consumo di frutta e verdura o le ore di attività fisica; nessuno di questi programmi, tuttavia, si è dimostrato inequivocabilmente efficace nel modificare la percentuale dei bambini in sovrappeso ed obesi. La mancanza di risultati è stata da molti attribuita al fatto che finora gli interventi sono stati settoriali. L’obesità ha una genesi multifattoriale, per cui è probabile che solo interventi complessi e multisettoriali riescano a prevenirla intervenendo, oltre che sugli stili di vita ed i comportamenti, sul marketing degli alimenti, sui mass media, sui trasporti…; su tutti quei fattori ambientali cioè, che determinano i comportamenti. E’ risultata quindi evidente la necessità di mettere in atto strategie ed interventi multidisciplinari ad ampio spettro e di lunga durata. 2. Sono state quindi definite le aree di studio e di intervento nella nostra regione. Nella provincia di Trieste sono stati scelti il comune di Muggia come area di intervento e quello di Duino/Aurisina come area di controllo. Nella provincia di Pordenone sono stati scelti i comuni di Pordenone e di Azzano Decimo. 3. Nei distretti sanitari interessati dal progetto sono stati identificati i potenziali interlocutori per l’intervento: amministrazioni comunali, associazioni, famiglie, consigli scolastici, distretti ed operatori sanitari. Con questi interlocutori sono state discusse: · Le informazioni disponibili sul sovrappeso e sull’obesità nei bambini e sulle loro conseguenze per la salute; · Le strategie raccomandate, con particolare riferimento a quelle indicate dall’OMS, e gli interventi possibili; · Le evidenze disponibili sugli interventi preventivi già sperimentati in altri luoghi e descritti in letteratura; · Le modalità di raccolta dei dati locali ed i risultati preliminari della ricerca. 4. Questi stessi interlocutori hanno iniziato ad identificare, assieme ai responsabili del progetto, la combinazione di interventi da realizzare nei comuni, nelle scuole e nei servizi sanitari, e a definire i relativi piani d’azione. E’ stata creata così una rete di collaborazione e dialogo che ha permesso l’attuazione di interventi combinati. 5. Parallelamente si è avviata una ricerca per raccogliere dati di base su abitudini alimentari e di attività fisica in un campione di bambini in età scolare (in due fasce d’età: 6-7 e 8-9 anni). 6. E’ stato predisposto un database. I dati ottenuti sono stati rielaborati e hanno fornito un quadro generale sulle abitudini alimentari e di attività fisica dei bambini della nostra regione. 7. Altre attività collegate al progetto, sia a Trieste che a Pordenone, sono state: · La progettazione e partecipazione a giornate di formazione con le insegnanti della scuola primaria e della scuola dell’infanzia sulle problematiche relative all’obesità in età pediatrica e i possibili interventi di prevenzione. · La rilevazione, del BMI in un campione di bambini (e dei rispettivi genitori) del 1° e 5° anno della scuola primaria in tutta l’ASS6. · Numerosi incontri con il gruppo regionale di pianificazione dell’assessorato alla salute del Friuli Venezia Giulia per identificare le azioni da inserire nel piano regionale. Si prevede ora, la presentazione e discussione dei risultati ottenuti con i partners, l’elaborazione di articoli scientifici e divulgativi, la stampa e la disseminazione degli articoli. È previsto un follow up con raccolta di dati su alimentazione ed attività fisica ogni due anni sullo stesso campione di bambini, ed il monitoraggio del grado di realizzazione delle attività. In questa fase è prevista la divulgazione tramite mass-media del progetto e la sua pubblicizzazione in modo da ottenere il consenso e la massima adesione della popolazione coinvolta. Trasferibilità dei risultati e dei prodotti Gli interventi giudicati fattibili, anche in termini di risorse e di costi, ed i piani d’azione locali, considerati come modelli, potranno essere proposti ai governi regionali e nazionale per l’elaborazione dei loro piani d’azione, ma anche per la revisione di leggi, regolamenti e politiche soprattutto per quanto riguarda produzione e commercializzazione di alimenti da un lato e promozione di mezzi di trasporto che comportino attività fisica. Al momento altri due comuni della regione sono stati coinvolti nel progetto: Fogliano e Cormons, con la collaborazione della pediatria dell’ASS2 e il dipartimento di prevenzione dell’ASS2. Questo progetto è stato inserito anche nella rete HPH (Health Promoting Hospitals) dell’isontino e presentato al congresso nazionale HPH. Conclusioni Questo lavoro ha permesso di ottenere i risultati finora esposti, e, soprattutto, visto che la messa in atto di questi interventi, prevede un approccio multisettoriale, il progetto ha promosso e continuerà a promuovere la creazione di reti locali che condividono gli stessi obiettivi. Scopo dello studio era valutare la fattibilità di interventi di prevenzione dell’obesità in età infantile. I dati sono ancora pochi, quello che per ora sappiamo è che gli interventi, una volta creata una rete affiatata di operatori, sono fattibili. Anche l’“esportazione” del progetto sembra, al momento, aver prodotto risultati vista la facile adattabilità del percorso e degli interventi proposti a Trieste e Pordenone anche ai comuni di Cormons e Fogliano. Nulla possiamo ancora dire, invece, sull’effettiva capacità di questi progetti di ridurre il rapido incremento di sovrappeso e obesità nei bambini, a cui stiamo assistendo negli ultimi 20 anni. Gli effetti del progetto in termini di cambiamento di abitudini alimentari, di attività fisica ed eventualmente di riduzione di prevalenza di sovrappeso e obesità, potranno essere misurati solo a distanza di anni seguendo le coorti dei bambini coinvolti fino alla conclusione del ciclo delle scuole medie.1662 11846 - PublicationAnoressia nervosa in adolescenza: aspetti psicopatologici e dimensioni di personalità(Università degli studi di Trieste, 2008-04-17)
;Leccese, AntonioGandione, MarinaQuesto studio rappresenta un tentativo di esplorare, attraverso il ricorso a strumenti psicometrici, i tratti psicopatologici e di personalità in pazienti con disturbo della condotta alimentare in età evolutiva e di correlarli con l’evoluzione della malattia. I due gruppi diagnostici presi in considerazione sono l’Anoressia Nervosa di tipo Restrittivo e il Disturbo Alimentare non Altrimenti Specificato (NAS o ED-NOS) con caratteristiche restrittive.2801 79273 - PublicationI rischi della procreazione medicalmente assistita(Università degli studi di Trieste, 2008-04-17)
;Pozzobon, Cristina ;Ricci, GiuseppeRicci, GiuseppeIntroduzione Le procedure di procreazione medicalmente assistita (PMA) si sono diffuse in maniera amplissima negli ultimi anni. L’OMS ha stimato che circa il 10% delle coppie nell’esperienza mondiale si troverà ad affrontare un “problema” di infertilità. Mentre oggetto di numerosi studi sono state l’efficacia e le complicanze a breve termine delle tecniche di riproduzione assistita (ART), poco o nulla è noto relativamente ai rischi a medio e lungo termine per la donna sottoposta a terapie di stimolazione dell’ovulazione. Altrettanto poco noti sono gli effetti delle varie tecniche di riproduzione assistita sui nati. In Italia la legge prevede un registro nazionale delle strutture autorizzate all’applicazione delle tecniche di PMA, degli embrioni formati e dei nati a seguito dell’applicazione delle tecniche medesime, ma non fa riferimento al follow-up dei nati e delle coppie. Obiettivi dello studio I Obiettivo: mettere a punto ricerche di laboratorio e cliniche atte ad individuare fattori di rischio e fattori predittivi per i rischi della PMA. I I Obiettivo: elaborare un sistema di rilevamento e monitoraggio delle complicanze della PMA, da utilizzare nel nostro centro, e che potrebbe essere diffuso a livello regionale, ed eventualmente nazionale. Materiali e metodi I Obiettivo: ricerca di base svolta in collaborazione con S.C. Genetica Medica e S.C. Neuropsichiatria Infantile dell’ IRCCS Burlo Garofolo, Centro di Riproduzione Assistita dell’Universitá di lingua fiamminga di Bruxelles, Instituto Valenciano de Infertilidad di Barcellona. II Obiettivo: elaborazione di schede di monitoraggio Risultati I Obiettivo: - pubblicazione 1 articolo su Fertil Steril gennaio 2006 dal titolo: Incidence and prediction of ovarian hyperstimulation sindrome in gonadotropin-releasing hormone antagonist in vitro fertilization cycles. - messa a punto del progetto di ricerca sulla ricerca e quantificazione di sequenze mitocondriali paterne in amniociti di pazienti sottoposte a trattamento di fertilizzazione con ICSI e analisi dei dati ottenuti da 10 famiglie. - collaborazione al RCT sulla prevenzione della Sindrone da Iperstimolazione ovarica con chinagolina II Obiettivo: - messa a punto 2 schede per il monitoraggio delle gravidanze ottenute da tecniche PMA, testate all’interno del Centro PMA dell’IRCCS Burlo Garofolo e proposte a livello regionale - collaborazione con l’ISS per l’elaborazione di un Registro Nazionale PMA e la successiva raccolta dei dati1679 3692 - PublicationAccuratezza e correlazione istologica degli anticorpi anti actina nella diagnosi di malattia celiaca.(Università degli studi di Trieste, 2008-04-17)
;Fabbro, ElisaNot, TarcisioLa celiachia (CD) è un’enteropatia immuno-mediata scatenata dall’ingestione di glutine in soggetti geneticamente predisposti. La prevalenza di questa patologia varia tra 1/100 e 1/300; nella sua forma tipica si manifesta con diarrea, malassorbimento, e deficit di crescita, ma è ora noto che esistono molte forme atipiche, con eterogeneità di manifestazioni spesso extraintestinali, o addirittura forme asintomatiche che sfuggono alla diagnosi. Per la diagnosi abbiamo oggi a disposizione markers sierologici molto sensibili e specifici, ma in ogni caso la conferma di celiachia prevede l’esecuzione di una biopsia intestinale che dimostri le tipiche alterazioni istologiche. Recenti lavori hanno evidenziato che in una buona percentuale di soggetti con celiachia vengono prodotti, oltre agli anticorpi anti-Endomisio e anti-Tranglutaminasi, presenti nella quasi totalità dei pazienti, gli anticorpi anti-Actina (AAA) e dal momento che questi sembrano correlare strettamente con la severità della lesione intestinale sono stati proposti come markers sierologici di danno istologico La messa a punto di una metodica standardizzata in grado di dosarli potrebbe quindi risultare molto utile e potrebbe già nell’immediato futuro rivoluzionare la diagnostica della malattia celiaca in quanto una semplice indagine sierologica, non invasiva e di basso costo, che preveda il dosaggio degli anticorpi anti-Transglutaminasi (noto test ad elevata sensibilità e specificità) unitamente a quello degli anticorpi ani-Actina, potrebbe rappresentare una valida alternativa alla biopsia intestinale. In questo contesto si inserisce il progetto relativo al mio Dottorato di Ricerca. Lo studio si propone infatti di confermare i risultati precedentemente ottenuti e di mettere a punto un procedimento operativo semplice e ripetibile. In una prima fase il dosaggio degli anticorpi anti-Actina è stato eseguito mediante un test di immunofluorescenza indiretta su sieri opportunamente trattati.;si è notato, infatti, che un pretrattamento fisico (riscaldamento a 56°C per 45 minuti) o chimico (aggiunta di EDTA a una concentrazione 0,1mM) dei sieri inibisce una proteina, la Gelsolina, che, se presente, maschera il legame Actina-anticorpo rendendo il test poco sensibile. Da questo studio è emerso che la presenza degli anticorpi anti-Actina correlava con la severità della lesione intestinale. E’ stata poi valutata la validità del test mediante il calcolo statistico di sensibilità e specificità e tramite la misurazione della discordanza tra la lettura di più operatori.diversi . Il lavoro svolto ha purtroppo dimostrato una bassa sensibilità e specificità di questo test in particolare se confrontato con la metodica ELISA classica utilizzata per la ricerca degli anticorpi anti Transglutaminasi tessutale nei sieri dei pazienti celiaci. Lo screening di una libreria totale di paziente celiaco ha permesso di identificare alcuni cloni anti Actina positivi che producono un pattern d’immunofluorescenza del tutto identico a quello dei sieri AAA positivi trattati .Questo dimostra che gli anticorpi selezionati da librerie totali sono gli stessi di quelli presenti nel siero dei pazienti celiaci e che il trattamento chimico e fisico non altera il sito di legame antigenico ma va a inibire esclusivamente la proteina sierica che mascherando il sito di legame dell’antigene all’anticorpo rende il test poco sensibile. La disponibilità di questi cloni di anticorpi anti Actina selezionati da una libreria totale di mucosa intestinale di celiaco potrà far comprendere meglio il ruolo di questi autoanticorpi nella patogenesi del danno intestinale della malattia celiaca. Nella seconda parte di questo Dottorato è stata valuta la prevalenza degli anticorpi anti Actina anche in pazienti con Cardiomiopatia Dilatativi Idiopatica (CMPD) e nei loro famigliari di primo grado. Questa malattia ha un’eziopatogenesi per lo più sconosciuta. Probabilmente si tratta di una condizione a patogenesi eterogenea tuttavia almeno in una certa parte dei pazienti la Cardiomiopatia Dilatativa Idiopatica potrebbe essere un malattia autoimmune organo specifica in cui il processo distruttivo è ristretto all’ organo bersaglio e gli autoanticorpi riconoscono e reagiscono con lo specifico antigene Il dato interessante che emerge da questa tesi è che la positività agli AAA non è casuale ma è presente in gruppi di famiglie. Si può quindi ipotizzare che gli anticorpi anti-Actina siano un potenziale fattore patogenetico e non un’ epifenomeno dell’ infiammazione tessutale di fase acuta. Nel prossimo futuro saranno necessari studi prospettici per l’ identificazione dei meccanismi patogenetici alla base di questa associazione e per comprendere se una precoce identificazione degli anticorpi anti Actina tra i famigliari di soggetti con CMPD possa modificare la storia naturale di questa patologia gravata da una severa prognosi (Fabbro E et al,“Uselessness of anti-actin antibody in celiac disease screening” Clinica Chimica Acta 390; 2008 134–137)2896 13713 - PublicationInterattori molecolari nel controllo della toleranza immune.(Università degli studi di Trieste, 2008-04-17)
;Ferrara, Fortunato ;Tommasini, AlbertoTommasini, AlbertoRecentemente si sono identificate delle alterazioni nella funzione di un fattore trascrizionale, Foxp3 (Forkhead Box P3), che conducono ad una sindrome caratterizzata dallo sviluppo precoce di numerose patologie autoimmuni e allergiche (Syndrome of Immune Dysregulation, Polyendocrinopathy, Enteropathy, X-linked, IPEX). Sebbene sia una patologia rara, questa malattia appare particolarmente interessante come prototipo di un disturbo generalizzato della tolleranza immune. Lo studio della biologia della proteina FoxP3 e delle sue interazioni e funzioni può quindi portare ad una migliore comprensione dei meccanismi con cui di solito la tolleranza immunologica è sia indotta che mantenuta. Principale scopo di tale Tesi è proprio indagare i meccanismi molecolari che portano all’attivazione del fattore trascrizionale FOXP3, riconoscere e caratterizzare i suoi interattori proteici. In tal modo, si possono identificare altri potenziali bersagli per interventi terapeutici che possono essere utilizzati non solo per i soggetti affetti da IPEX, ma anche per i pazienti affetti da patologie ad interesse immunologico che presentano simili meccanismi di attivazione.1265 8596 - PublicationCuore e autoimmunità glutine dipendente(Università degli studi di Trieste, 2009-01-19)
;Quaglia, SaraNot, TarcisioLa cardiomiopatia dilatativa (DCM) nel 70% dei casi è di causa ignota e viene quindi definita idiopatica ma circa la metà di questi casi potrebbe essere ricondotta ad una disregolazione di tipo immune. La presenza di autoanticorpi, infatti, diretti contro auto-antigeni più o meno cuore specifici è stata accertata in molti soggetti con DCM. In particolar modo lavori pubblicati hanno dimostrato come anticorpi contro la miosina e contro il recettore β1adrenergico possano essere coinvolti nella patologia. Non è chiaro, tuttavia, se tali autoanticorpi siano epifenomeno o causa di malattia. Accanto a queste evidenze di autoimmunità coinvolta nella DCM si inseriscono quelle dell’autoimmunità riguardante la celiachia. Le manifestazioni autoimmuni sono così tipiche della malattia celiaca (anticorpi anti-transglutaminasi, anticorpi anti-endomisio) tanto da costituirne il principale marcatore diagnostico. Inoltre, è frequente nei soggetti celiaci una risposta autoimmune contro diversi organi e il rischio di sviluppare alte malattie autoimmuni è in parte riconducibile all’assunzione di glutine. Alcuni lavori, infatti, sottolineano come i soggetti celiaci abbiano un aumentato rischio di sviluppare malattie autoimmuni concomitanti come per esempio il diabete di tipo I, la tiroidite autoimmune e forse anche la DCM. Ad avvalorare quest’ultimo pensiero ci sono alcuni lavori che dimostrano come la prevalenza della celiachia nella popolazione con DCM sia maggiore rispetto a quella della popolazione generale. Inoltre sono stati descritti dei casi in cui soggetti con DCM e celiachia messi a dieta senza glutine, migliorano in modo evidente la loro funzione cardiaca . Il ruolo chiave nella perdita della tolleranza verso antigeni self in questo contesto sembra essere svolto dal sistema immune mucosale. Tale sistema generalmente è capace di discriminare sostanze tossiche e microrganismi patogeni dalle molecole proprie dell'organismo, ma anche dagli antigeni alimentari. È però plausibile pensare che la complessa infiammazione mucosale che si sviluppa nell'intestino dei soggetti celiaci esposti al glutine, interferisca sui meccanismi di mantenimento della tolleranza immune della mucosa stessa. La produzione di autoanticorpi diretti contro la transglutaminasi tissutale potrebbe quindi essere solo un primo segno di questa disregolazione. È stato infatti dimostrato che altri autoanticorpi vengono prodotti dai linfociti B presenti nella mucosa dei soggetti celiaci. L'ipotesi è che la transglutaminasi si leghi non solo alla gliadina ma anche ad altre proteine andando a formare macrocomplessi che presentano nuovi antigeni che sono sia epitopi self che epitopi della gliadina. Come conseguenza di ciò, si evidenzia non solo quindi una continuata produzione di anti-tTG ma anche la produzione di altri autoanticorpi. La produzione degli anticorpi anti-tTG, diventati il marker di malattia celiaca per eccellenza, inoltre è sostenuta esclusivamente dai linfociti B della mucosa intestinale ed è stato suggerito che i livelli sierici che vengono rilevati siano la conseguenza di un passaggio nel sangue degli anticorpi prodotti a livello mucosale. Queste osservazioni derivano da alcuni lavori che evidenziano come la mucosa intestinale sia la sede primaria di produzione di questi anticorpi. Un lavoro pubblicato nel 2004 dimostra, sfruttando la tecnica della doppia immunofluorescenza, la presenza di depositi di anticorpi di classe IgA tTg specifiche nella mucosa intestinale di soggetti celiaci. Tali depositi non sono presenti, invece, nella mucosa intestinale dei soggetti di controllo. In un altro lavoro è stata riportata la produzione e l'analisi di librerie anticorpali fagiche ottenute sia dai linfociti del sangue periferico sia dai linfociti infiltranti la mucosa intestinale di alcuni soggetti celiaci. Sono stati isolati frammenti single chain di anticorpi (scFV) diretti contro la tTG da tutte le librerie ottenute dai linfociti intestinali ma nessuno da quelle ottenute dai linfociti del sangue periferico. Contrariamente, invece, anticorpi contro la gliadina sono stati isolati da tutte le librerie indipendentemente dall'origine dei linfociti di partenza. Questi risultati evidenziano come la risposta umorale contro la tTG avviene a livello locale mentre quella diretta verso la gliadina avviene sia a livello periferico che centrale. L'autoimunità di origine mucosale come detto precedentemente non sembra essere limitata alla risposta diretta contro la tTG ma sembrano coinvolti anche altri autoantigeni. Una conferma di questa ipotesi viene fornita dallo studio dell'autoimmunità che si sviluppa nel diabete di tipo I. Nei pazienti affetti da questa patologia, i linfociti reattivi contro l’acido glutammico decarbossilasi (GAD) presentano le integrine α4β7 che sono dei marcatori di homing intestino specifici suggerendo quindi che anche questi linfociti autoreattivi sono di origine intestinale. In base alla correlazione tra celiachia e cardiomiopatia discussa precedentemente è quindi lecito chiedersi se i fenomeni di autoimmunità descritti in soggetti celiaci con DCM possano essere realmente di tipo glutine dipendente e se anche in questo caso il ruolo dell’immunità mucosale risulta essere fondamentale. Prendendo spunto quindi dallo studio in cui sono stati isolati a livello della mucosa intestinale gli anticorpi anti tTG è possibile utilizzare la tecnologia del phage display per valutare la presenza di autoanticorpi diretti contro antigeni cuore specifici nella mucosa intestinale dei soggetti celiaci e cardiomiopatici. Grazie all’opportunità di avere a disposizione le biopsie intestinali di due soggetti con DCM e celiachia, è stato riprodotto il repertorio anticorpale presente a livello mucosale di questi due soggetti, in fase acuta di celiachia, costruendo delle librerie fagiche anticorpali totali di classe IgA. Tali librerie sono state selezionate sulla tTG (dal momento che questi soggetti sono anche celiaci), sulla miosina muscolare di coniglio, sulla miosina porcina di cuore (antigene con maggiore omologia alla miosina cardiaca umana: 97%), e sull’albumina bovina sierica (BSA) come antigene di controllo negativo. Oltre alle due librerie dei soggetti con celiachia e DCM sono state selezionate anche la libreria totale IgA di un soggetto di controllo e quella di un soggetto celiaco senza cardiomiopatia. In generale per quanto riguarda i risultati ottenuti, i geni VH utilizzati nella risposta contro la miosina sia porcina che di muscolo scheletrico di coniglio sono principalmente ristretti all'utilizzo di due famiglie delle sette famiglie disponibili: VH3 e VH1. Tuttavia, non c’è un segmento genico preferito. Questo specifico coinvolgimento è in linea con quanto finora osservato da altri autori nel campo dell’autoimmunità in cui il coinvolgimento della famiglia genica VH3 costituisce la regione variabile maggiormente utilizzata nella sintesi di auto-anticorpi organo-specifici. Questa decisa prevalenza delle VH3 nel campo di alcune patologie auto-immuni (lupus eritematoso sistemico, miastenia gravis) costituisce un dato soprattutto epidemiologico mentre manca una spiegazione biologica di tipo funzionale o di semplice ipotesi speculativa. L’ingaggio di una famiglia genica potrebbe dipendere sia dall’antigene coinvolto sia dalla predisposizione genetica verso la malattia auto-immune come avviene per la malattia celiaca in cui anticorpi anti-transglutaminasi sono sintetizzati sotto il controllo prevalente della famiglia genica VH5 in presenza del fattore genetico predisponente: l’HLA di classe seconda DQ2/8. Per quanto riguarda le VL invece sono diverse tra le varie librerie analizzate: sono presenti Vk e Vλ appartenenti a quasi tutte le 10 famiglie Vλ e a due (VKI e VKIII) delle 6 famiglie Vk. In conclusione i dati ottenuti nel presente lavoro dimostrano che nella mucosa intestinale di soggetti con cardiomiopatia dilatativa e celiachia sono presenti B linfociti in grado di sintetizzare anticorpi di classe IgA diretti contro uno degli antigeni maggiormente coinvolti nella patogensi della CDM: la miosina. Inoltre il sequenziamento della maggior parte dei cloni isolati ha permesso di riconoscere nelle famiglie geniche VH1 e VH3 le principali regione variabili coinvolte nelle sintesi degli anticorpi IgA anti-miosina. L’isolamento a livello intestinale di auto-anticorpi contro la miosina nei nostri soggetti celiaci e cardiomiopatici permette di dare concretezza sperimentale all’ipotesi secondo cui l’autoimmunità organo-specifica (es. auto-anticorpi contro il pancreas “anti-IA2, anti-GAD”, il cervelletto “anti-cellule di Purkinje”, la tiroide “anti-tireoperossidasi”) si genera a livello della mucosa intestinale. Purtroppo nulla si può dire sulla dipendenza di questi anticorpi dall’assunzione del glutine poiché non è stato possibile avere a disposizione le biopsie intestinali degli stessi due soggetti dopo un anno di dieta senza glutine in quanto stiamo aspettando che la loro mucosa intestinale assuma in modo definitivo una normale struttura. Tuttavia non appena sarà possibile avere a disposizione tali campioni bioptici costruiremo le due librerie anticorpali IgA e le selezioneremo sui medesimi antigeni testati. Sarebbe auspicabile non isolare affatto o comunque isolare scFV in numero minore. Questo percorso sperimentale potrebbe determinare la glutine dipendenza di questi anticorpi diretti contro antigeni cuore specifici e potrebbe così spiegare perché alcuni casi di celiachia e cardiomiopatia dilatativa hanno avuto e mantenuto un significativo miglioramento dell’attività cardiaca nel corso della dieta senza glutine e contemporaneamente giustificare studi di screening per la celiachia in soggetti con cardiomiopatia dilatativa per offrire un valido e semplice intervento terapeutico alla patologia cardiaca ai nuovi casi di celiachia. Sarebbe inoltre auspicabile poter fare degli studi di epitope mapping per evidenziare quali epitopi dell’antigene vengono legati dagli autoanticorpi.4593 14255 - PublicationTrattamento dei disturbi gastroenterologici nei pazienti affetti da autismo infantile e follow-up comportamentale(Università degli studi di Trieste, 2009-01-19)
;Caldognetto, Marina ;Gandione, MarinaGandione, MarinaL’Autismo Infantile è una sindrome comportamentale complessa caratterizzata da disturbi qualitativi delle interazioni sociali e della comunicazione e da particolari aspetti comportamentali come interessi ristretti e ripetitivi, assenza di gioco simbolico e stereotipie motorie. Le ultime stime situano l’Autismo Infantile, e più in generale i Disturbi dello Spettro Autistico (ASD), ad una prevalenza di 65:10.000 negli USA (Baird 2006). L’eziologia è tuttora sconosciuta, sebbene sia riconosciuta una genesi multifattoriale che vede l’interazione di fattori genetici ed ambientali. All’interno degli ASD è stata segnalata un’elevata prevalenza di disturbi gastrointestinali, con stime che variano dal 10% al 50% dai pazienti affetti che potrebbero costituire un sottogruppo fenotipico di pazienti (Sacco 2007). Lo scopo del presente studio è quello di valutare la presenza di malattie intestinali nei pazienti affetti da Disturbo dello Spettro Autistico e da disturbi gastrointestinali e di valutare l’influenza della terapia farmacologia antinfiammatoria e della dieta senza glutine e caseina sulla patologia gastrointestinale e neuropsichiatrica. Sono stati arruolati 304 pazienti che rispondevano ai criteri di inclusione: diagnosi di ASD e sintomatologia gastroenterologica. I disturbi gastrointestinali erano caratterizzati per lo più da disturbi dell’alvo (92%); il dolore epigastrico/addominale, che in alcuni casi è stato anche dedotto dalla presenza di posizioni antalgiche (compressone dell’addome), è stato riportato in 146 pazienti (48%). Ottantacinque pazienti, di età compresa tra 2 e 26 anni, sono stati sottoposti ad esami endoscopici. A livello macroscopico, il 69% dei casi presentava lesioni e alterazioni rilevabili, spesso concomitanti; l'NHL è stata la più frequente (52% delle lesioni osservate). Dal punto di vista istologico, si è riscontrata la presenza di linfociti T CD3CD8 positivi a livello duodenale (58%) e colico (37%) e di un infiltrato eosinofilo (52%) a livello colico. Sulla base dell’entità dell’infiltrato di linfociti T CD3CD8 positivi nella mucosa del colon, si è individuato 31 casi con un quadro comparabile a quello individuato da Wakefield (2000) e denominato “Enterocolite autistica”; in 6 casi si associava a Morbo Celiaco. Diciassette pazienti affetti da Autismo Infantile e da Colite cronica hanno accettato di seguire la terapia proposta con un follow-up di 12 mesi. Nei 12 mesi vi è stata una risoluzione dei sintomi gastrointestinali e un migliore controllo delle crisi nei casi epilettici. Inoltre si è osservato un miglioramento comportamentale che si è espresso con una riduzione media degli ECA total score e ECAF1 score (Echelle d’Evaluation des Comportements Autistiques, Barthélémy 1997) (p<0,001) e dei punteggi totali alla scala CARS (Childhood Autism Rating Scale, Schopler 1988) su 11 pazienti (p=0,006). In particolare si è assistito ad un miglioramento del disturbo del sonno (p = 0.014), dell’interazione (p=0.016) e dell’attenzione (p=0.006). All’interno dei 17 pazienti, 11 pazienti presentavano diagnosi di “Enterocolite autistica” e 6 diagnosi di “Colite indeterminata”, il miglioramento gastrointestinale e comportamentale è stato peraltro del tutto simile. E’ legittimo pertanto chiedersi se il protocollo di diagnosi istologica sia da rivedere, ovvero se siano da rivedere i cut off. E’ possibile infatti che si siano riscontrati diversi gradi di infiammazione di una stessa manifestazione clinica. In conclusione, si ritiene che sia evidente nei Disturbi dello Spettro Autistico un coinvolgimento gastrointestinale molto diffuso, le cui cause non sono tuttora chiare e che è di difficile individuazione e comprensione. In un discreto numero di casi è stato possibile riscontrare un’infiammazione cronica intestinale che è tuttora oggetto di studio, la cui caratterizzazione macroscopica ed istologica pare l’associarsi di alterazioni aspecifiche, se non l’aumento dei linfociti T CD3CD8 positivi, e che risponde alla terapia antinfiammatoria tratta dalle Linee Guida per le IBD. Le manifestazioni gastrointestinali, associate o meno a disordini immunologici, potrebbero infatti individuare una categoria fenotipica specifica all’interno degli ASD. Le recenti ipotesi a favore di un interessamento sistemico di origine mitocondriale potrebbero costituirne la patogenesi. Quando specificatamente curati questi pazienti mostrano di stare meglio e di migliorare significativamente il loro quadro clinico-comportamentale. E’ possibile infatti che i miglioramenti registrati siano il frutto di una migliore disposizione dei soggetti a ricevere insegnamenti e trattamenti riabilitativi, rendendo questi ultimi più efficaci. Questo dato ci sembra oltremodo fondamentale anche alla luce di un riconoscimento e di un trattamento precoce dal momento che è opinione condivisa che nella presa in carico dell’autismo il fattore precocità è di grande rilevanza prognostica. L’argomento permane altamente complesso e meritevole di ulteriori studi di approfondimento che potranno tentare di chiarire gli aspetti istopatologici descritti e la loro relazione con l’Autismo Infantile, da una parte, e, dall’altra, fornire indicazioni per la loro individuazione e trattamento.2619 8140 - PublicationStudio randomizzato controllato vs placebo su efficacia e sicurezza della Talidomide nelle mici in pediatria: disegno, conduzione, risultati preliminari(Università degli studi di Trieste, 2009-01-19)
;Lazzerini, Marzia ;Ventura, AlessandroTamburlini, GiorgioThalidomide is a small molecule with anti-TNF properties, recently emerged for the treatment of inflammatory bowel diseases (IBD) in adults and children. This is a report of the preliminary results of a multicenter double-blind vs placebo controlled trial to evaluate thalidomide efficacy and safety in inducing remission in untreatable patient with IBD aged 2-20 years. Patients non-responder to placebo are further treated with thalidomide open-label, and followed up for 52 weeks. Overall, thalidomide induced remission in 15/27 (55%) patients with CD and 7/10 (66%) patients with UC, compared to only one children in the placebo group (p=0.01, p=0.05). All 15 patients with CD and 6/7 pts with UC reaching remission with thalidomide are maintaining remission, with a mean follow up respectively of 58 weeks (range 12 to 104 weeks) and 52 weeks (range 26-78 weeks). Clinical and electromiographical sign of neuropathy occurred in 5/36 (13%), while persistent isolated electromiographical signs occurred in 3 more patient. There was one case of arterial cerebral thrombosis in a child with severe disease, for which thalidomide role is under discussion.1235 19401 - PublicationTerapia aereosolica con adrenalina nelle reazioni allergiche in corso di desensibilizzazione orale al latte(Università degli studi di Trieste, 2009-01-19)
;Neri, Elena ;Ventura, Alessandro ;Barbi, DinoLongo, Giorgio206 bambini, allergici al latte vaccino, sono stati sottoposti a desensibilizzazione orale per il latte vaccino. Di questi 86 hanno presentato uno o più episodi di reazione allergica trattati con aereosol di adrenalina, con un totale di 129 reazioni trattate. Solo a 5 bambini, dopo aver effettuato un aereosol con adrenalina, è stata somministrata adrenalina per via intramuscolare.1387 5402 - PublicationRisposta anti-glutine nella malattia celiaca(Università degli studi di Trieste, 2009-01-19)
;Vecchiet, Monica ;Florian, FiorellaNot, TarcisioStudio della risposta anticorpale alle componenti del glutine, in particolare gliadina e glutenine, nei pazienti affetti da malattia celiaca mediante la tecnologia del phage display e la gateway technology (in particolare per la clonazione e successiva espressione di una glutenina a a basso peso molecolare)1152 38642