Opere d'arte d'Ateneo
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- PublicationBusto di Pasquale Revoltella(1870)Magni, PietroIl busto di Pietro Magni è probabilmente il più efficace tra i molti ritratti, pittorici e scultorei, di Pasquale Revoltella: con quest’immagine lo scultore dava ancora una volta prova della sua capacità di compendiare efficacemente la tradizionale ritrattistica borghese con quel naturalismo che alla metà del secolo caratterizzava con molta efficacia la nuova scuola milanese, destinata di lì a pochi anni a monopolizzare la scena italiana. Si tratta con tutta evidenza di una replica autografa del busto-ritratto realizzato dallo scultore nel 1859, in occasione della solenne apertura del nuovo palazzo voluto dall’imprenditore, per il quale lo scultore aveva realizzato e realizzerà alcune delle sue prove più convincenti, come la Ninfa Aurisina e l’Allegoria del taglio dell’Istmo di Suez. Il modello in gesso del ritratto, lo stesso utilizzato anche per scolpire l’opera in esame, sarà acquistato dal Museo Revoltella nel 1883, dopo essere stato presentato nel 1870, l’anno successivo alla morte dell’imprenditore-barone, alla prima mostra triestina della Società di Belle Arti (cfr. M. De Grassi, Committenti di Pietro Magni a Trieste, “Arte in Friuli Arte a Trieste”, 20, 2000, pp. 166-168). Con tutta probabilità l’esemplare in esame, del tutto identico alla redazione del Museo, anche nella scelta di una marmo di primissima qualità, era destinato alla Scuola commerciale che Revoltella intendeva far sorgere a Trieste e che idealmente costituisce il primo nucleo di quella che alcuni decenni più tardi diventerà la Regia Università degli Studi Economici e Commerciali di Trieste (cfr. G. Cervani, Pasquale Revoltella, il ‘fondatore’, in L’Università di Trieste. Settant’anni di storia 1924-1994, Trieste, Editoriale Libraria, 1997, pp. 55- 64). Il busto campeggia infatti nelle foto dello studio del primo Rettore, Giulio Morpurgo, alla fine degli anni venti nell’allora sede dell’ateneo, sita in palazzo Dubbane, al civico 7 di quella che diventerà via dell’Università. Al momento della costruzione del nuovo complesso, il busto verrà traslato nella nuova Facoltà di Economia e Commercio, dove tutt’ora è conservato.
151 140 - PublicationBusto di Carlo Brunner(1910)Mayer, GiovanniIl busto è posto su di un alto piedistallo con il nome dell’effigiato e la data “MCMX” in un angolo dell’atrio dell’edificio di via Manzoni 16, che oggi ospita la sezione di Morfologia umana e biomolecolare del dipartimento di scienze della vita dell’ateneo, un tempo sede della Clinica della società degli amici dell’infanzia intitolata proprio a Carlo Brunner, uno dei fondatori dell’istituzione. Caratterizzato dalle folte e pronunciate basette, il ritratto di Brunner rientra nelle scelte ‘veristiche’ della produzione ritrattistica matura di Giovanni Mayer, all’epoca della realizzazione di certo lo scultore più in vista del panorama artistico triestino. Pur rimanendo nell’ambito delle immagini celebrative, il ritratto di Brunner mostra una marcata caratterizzazione psicologica, evidenziata dalla torsione della testa, dall’ampia fronte appena segnata dalle rughe, dalle labbra strette e dallo sguardo acuto che spazia lontano; mentre la lettura quasi lenticolare dei dettagli del volto lascia spazio a un trattamento ben più corsivo e ‘impressionistico’ delle vesti, a partire dallo svolazzante papillon, in linea con quel moderato ‘rodinismo’ cui Mayer sembra a tratti indulgere in questo torno d’anni. Un eloquente termine di confronto, anche per la particolare forma delle basette, è offerto dal coevo busto di Felice Machlig realizzato dallo stesso Mayer per l’atrio dell’ITIS (cfr. F. Salvador, Giovanni Mayer – Giovanni Marin. La scultura triestina tra Verismo ed Eccletismo, “Archeografo Triestino”, s. IV, LXII (CXI) 2002, p. 60).
134 86 - PublicationBusto di Italo Svevo(1927)Rovan, RuggeroIl bronzo dell’Università degli Studi di Trieste deriva dal bozzetto originale in gesso (oggi alla Gipsoteca del Museo Revoltella), realizzato nell’estate del 1927 e plasmato dal vero in circa una decina di sedute nello studio di Rovan (già studio di Eugenio Scomparini, oggi demolito), in via Crispi 62. Da una testimonianza dello stesso scultore sappiamo che fu proprio quest’ultimo a richiedere a Svevo di posare per lui “come un bravo modello” e di poter conservare il manufatto presso l’atelier triestino (dove rimase fino alla sua morte). Rovan scelse di ritrarre lo scrittore a torso nudo, di eroica memoria; tale preferenza venne esplicitata dall’artista in corso d’opera, e fu dettata, a suo dire, dalla volontà di “evitare disarmonie tra le sue [del soggetto] solide strutture e il misero modellato del nostro vestire”. Svevo venne pertanto rappresentato in un busto tagliato appena al di sotto delle spalle: nella parte inferiore alcun dettaglio rinvia all’età piuttosto avanzata dell’effigiato, l’anatomia è trattata attraverso un fare per larghi piani, che suggerisce la struttura ossea dello scrittore. Il volto, al contrario, presenta una cura del dettaglio sottile e meditata: lo scultore non esitò a riprodurre nel bronzo i segni del tempo e le tracce di quell’ ”umano travaglio” che aveva caratterizzato l’esperienza terrena del romanziere; la posizione della testa, leggermente ruotata verso sinistra, aiuta a spezzare una posa altrimenti eccessivamente rigida e innaturale. La versione bronzea qui studiata venne fusa dopo quella in gesso su iniziativa di Svevo, che desiderava averne presso di sé una versione: se prestiamo fede, infatti, a quanto affermato da Rovan stesso, lo scrittore ebbe modo di apprezzare il risultato scultoreo già in corso d’opera, quando volle ricompensare il suo autore con una piccola somma di denaro (£ 2000), a suo dire “non conforme a quello che in altri momenti avrebbe potuto fare”. A distanza di qualche tempo, il romanziere confessò all’artista di riconoscersi perfettamente nel ritratto (“più lo guardo e più mi ci ritrovo”), e in una copia del romanzo Senilità offerta a Rovan in segno di amicizia scelse di firmarsi attraverso una curiosa metonimia “il suo busto”. La replica in metallo, databile tra la seconda metà del 1927 e il 1928, anno della morte di Svevo, rimase nello studio di quest’ultimo, al secondo piano di Villa Veneziani, “su un mobile di fronte alla sua scrivania” per diversi anni. Non ci è dato conoscere con esattezza le sorti della scultura dopo il settembre 1928: essa si salvò dai bombardamenti del 20 febbraio del 1945 che distrussero interamente la dimora sveviana e risulta trovarsi nelle collezioni di Ruggero Rovan nel 1954, prima di essere donata all’Università di Trieste. Con molta probabilità il bronzo venne restituito allo scultore già nel 1943. Lo scultore triestino, in qualità di nuovo proprietario e consapevole del valore storico e umano del manufatto, prestò ripetutamente il bronzo in occasione di diverse esposizioni locali e regionali: nel 1948 alla “Mostra d’arte moderna”, tenutasi a Gorizia a Palazzo Attems alla fine dell’estate; tra il 1952 e il 1953 alle ben più importanti rassegne “Mostra d’arte figurativa degli artisti triestini”, organizzata al Padiglione delle Nazioni alla Fiera di Trieste, e alla “Prima Mostra Nazionale artisti giuliani e dalmati”, allestita a Venezia, in autunno. È significativo notare che il busto venne sempre scelto per figurare all’interno di una selezione limitatissima di pezzi, a dimostrazione di come esso rappresentasse, agli occhi dei contemporanei, una delle opere cardine della tarda produzione di Rovan. Il ritratto sveviano venne ulteriormente rivalutato alla metà degli anni Cinquanta, quando il Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste lanciò una pubblica sottoscrizione per offrirgli una collocazione degna della notorietà del suo effigiato. Grazie alle generose elargizioni pervenute alla segreteria del CCA nel corso del 1954, l’ente poté contattare lo scultore Rovan per richiedere l’acquisto del bronzo di Italo Svevo alla cifra complessiva di £ 395.000, dilazionate in quattro rate. Il Circolo si faceva portatore di un’iniziativa culturale di grande importanza, che si sarebbe conclusa con l’atto di donazione in favore della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Trieste, avvenuto il 18 dicembre 1954 nell’Aula Magna di Palazzo Dubbane, sito in via dell’Università 7. Anche in questa occasione, la critica non poté far a meno di notare l’eccellenza della resa ritrattistica del bronzo, “l’unico oggi esistente modellato dal vero” e la capacità dimostrata da Rovan di lasciar trapelare nel bronzo la profondità di pensiero e […] l’umano travaglio”, propri di tutta l’opera e la vita sveviane. Il degrado dell’edificio storico obbligò alla fine del secolo ad un repentino trasferimento dell’opera, accolta nell’ufficio personale del Magnifico Rettore. Nel 2006 la Facoltà di Lettere e Filosofia ha rivendicato il busto che ha quindi fatto ritorno all’istituzione alla quale era stato donato nel 1954 e ha potuto godere di uno spazio appositamente pensato in suo onore: la sala atti “Arduino Agnelli” nella sede di Androna campo Marzio accoglie oggi le discussioni e le proclamazioni di tesi di laurea, pertanto essa assurge a luogo espositivo ideale affinché l’opera di Rovan possa continuare ad essere “guida ed esempio” anche per le generazioni a venire.Il bronzo dell’Università degli Studi di Trieste deriva dal bozzetto originale in gesso (oggi alla Gipsoteca del Museo Revoltella), realizzato nell’estate del 1927 e plasmato dal vero in circa una decina di sedute nello studio di Rovan (già studio di Eugenio Scomparini, oggi demolito), in via Crispi 62. Da una testimonianza dello stesso scultore sappiamo che fu proprio quest’ultimo a richiedere a Svevo di posare per lui “come un bravo modello” e di poter conservare il manufatto presso l’atelier triestino (dove rimase fino alla sua morte). Rovan scelse di ritrarre lo scrittore a torso nudo, di eroica memoria; tale preferenza venne esplicitata dall’artista in corso d’opera, e fu dettata, a suo dire, dalla volontà di “evitare disarmonie tra le sue [del soggetto] solide strutture e il misero modellato del nostro vestire”. Svevo venne pertanto rappresentato in un busto tagliato appena al di sotto delle spalle: nella parte inferiore alcun dettaglio rinvia all’età piuttosto avanzata dell’effigiato, l’anatomia è trattata attraverso un fare per larghi piani, che suggerisce la struttura ossea dello scrittore. Il volto, al contrario, presenta una cura del dettaglio sottile e meditata: lo scultore non esitò a riprodurre nel bronzo i segni del tempo e le tracce di quell’ ”umano travaglio” che aveva caratterizzato l’esperienza terrena del romanziere; la posizione della testa, leggermente ruotata verso sinistra, aiuta a spezzare una posa altrimenti eccessivamente rigida e innaturale. La versione bronzea qui studiata venne fusa dopo quella in gesso su iniziativa di Svevo, che desiderava averne presso di sé una versione: se prestiamo fede, infatti, a quanto affermato da Rovan stesso, lo scrittore ebbe modo di apprezzare il risultato scultoreo già in corso d’opera, quando volle ricompensare il suo autore con una piccola somma di denaro (£ 2000), a suo dire “non conforme a quello che in altri momenti avrebbe potuto fare”. A distanza di qualche tempo, il romanziere confessò all’artista di riconoscersi perfettamente nel ritratto (“più lo guardo e più mi ci ritrovo”), e in una copia del romanzo Senilità offerta a Rovan in segno di amicizia scelse di firmarsi attraverso una curiosa metonimia “il suo busto”. La replica in metallo, databile tra la seconda metà del 1927 e il 1928, anno della morte di Svevo, rimase nello studio di quest’ultimo, al secondo piano di Villa Veneziani, “su un mobile di fronte alla sua scrivania” per diversi anni. Non ci è dato conoscere con esattezza le sorti della scultura dopo il settembre 1928: essa si salvò dai bombardamenti del 20 febbraio del 1945 che distrussero interamente la dimora sveviana e risulta trovarsi nelle collezioni di Ruggero Rovan nel 1954, prima di essere donata all’Università di Trieste. Con molta probabilità il bronzo venne restituito allo scultore già nel 1943. Lo scultore triestino, in qualità di nuovo proprietario e consapevole del valore storico e umano del manufatto, prestò ripetutamente il bronzo in occasione di diverse esposizioni locali e regionali: nel 1948 alla “Mostra d’arte moderna”, tenutasi a Gorizia a Palazzo Attems alla fine dell’estate; tra il 1952 e il 1953 alle ben più importanti rassegne “Mostra d’arte figurativa degli artisti triestini”, organizzata al Padiglione delle Nazioni alla Fiera di Trieste, e alla “Prima Mostra Nazionale artisti giuliani e dalmati”, allestita a Venezia, in autunno. È significativo notare che il busto venne sempre scelto per figurare all’interno di una selezione limitatissima di pezzi, a dimostrazione di come esso rappresentasse, agli occhi dei contemporanei, una delle opere cardine della tarda produzione di Rovan. Il ritratto sveviano venne ulteriormente rivalutato alla metà degli anni Cinquanta, quando il Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste lanciò una pubblica sottoscrizione per offrirgli una collocazione degna della notorietà del suo effigiato. Grazie alle generose elargizioni pervenute alla segreteria del CCA nel corso del 1954, l’ente poté contattare lo scultore Rovan per richiedere l’acquisto del bronzo di Italo Svevo alla cifra complessiva di £ 395.000, dilazionate in quattro rate. Il Circolo si faceva portatore di un’iniziativa culturale di grande importanza, che si sarebbe conclusa con l’atto di donazione in favore della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Trieste, avvenuto il 18 dicembre 1954 nell’Aula Magna di Palazzo Dubbane, sito in via dell’Università 7. Anche in questa occasione, la critica non poté far a meno di notare l’eccellenza della resa ritrattistica del bronzo, “l’unico oggi esistente modellato dal vero” e la capacità dimostrata da Rovan di lasciar trapelare nel bronzo la profondità di pensiero e […] l’umano travaglio”, propri di tutta l’opera e la vita sveviane. Il degrado dell’edificio storico obbligò alla fine del secolo ad un repentino trasferimento dell’opera, accolta nell’ufficio personale del Magnifico Rettore. Nel 2006 la Facoltà di Lettere e Filosofia ha rivendicato il busto che ha quindi fatto ritorno all’istituzione alla quale era stato donato nel 1954 e ha potuto godere di uno spazio appositamente pensato in suo onore: la sala atti “Arduino Agnelli” nella sede di Androna campo Marzio accoglie oggi le discussioni e le proclamazioni di tesi di laurea, pertanto essa assurge a luogo espositivo ideale affinché l’opera di Rovan possa continuare ad essere “guida ed esempio” anche per le generazioni a venire.Il bronzo dell’Università degli Studi di Trieste deriva dal bozzetto originale in gesso (oggi alla Gipsoteca del Museo Revoltella), realizzato nell’estate del 1927 e plasmato dal vero in circa una decina di sedute nello studio di Rovan (già studio di Eugenio Scomparini, oggi demolito), in via Crispi 62. Da una testimonianza dello stesso scultore sappiamo che fu proprio quest’ultimo a richiedere a Svevo di posare per lui “come un bravo modello” e di poter conservare il manufatto presso l’atelier triestino (dove rimase fino alla sua morte). Rovan scelse di ritrarre lo scrittore a torso nudo, di eroica memoria; tale preferenza venne esplicitata dall’artista in corso d’opera, e fu dettata, a suo dire, dalla volontà di “evitare disarmonie tra le sue [del soggetto] solide strutture e il misero modellato del nostro vestire”. Svevo venne pertanto rappresentato in un busto tagliato appena al di sotto delle spalle: nella parte inferiore alcun dettaglio rinvia all’età piuttosto avanzata dell’effigiato, l’anatomia è trattata attraverso un fare per larghi piani, che suggerisce la struttura ossea dello scrittore. Il volto, al contrario, presenta una cura del dettaglio sottile e meditata: lo scultore non esitò a riprodurre nel bronzo i segni del tempo e le tracce di quell’ ”umano travaglio” che aveva caratterizzato l’esperienza terrena del romanziere; la posizione della testa, leggermente ruotata verso sinistra, aiuta a spezzare una posa altrimenti eccessivamente rigida e innaturale. La versione bronzea qui studiata venne fusa dopo quella in gesso su iniziativa di Svevo, che desiderava averne presso di sé una versione: se prestiamo fede, infatti, a quanto affermato da Rovan stesso, lo scrittore ebbe modo di apprezzare il risultato scultoreo già in corso d’opera, quando volle ricompensare il suo autore con una piccola somma di denaro (£ 2000), a suo dire “non conforme a quello che in altri momenti avrebbe potuto fare”. A distanza di qualche tempo, il romanziere confessò all’artista di riconoscersi perfettamente nel ritratto (“più lo guardo e più mi ci ritrovo”), e in una copia del romanzo Senilità offerta a Rovan in segno di amicizia scelse di firmarsi attraverso una curiosa metonimia “il suo busto”. La replica in metallo, databile tra la seconda metà del 1927 e il 1928, anno della morte di Svevo, rimase nello studio di quest’ultimo, al secondo piano di Villa Veneziani, “su un mobile di fronte alla sua scrivania” per diversi anni. Non ci è dato conoscere con esattezza le sorti della scultura dopo il settembre 1928: essa si salvò dai bombardamenti del 20 febbraio del 1945 che distrussero interamente la dimora sveviana e risulta trovarsi nelle collezioni di Ruggero Rovan nel 1954, prima di essere donata all’Università di Trieste. Con molta probabilità il bronzo venne restituito allo scultore già nel 1943. Lo scultore triestino, in qualità di nuovo proprietario e consapevole del valore storico e umano del manufatto, prestò ripetutamente il bronzo in occasione di diverse esposizioni locali e regionali: nel 1948 alla “Mostra d’arte moderna”, tenutasi a Gorizia a Palazzo Attems alla fine dell’estate; tra il 1952 e il 1953 alle ben più importanti rassegne “Mostra d’arte figurativa degli artisti triestini”, organizzata al Padiglione delle Nazioni alla Fiera di Trieste, e alla “Prima Mostra Nazionale artisti giuliani e dalmati”, allestita a Venezia, in autunno. È significativo notare che il busto venne sempre scelto per figurare all’interno di una selezione limitatissima di pezzi, a dimostrazione di come esso rappresentasse, agli occhi dei contemporanei, una delle opere cardine della tarda produzione di Rovan. Il ritratto sveviano venne ulteriormente rivalutato alla metà degli anni Cinquanta, quando il Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste lanciò una pubblica sottoscrizione per offrirgli una collocazione degna della notorietà del suo effigiato. Grazie alle generose elargizioni pervenute alla segreteria del CCA nel corso del 1954, l’ente poté contattare lo scultore Rovan per richiedere l’acquisto del bronzo di Italo Svevo alla cifra complessiva di £ 395.000, dilazionate in quattro rate. Il Circolo si faceva portatore di un’iniziativa culturale di grande importanza, che si sarebbe conclusa con l’atto di donazione in favore della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Trieste, avvenuto il 18 dicembre 1954 nell’Aula Magna di Palazzo Dubbane, sito in via dell’Università 7. Anche in questa occasione, la critica non poté far a meno di notare l’eccellenza della resa ritrattistica del bronzo, “l’unico oggi esistente modellato dal vero” e la capacità dimostrata da Rovan di lasciar trapelare nel bronzo la profondità di pensiero e […] l’umano travaglio”, propri di tutta l’opera e la vita sveviane. Il degrado dell’edificio storico obbligò alla fine del secolo ad un repentino trasferimento dell’opera, accolta nell’ufficio personale del Magnifico Rettore. Nel 2006 la Facoltà di Lettere e Filosofia ha rivendicato il busto che ha quindi fatto ritorno all’istituzione alla quale era stato donato nel 1954 e ha potuto godere di uno spazio appositamente pensato in suo onore: la sala atti “Arduino Agnelli” nella sede di Androna campo Marzio accoglie oggi le discussioni e le proclamazioni di tesi di laurea, pertanto essa assurge a luogo espositivo ideale affinché l’opera di Rovan possa continuare ad essere “guida ed esempio” anche per le generazioni a venire.Il bronzo dell’Università degli Studi i Trieste deriva dal bozzetto originale in gesso (oggi alla Gipsoteca del Museo Revoltella), realizzato nell’estate del 1927 e plasmato dal vero in circa una decina di sedute nello studio di Rovan (già studio di Eugenio Scomparini, oggi demolito), in via Crispi 62. Da una testimonianza dello stesso scultore sappiamo che fu proprio quest’ultimo a richiedere a Svevo di posare per lui “come un bravo modello” e di poter conservare il manufatto presso l’atelier triestino (dove rimase fino alla sua morte). Rovan scelse di ritrarre lo scrittore a torso nudo, di eroica memoria; tale preferenza venne esplicitata dall’artista in corso d’opera, e fu dettata, a suo dire, dalla volontà di “evitare disarmonie tra le sue [del soggetto] solide strutture e il misero modellato del nostro vestire”. Svevo venne pertanto rappresentato in un busto tagliato appena al di sotto delle spalle: nella parte inferiore alcun dettaglio rinvia all’età piuttosto avanzata dell’effigiato, l’anatomia è trattata attraverso un fare per larghi piani, che suggerisce la struttura ossea dello scrittore. Il volto, al contrario, presenta una cura del dettaglio sottile e meditata: lo scultore non esitò a riprodurre nel bronzo i segni del tempo e le tracce di quell’ ”umano travaglio” che aveva caratterizzato l’esperienza terrena del romanziere; la posizione della testa, leggermente ruotata verso sinistra, aiuta a spezzare una posa altrimenti eccessivamente rigida e innaturale. La versione bronzea qui studiata venne fusa dopo quella in gesso su iniziativa di Svevo, che desiderava averne presso di sé una versione: se prestiamo fede, infatti, a quanto affermato da Rovan stesso, lo scrittore ebbe modo di apprezzare il risultato scultoreo già in corso d’opera, quando volle ricompensare il suo autore con una piccola somma di denaro (£ 2000), a suo dire “non conforme a quello che in altri momenti avrebbe potuto fare”. A distanza di qualche tempo, il romanziere confessò all’artista di riconoscersi perfettamente nel ritratto (“più lo guardo e più mi ci ritrovo”), e in una copia del romanzo Senilità offerta a Rovan in segno di amicizia scelse di firmarsi attraverso una curiosa metonimia “il suo busto”. La replica in metallo, databile tra la seconda metà del 1927 e il 1928, anno della morte di Svevo, rimase nello studio di quest’ultimo, al secondo piano di Villa Veneziani, “su un mobile di fronte alla sua scrivania” per diversi anni. Non ci è dato conoscere con esattezza le sorti della scultura dopo il settembre 1928: essa si salvò dai bombardamenti del 20 febbraio del 1945 che distrussero interamente la dimora sveviana e risulta trovarsi nelle collezioni di Ruggero Rovan nel 1954, prima di essere donata all’Università di Trieste. Con molta probabilità il bronzo venne restituito allo scultore già nel 1943. Lo scultore triestino, in qualità di nuovo proprietario e consapevole del valore storico e umano del manufatto, prestò ripetutamente il bronzo in occasione di diverse esposizioni locali e regionali: nel 1948 alla “Mostra d’arte moderna”, tenutasi a Gorizia a Palazzo Attems alla fine dell’estate; tra il 1952 e il 1953 alle ben più importanti rassegne “Mostra d’arte figurativa degli artisti triestini”, organizzata al Padiglione delle Nazioni alla Fiera di Trieste, e alla “Prima Mostra Nazionale artisti giuliani e dalmati”, allestita a Venezia, in autunno. È significativo notare che il busto venne sempre scelto per figurare all’interno di una selezione limitatissima di pezzi, a dimostrazione di come esso rappresentasse, agli occhi dei contemporanei, una delle opere cardine della tarda produzione di Rovan. Il ritratto sveviano venne ulteriormente rivalutato alla metà degli anni Cinquanta, quando il Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste lanciò una pubblica sottoscrizione per offrirgli una collocazione degna della notorietà del suo effigiato. Grazie alle generose elargizioni pervenute alla segreteria del CCA nel corso del 1954, l’ente poté contattare lo scultore Rovan per richiedere l’acquisto del bronzo di Italo Svevo alla cifra complessiva di £ 395.000, dilazionate in quattro rate. Il Circolo si faceva portatore di un’iniziativa culturale di grande importanza, che si sarebbe conclusa con l’atto di donazione in favore della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Trieste, avvenuto il 18 dicembre 1954 nell’Aula Magna di Palazzo Dubbane, sito in via dell’Università 7. Anche in questa occasione, la critica non poté far a meno di notare l’eccellenza della resa ritrattistica del bronzo, “l’unico oggi esistente modellato dal vero” e la capacità dimostrata da Rovan di lasciar trapelare nel bronzo la profondità di pensiero e […] l’umano travaglio”, propri di tutta l’opera e la vita sveviane. Il degrado dell’edificio storico obbligò alla fine del secolo ad un repentino trasferimento dell’opera, accolta nell’ufficio personale del Magnifico Rettore. Nel 2006 la Facoltà di Lettere e Filosofia ha rivendicato il busto che ha quindi fatto ritorno all’istituzione alla quale era stato donato nel 1954 e ha potuto godere di uno spazio appositamente pensato in suo onore: la sala atti “Arduino Agnelli” nella sede di Androna campo Marzio accoglie oggi le discussioni e le proclamazioni di tesi di laurea, pertanto essa assurge a luogo espositivo ideale affinché l’opera di Rovan possa continuare ad essere “guida ed esempio” anche per le generazioni a venire.
236 132 - PublicationLa fondazione dell'Università; I mestieri; Allegoria delle attività umane; L'uomo fascista(1938)Carà, UgoI quattro pannelli costituiscono quanto rimane di un più ampio ciclo decorativo commissionato alla fine degli anni trenta dagli architetti dell’Edificio Centrale, Raffaello Fagnoni e Umberto Nordio, a Ugo Carà, cui già era stata affidata la realizzazione dei cartoni per i mosaici pavimentali dell’atrio destro. Allo scultore erano stati richiesti dodici pannelli in pietra destinati a ornare i balconcini posti tra le volte che si affacciano sull’atrio destro: lavori che però non saranno però mai messi in opera, causa probabilmente delle difficoltà incontrate dal cantiere per la carenza di fondi. Una volta riscoperto il piano originale nell’archivio Fagnoni, i pannelli sono stati negli ultimi anni posizionati finalmente al loro posto. Di questi però solo quattro presentano dei rilievi leggibili, parte di un programma illustrativo sicuramente più vasto e comunque facente riferimento, com’è ovvio, alla più scontata iconografia di regime. Nel pannello che si può identificare come principale è schematicamente raccontata la posa della prima pietra della nuova sede dell’Ateneo da parte di Mussolini (la figura centrale con in mano la cazzuola) alla presenza del Rettore e delle Autorità. In un altro rilievo si riconoscono, da sinistra a destra, uno sciatore, un letterato, un pittore, un soldato, una casalinga e un contadino. In un terzo pannello si scorgono figure paludate all’antica che alludono probabilmente alle discipline insegnate all’Università: medicina, navigazione (o ingegneria navale), commercio nelle vesti di Mercurio, la Giustizia e la Geografia. Nel quarto pannello si riconoscono gruppi di figure che possono essere interpretati come allusivi delle attività fasciste: l’atleta e il soldato, il matrimonio, le adunate. Come in altre occasioni (cfr. M. De Grassi, Arte e committenza pubblica: il caso di Arsia, “Quaderni Giuliani di Storia”, XXXII (2011), 1, pp. 139-151), Carà utilizza per opere commissionate dal regime un linguaggio volutamente semplificato, che esula da certe raffinate ricerche stilistiche che si possono riscontrare, per esempio, nella coeva produzione ritrattistica. Nel caso delle opere in esame occorre poi tener conto dello stato di conservazione non ottimale, visto che i blocchi sono rimasti a lungo esposti alle intemperie, all’incuria e ad atti di vandalismo che hanno infierito soprattutto su alcuni volti.
183 263 - PublicationLi Fioretti di Sancto Francesco(1940)Pittoni, AnitaIl grande pannello, realizzato nel 1940 dal Laboratorio Artigiano Triestino su disegno di Anita Pittoni, venne esposto per la prima volta alla VII Triennale Internazionale d’Arte decorativa e fu il frutto del concorso indetto dall’Ente Triennale di Milano e dall’Enapi di Roma (il cui scopo era quello di indurre gli artisti a fornire disegni moderni d’arte applicata alle scuole e ai laboratori femminili di ricamo e merletto). Il concorso prevedeva che vi partecipassero 19 tende da esporre alle finestre dell’emiciclo del Palazzo delle Arti. Il tema risultava libero, uniche direttive da seguire: misure e tecniche. Anita Pittoni decise di illustrare in 8 riquadri la vita di San Francesco. Il manufatto reca iscrizioni in volgare umbro accompagnate da raffigurazioni dal carattere primitivo. Il risultato fu ottimale tant’è che il lavoro si aggiudicò la medaglia d’oro per il disegno e una menzione d’onore per il suo contributo all’Enapi. Alla Pittoni si deve l’invenzione di una nuova interpretazione delle tecniche della maglia e dell’uncinetto, usate sino ad allora per realizzare principalmente pizzi e merletti. Furono da lei adoperate per realizzare sofisticati tessuti d’arredamento. Alla mostra degli artisti triestini alla Permanente di Milano la Pittoni presentò, oltre al grande pannello, anche vari oggetti di moda femminile quali costumi per la spiaggia, mantelli, un abito estivo di rete gialla, una giacca di canapa, un costume da sera in rame, borsette, bandoliere, bottoni, tappeti ed altri accessori. Ciò che colpì delle creazioni di Anita fu la constatazione che era un’artista capace di creare forme e ritmi tessendo filati come altri usavano parole e suoni. Le parti figurative sono accompagnate da scritte ricamate che riportano alcuni passi tratti dai Fioretti di San Francesco. Nel primo riquadro si legge una parte tratta dal Capitolo 9 in cui San Francesco, essendo con fra Lione in un luogo dove non avevano libri e breviario col quale recitare le preghiere del mattutino, i due si accordarono affinché Fra Lione ripetesse quanto San Francesco diceva. San Francesco iniziò così: “O Signore mio del cielo e della terra, io ho commesso contro a te tante iniquità e tanti peccati, che al tutto son degno d’esser da te maledetto”. E frate Lione anziché rispondere come Francesco gli aveva indicato rispose con la frase ricamata sul pannello: “O frate Francesco, Iddio ti farà tale, che tra li benedetti tu sarai singolarmente benedetto”. Accanto a questa frase si può ammirare il ricamo decorato in cui San Francesco viene elevato da due figure angeliche. La grande tenda presenta una decorazione “a scacchiera”: alla parte scritta corrisponde una formella decorata e viceversa per quattro fasce orizzontali. Il ritmo delle due colonne è ulteriormente scandito dalla realizzazione, in senso verticale, di una sorta di rima incrociata (ABAB). La seconda formella illustra un passo tratto dal 16° Capitolo dei Fioretti in cui San Francesco, accogliendo gli inviti di Santa Chiara e San Silvestro di predicare a quante più genti possibili, iniziò a predicare anche agli uccelli. La terza formella scritta riprende nuovamente parte del Capitolo 9 caratterizzata dallo scambio di battute tra San Francesco e San Lione. Nella parte iconografica invece ritroviamo San Francesco circondato da fiori. Gli ultimi due riquadri, trattano un passo del 15° capitolo dei Fioretti. Quello illustrato a sinistra, si vede San Francesco in saio con di fronte Santa Chiara. La formella è impreziosita da un decoro, nella parte superiore, a motivo a stella, mentre nella parte inferiore, vi è un motivo decorativo floreale con degli uccellini. La parte scritta chiude invece il pannello decorativo nel quale sono riportate le parole di santa Chiara: “ed ella come figliuola di santa obbidienza avea risposto: “Padre, io sono sempre apparecchiata ad andare dovunque voi mi manderete”. Acquistato dall’Università degli Studi di Trieste nel 1951 è attualmente visibile nell’aula Magna della sede principale dell’Università.
230 120 - PublicationLaguna di Grado(1953)Sambo, EdgardoIl dipinto si configura come un unicum nella produzione di Sambo. Dal punto di vista stilistico, infatti, l’opera può essere messa a confronto con i primi lavori dell’artista che, dopo aver appreso i rudimenti della pittura presso Giovanni Zangrando, approfondì la propria preparazione attraverso viaggi di studio a Venezia, Vienna e Monaco di Baviera. Nel seguente periodo romano, reso possibile dalla vittoria della borsa di studio Rittmeyer, il postimpressionismo e le eleganze decorative tipicamente secessioniste con cui era finora entrato in contatto lasciarono spazio al libero dispiegarsi di colori avulsi dalla realtà e contrastanti, resi ancor più innaturali da un uso spregiudicato della luce. I risultati di questo sperimentalismo condussero alle positive affermazioni di Sambo nell’ambito della Prima e Terza Esposizione della Secessione romana (1913, 1915) attraverso opere come Macchie di sole (Cataldi 1999, cat. n. 38, p. 52) presentato anche all’Esposizione Internazionale per l’apertura del Canale di Panama del 1914. Sebbene dal punto di vista cromatico il dipinto manifesti un’evidente tangenza con Foro romano, realizzata attorno al 1913 e caratterizzata dall’adozione delle medesime tonalità di violetto (ivi, cat. 42, p. 55) dal punto di vista del soggetto trattato e dell’anno della sua esecuzione l’opera deve essere messa in relazione con le marine realizzate negli anni Quaranta. Benché in tali opere la composizione risulti palesemente più pacata e influenzata dal neocubismo (cui l’artista si avvicina negli ultimi anni della propria attività) in esse si possono ravvisare delle sparute citazioni di cromie che con la loro brillantezza finiscono per movimentare la stasi dominante. Se in Marina (1938; ivi, cat. 122, p. 92) Sambo sembra voler sperimentare l’effetto provocato dai tocchi di pennello “a mosaico” che adopererà in maniera consistente nella Laguna di Grado, più timidi filamenti di colore verde e azzurro percorrono la superficie d’acqua posta in primo piano in Punta S. Salvatore (1940 circa; ivi, cat. n. 128, p. 97). L’artista triestino approfondirà l’atmosfera silente e la calma quasi palpabile che connotano queste opere in quello che è l’ultimo paesaggio del suo catalogo, Paesaggio carnico, realizzato nel 1950 e pervaso da un senso di quiete amplificata dalla solidità dei volumi che lo compongono (ivi, cat. n. 209, p. 136). Presentato alla personale ospitata nella Sala comunale d’arte di Trieste fra il dicembre del 1953 e il gennaio seguente, Laguna di Grado non si può dunque semplicisticamente intendere come un nostalgico revival di tendenze del passato ma piuttosto come un loro originale e attuale ripensamento svolto gradatamente a partire dalla fine degli anni Trenta. Il pointillisme cui si appellano i tocchi blu e gialli disseminati nel paesaggio marino non vanno infatti a costruire delle forme precise ma si giustappongono sovrapponendosi a un fondale precostituito e di per sé piuttosto uniforme allo scopo di irradiarlo di punti luce con esplicita funzione decorativa. Unico oggetto chiaramente definito, la barca alla deriva viene precisata da pennellate rapide e spesse che, in modo quasi infantile, ne descrivono solo gli elementi di spicco maggiore (lo scafo, la vela) lasciando in una confusa indeterminatezza gli altri dettagli. Rispetto alla contemporanea produzione di Sambo il dipinto si configura come una sorta di divagazione da un percorso che, sin dalla fine degli anni Venti, aveva portato l’artista triestino a una personale riflessione sulle problematiche compositive di Novecento e del gruppo di Valori Plastici, condividendone le tensioni verso un’arte orientata alla semplificazione e a una meditata osservazione del reale. Le composizioni dai toni ribassati e modellate secondo una sintesi che avevano avvicinato Sambo a soluzione neocubiste (visibili già in Espropriazione per pubblica sicurezza, del 1934; cfr. ivi, cat. 115, p. 87) vengono dunque momentaneamente abbandonate per un ritorno di fiamma dell’artista verso i fuochi d’artificio cromatici della sua prima produzione.
202 315 - PublicationPaesaggio del Carso(1954)Lannes, MarioIl dipinto raffigura un breve scorcio del Carso dominato dalla policromia autunnale della vegetazione arborea e dal cangiantismo cromatico che accomuna i monti e il cielo sullo sfondo. Nascoste fra le chiome degli alberi si intravedono due abitazioni, compatte come solidi geometrici che immettono ulteriori note luminose nel paesaggio. Affine a un secondo Paesaggio del Carso facente anch’esso parte delle collezioni dell’ateneo triestino (verranno distribuiti, insieme ai dipinti che erano stati acquistati alla mostra organizzata dall’ateno nel 1953, tra i docenti che avevano fatto richiesta: cfr AUT, Busta 59, fasc. corrispondenza: Lettera di Libero Fonda ai Direttori degli Istituti dell’Università di Trieste. Assegnazione dei quadri, Archivio dell’Università di Trieste, 23 novembre 1954, nn. 13/14) (cfr. scheda 42), il dipinto in esame ne condivide l’atmosfera di silenziosa sospensione motivata dal desiderio dell’artista di fotografare l’avvicendarsi delle stagioni e la pace di un luogo in cui la presenza umana è allusa dai manufatti che timidamente lo costellano. Se dal punto di vista compositivo il senso di quiete è trasmesso da una costruzione organizzata per linee parallele che accompagnano lo sguardo fino all’orizzonte, sotto il profilo della condotta pittorica si nota l’alternanza dei tocchi in punta di pennello usati per definire la vegetazione e una pennellata estremamente più corposa e ampia nelle restanti parti della scena, interpretabile come una poetica istantanea con rari contrasti chiaroscurali. La luce che si irradia dal dipinto e le tinte a tratti irreali che lo connotano permettono di affiancarlo alla Marina della stessa collezione universitaria (cfr. scheda 44) con cui condivide le tonalità violacee e i tocchi verdi diffusi sulle montagne e da qui profusi nel cielo. Pur essendosi a più riprese dedicato alla pittura di figura, all’arte sacra, alla decorazione navale e di edifici pubblici (in cui ha sperimentato pure l’antica tecnica dell’encausto), Mario Lannes trova essenzialmente nel paesaggio il suo genere più congeniale tornando anche in più occasioni sui medesimi scorci. È nel paesaggio infatti che l’artista può dare libero sfogo alla passione per la luce e il colore tipica del suo modo prevalentemente postimpressionista di concepire la pittura. Nonostante la tangenza con le istanze del Novecento manifestata soprattutto nelle due versioni dell’Autoritratto rispettivamente conservate al Civico Museo Revoltella di Trieste e ai Musei Provinciali di Gorizia, Lannes si mantiene fedele a una maniera cromaticamente ricca, luminosamente fastosa e dalla pennellata corposa, capace di costruire volumi o alluderli senza bisogno di ricorrere al disegno. L’adattabilità del suo stile al soggetto trattato fu forse tra le cause dell’oblio in cui cadde l’autore, isolato dal mondo artistico del secondo dopoguerra certo anche a seguito della sua assiduità alle mostre sindacali e dei riconoscimenti che gli vennero tributati nel periodo fascista come la medaglia d’argento del Ministero dell’Educazione Nazionale (1934) e il Premio del Capo del Governo assegnatogli nel 1938. Avvilito da tale situazione, l’artista decise di abbandonare l’arte nonostante i successi incontrati in simposi come le mostre di arte sacra di Milano (1951), di San Paolo del Brasile (1957) e Bologna dove, nel 1960, ottenne il secondo premio.
136 85 - PublicationCrocifisso(1954)Negrisin, GiuseppeLa presenza di quest’opera nelle collezioni dell’Università degli Studi di Trieste si deve probabilmente alla lungimiranza del professor Pio Montesi, direttore del dipartimento di Ingegneria Civile dal 1957 al 1975, che con la collaborazione di Antonio Guacci, si è più volte speso per incrementare le collezioni artistiche dell’istituzione da lui diretta, concentrandosi soprattutto sugli artisti cittadini. Il Crocifisso appartiene alla prima fase della produzione di Negrisin, che a queste date comincia progressivamente ad affrancarsi dalla lezione mascheriniana per raggiungere quella cifra stilistica più meditata e personale che lo porterà alla ribalta internazionale verso la fine del decennio. Sin dalle proposte iconografiche e specie nella scelta di sostituire la croce con un motivo a racemi stilizzati, si evidenzia la matrice neoromanica di questa realizzazione, in buona parte legata ai rilievi del portale della chiesa veronese di San Zeno. Una formula che trova un contraltare in un altro esemplare di piccolo Crocifisso montato su di una tavola rustica, questa volta non datato ma presente (e riprodotto in catalogo) alla Mostra Nazionale d’Arte Sacra allestita alla Stazione marittima di Trieste nel luglio 1956, che pare una meditata variazione sullo stesso tema. “Le opere dell’arte negra, le testimonianze dell’espressività primitiva giocano sull’ispirazione di Negrisin il ruolo di suggeritori per la realizzazione di molteplici varianti, dentro una sintesi di volta in volta sempre diversa” (E. Santese, Giuseppe Negrisin, in Giuseppe Negrisin 1930-1987, catalogo della mostra di Muggia, Museo d’arte moderna “Ugo Carà” 7 dicembre 2007 – 12 gennaio 2008, a cura di B. Negrisin Cociani, Trieste, Stella Grafica Edizioni, 2007, p. 17).
111 75 - PublicationPaesaggio del Carso(1955)Lannes, MarioIl dipinto rappresenta una raccolta veduta del Carso, ambiente facilmente riconoscibile grazie ai muretti che percorrono orizzontalmente la composizione contribuendo alla definizione prospettica dell’opera. Chiusa in una sorta di finestra con il davanzale di pietre in primo piano delimitato dalle chiome degli alberi ai lati, la scena si articola attorno a un paesetto dominato dallo svettante campanile che mette in contatto la pianura con le montagne e il cielo sullo sfondo. Sono i colori freddi di questi ultimi elementi assieme alle tonalità bruciate delle fronde sull’estrema destra che suggeriscono l’incipiente stagione autunnale, allusa anche dal giallo diffuso che circonda il piccolo centro abitato parlando dell’ormai conclusa arsura estiva. Come nella Marina di proprietà dell’Università di Trieste (cfr. scheda 44), anche in questo caso Lannes opta per una trama di linee utili a ordinare la composizione. Tuttavia, rispetto all’opera accennata, risultano palesi differenze, evidenti soprattutto nella maggiore pacatezza cromatica e nella cauta alternanza di zone uniformemente chiare con altre a prevalenza scura. La scelta di un più blando postimpressionismo deve essere certo ricondotta al soggetto trattato: se per suggerire l’affollata vita del porto e le turbolenze del mare Lannes era stato costretto a utilizzare cromie fragranti e una luminosità diffusa, per alludere alla rilassata morigeratezza del Carso l’artista deve preferire toni meno artificiali e accostamenti cromatici capaci di evocare una quotidianità scandita dai richiami delle campane. Analogamente le forme si mantengono solide e compatte e i colori si sovrappongono ad esse senza trasfigurarle in modo da garantire una chiara leggibilità dell’immagine in cui quindi il tocco pittorico conserva la propria consistenza. Compiuta la sua prima formazione sotto la guida di Carlo Wostry presso la Scuola per Capi d’Arte dell’Istituto tecnico “Volta” di Trieste, Mario Lannes frequenta contemporaneamente l’Accademia di Brera e quella di Venezia dove ha come maestro Augusto Sezanne. Tornato nella città natale, l’artista comincia a esporre nella seconda metà degli anni Venti prendendo parte a tutte le Esposizioni del Sindacato Regionale fascista di Belle Arti (mancherà solo all’edizione del 1937). Pur accostandosi in vari momenti a una pittura iperrealista o affine alla lucida visione novecentista (che conoscono i loro momenti migliori rispettivamente ne L’automobile infernale e nell’Autoritratto di proprietà dei Musei Provinciali di Gorizia) Lannes rimarrà sostanzialmente fedele a un approccio impressionista a cui si affianca, in questo Paesaggio carsico, un atteggiamento intimista di marca ottocentesca.
148 81 - PublicationMinerva(1956)Mascherini, MarcelloIl disegno è giunto nelle collezioni dell’ateneo in occasione dell’Esposizione nazionale di pittura italiana contemporanea, allestita nell’Aula Magna dell’ateneo nel 1953. In quel frangente la commissione organizzatrice, viste le difficoltà organizzative che l’esposizione di opere plastiche poteva portare, aveva stabilito di richiedere agli scultori prove di grafica. Mascherini, come pochi altri colleghi, aderirà entusiasticamente alla proposta del Rettore presentando questa semplice tavola realizzata a tratto e senza chiaroscuro, che dal punto di vista compositivo si presenta perfettamente allineata ai ritmi e alle cadenze compositive delle sue migliori opere scultoree di quegli anni: anche se ripresa in controparte, la fanciulla tratteggiata nel disegno è infatti pressoché identica alla Saffo realizzata in bronzo l’anno precedente; una scultura, quest’ultima (cfr. A. Panzetta, Marcello Mascherini scultore (1906-1983). Catalogo generale dell’opera plastica, Torino, Allemandi, 1998, p. 247, n. 366), cui l’artista aveva dato grande importanza, visto che la presenterà alla personale parigina del 1953, alla Biennale di Anversa dello stesso anno e a quella di Venezia dell’anno successivo, oltre che in altre occasioni. In un momento per lui particolarmente felice sul piano compositivo, lo scultore ripropone così, in una dinamica quasi seriale, una sua meditazione sulla figura femminile drappeggiata: un tema che lo affascinerà lungo tutti gli anni cinquanta.
537 936 - PublicationLa glorificazione del lavoro e della cultura(1956)Moschi, MarioCome è già stato sottolineato dalla storiografia, l’iter costruttivo di questo secondo pannello sarà interrotto dagli eventi bellici e concluso soltanto alla fine degli anni cinquanta, tra il ‘56 e il ‘58, senza che peraltro venisse dato grande rilievo alla conclusione dei lavori, evidentemente considerati un retaggio del passato. Del resto si trattava di un aggiornamento soltanto relativo del progetto iniziale: il tema originariamente previsto doveva infatti illustrare La glorificazione del lavoro e delle opere del regime, dovendo ovviamente scomparire ogni riferimento diretto al fascismo, non restava che adeguare il tutto alla contingenza inserendo anche rimandi diretti alla costruzione dell’ateneo che non erano stati previsti nei quattro schizzi sopravvissuti. Moschi, com’è noto, inserirà nella composizione numerosi ritratti: dal proprio, di profilo nello scalpellino al lavoro sotto le ali di Pegaso alla destra della composizione, a quello dell’allora rettore Ambrosino, paludato da senatore romano con una pergamena in mano, per finire nei due progettisti del complesso, Fagnoni e Nordio, vestiti anch’essi all’antica e intenti a sorvegliare i lavori di costruzione dell’Ateneo, di cui poco sopra si scorge la facciata di uno degli avancorpi. Per il resto il tono della composizione non differiva di molto dal tono delle opere di regime, anche se l’enfasi propagandistica del rilievo gemello appare decisamente stemperata. La storia compositiva dell’opera era stata inevitabilmente più lunga e l’artista aveva previsto diverse soluzioni per un pannello che inizialmente doveva rappresentare “le opere di pace”. Rispetto all’unico foglio che illustra le “opere di guerra”, le soluzioni pensate per il pannello gemello paiono frammentarsi in una serie di episodi poco legati tra loro che riprendono ora l’attività cantieristica, vitale per Trieste, ora il lavoro nei campi, ora le attività universitarie. La soluzione alla fine adottata riprende e riassume tutti questi temi: partendo da sinistra si nota un’allusione al lavoro agricolo, si passa quindi alla costruzione della nuova Università e al toccante brano dell’incontro tra due donne, a sua volta seguito dalla stretta di mano che si scambiano due uomini, vegliati dal rettore e, più sopra, dal volo di Mercurio, genio del Commercio, e da una sorta di improvvisato genio del Lavoro, con mazzuolo e tenaglia in mano. Chiude la composizione a sinistra il citato scultore al lavoro, un gruppo di nudi che cercano di domare il cavallo alato Pegaso e un discobolo, inevitabilmente calcato dalla celebre scultura di Mirone e due lottatori in secondo piano. In uno dei citati disegni (Fernetti 2010, p. 57) si nota nella figura di un calciatore, anche una sorta di autocitazione di quella che era stata la creazione più celebre dello scultore, un calciatore in corsa con la palla al piede, perfettamente calata nel contesto culturale del regime.
164 103 - PublicationPalazzo Costanzi(1956)Russian, GianniLa prospettiva di palazzi si addice particolarmente al personale segno grafico di Gianni Russian: “Quell’architettura giocata tutta sulle verticali e le orizzontali gli consente di sottolineare i valori prospettici, piantando le colonne come picchetti da agrimensore a ritmare gli spazi e a suggerire la profondità” (D. Gioseffi, Quasi una scoperta la personale di Gianni Russian, “Il Giornale di Trieste”, 18 marzo 1954). Ma non si tratta soltanto di una compulsiva esercitazione in punta di penna; l’ottica di Russian mira ad essenzializzare, nel suo peculiare scheletro grafico, modelli quattrocenteschi, tanto che in un pannello ideato per la nave Nettunia (in E. Prelli, 2009, p. 621) risulta evidente la derivazione della composizione prospettica dalle predelle dell’Angelico e di Paolo Uccello (Miracolo dell’ostia profanata). Opere che gli erano sicuramente ben note fin dal periodo dagli studi svolti presso l’Istituto d’Arte ai Carmini di Venezia.
170 95 - PublicationArcangelo Messagero(1962)Mascherini, MarcelloScultura a soggetto sacro ma collocata a guardia di un luogo laico per eccellenza come il Centro Internazionale di Fisica Teorica, è il colossale Arcangelo Messaggero del 1962, con il quale Mascherini aveva nel gennaio 1974 vinto un concorso bandito dal prestigioso istituto triestino volto all’acquisizione di significative opere d’arte (Appella 2004, p. 197). ‘Difficile’ e complesso, il bronzo aveva fatto parte di quel lotto di immagini, “scabre e petrose […] simboli inquietanti del pietrificarsi della più esaltata vitalità” presentate alla sala personale allestita alla XXXI Biennale veneziana del 1962 (Salvini 1962, p. 58). A differenza del ben più leggibile Arcangelo Gabriele, che lo precede di solo un anno, sin dalla sua apparizione colpiva nell’opera in esame lo slancio sfarfallante e l’iconografia bizzarra, con “l’avveniristica51 testa di antenne esposta sull’ala, ma il suo essere d’albero, di fusto, seguito nei suoi incavi, nei suoi aggetti e persino nei suoi mancamenti, è forse uno degli esempi più didascalicamente vittoriosi tra materia e significato, fra il cercare, il trovare, e lo scegliere e l’aggiungere per modellato, propri nel dominio dell’autore” (Gatto 1969, p. 32). Si trattava di uno dei documenti visivi più importanti dell’inizio di una stagione del tutto nuova per lo scultore triestino: “Di là dal rinnovamento formale, di là dalla novità del tono poetico, rimane ferma l’esigenza profonda di Mascherini di proiettare la realtà sullo schermo del mito: il mito, adesso, della forza primigenia della natura” (Salvini 1962, p. 59); una forza che l’artista cercherà sul campo, calcando con la plastilina le tormentate superfici delle rocce carsiche esposte al vento: “nelle mie opere ricalco le materie vere, dominate da me non casualmente e nelle quali imprigiono la mia volontà […] il modellato non è più espressione di eroismo, di grazie e di bellezza, bensì ricerca, angoscia, per la quale metto nella mia opera un senso drammatico. In particolare l’opera comprende in sé tutti i dubbi di cui è permeata la nostra attualità” (intervista del settembre 1968 in Appella 2004, p. 184).Scultura a soggetto sacro ma collocata a guardia di un luogo laico per eccellenza come il Centro Internazionale di Fisica Teorica, è il colossale Arcangelo Messaggero del 1962, con il quale Mascherini aveva nel gennaio 1974 vinto un concorso bandito dal prestigioso istituto triestino volto all’acquisizione di significative opere d’arte (Appella 2004, p. 197). ‘Difficile’ e complesso, il bronzo aveva fatto parte di quel lotto di immagini, “scabre e petrose […] simboli inquietanti del pietrificarsi della più esaltata vitalità” presentate alla sala personale allestita alla XXXI Biennale veneziana del 1962 (Salvini 1962, p. 58). A differenza del ben più leggibile Arcangelo Gabriele, che lo precede di solo un anno, sin dalla sua apparizione colpiva nell’opera in esame lo slancio sfarfallante e l’iconografia bizzarra, con “l’avveniristica51 testa di antenne esposta sull’ala, ma il suo essere d’albero, di fusto, seguito nei suoi incavi, nei suoi aggetti e persino nei suoi mancamenti, è forse uno degli esempi più didascalicamente vittoriosi tra materia e significato, fra il cercare, il trovare, e lo scegliere e l’aggiungere per modellato, propri nel dominio dell’autore” (Gatto 1969, p. 32). Si trattava di uno dei documenti visivi più importanti dell’inizio di una stagione del tutto nuova per lo scultore triestino: “Di là dal rinnovamento formale, di là dalla novità del tono poetico, rimane ferma l’esigenza profonda di Mascherini di proiettare la realtà sullo schermo del mito: il mito, adesso, della forza primigenia della natura” (Salvini 1962, p. 59); una forza che l’artista cercherà sul campo, calcando con la plastilina le tormentate superfici delle rocce carsiche esposte al vento: “nelle mie opere ricalco le materie vere, dominate da me non casualmente e nelle quali imprigiono la mia volontà […] il modellato non è più espressione di eroismo, di grazie e di bellezza, bensì ricerca, angoscia, per la quale metto nella mia opera un senso drammatico. In particolare l’opera comprende in sé tutti i dubbi di cui è permeata la nostra attualità” (intervista del settembre 1968 in Appella 2004, p. 184).Scultura a soggetto sacro ma collocata a guardia di un luogo laico per eccellenza come il Centro Internazionale di Fisica Teorica, è il colossale Arcangelo Messaggero del 1962, con il quale Mascherini aveva nel gennaio 1974 vinto un concorso bandito dal prestigioso istituto triestino volto all’acquisizione di significative opere d’arte (Appella 2004, p. 197). ‘Difficile’ e complesso, il bronzo aveva fatto parte di quel lotto di immagini, “scabre e petrose […] simboli inquietanti del pietrificarsi della più esaltata vitalità” presentate alla sala personale allestita alla XXXI Biennale veneziana del 1962 (Salvini 1962, p. 58). A differenza del ben più leggibile Arcangelo Gabriele, che lo precede di solo un anno, sin dalla sua apparizione colpiva nell’opera in esame lo slancio sfarfallante e l’iconografia bizzarra, con “l’avveniristica51 testa di antenne esposta sull’ala, ma il suo essere d’albero, di fusto, seguito nei suoi incavi, nei suoi aggetti e persino nei suoi mancamenti, è forse uno degli esempi più didascalicamente vittoriosi tra materia e significato, fra il cercare, il trovare, e lo scegliere e l’aggiungere per modellato, propri nel dominio dell’autore” (Gatto 1969, p. 32). Si trattava di uno dei documenti visivi più importanti dell’inizio di una stagione del tutto nuova per lo scultore triestino: “Di là dal rinnovamento formale, di là dalla novità del tono poetico, rimane ferma l’esigenza profonda di Mascherini di proiettare la realtà sullo schermo del mito: il mito, adesso, della forza primigenia della natura” (Salvini 1962, p. 59); una forza che l’artista cercherà sul campo, calcando con la plastilina le tormentate superfici delle rocce carsiche esposte al vento: “nelle mie opere ricalco le materie vere, dominate da me non casualmente e nelle quali imprigiono la mia volontà […] il modellato non è più espressione di eroismo, di grazie e di bellezza, bensì ricerca, angoscia, per la quale metto nella mia opera un senso drammatico. In particolare l’opera comprende in sé tutti i dubbi di cui è permeata la nostra attualità” (intervista del settembre 1968 in Appella 2004, p. 184).Scultura a soggetto sacro ma collocata a guardia di un luogo laico per eccellenza come il Centro Internazionale di Fisica Teorica, è il colossale Arcangelo Messaggero del 1962, con il quale Mascherini aveva nel gennaio 1974 vinto un concorso bandito dal prestigioso istituto triestino volto all’acquisizione di significative opere d’arte (Appella 2004, p. 197). ‘Difficile’ e complesso, il bronzo aveva fatto parte di quel lotto di immagini, “scabre e petrose […] simboli inquietanti del pietrificarsi della più esaltata vitalità” presentate alla sala personale allestita alla XXXI Biennale veneziana del 1962 (Salvini 1962, p. 58). A differenza del ben più leggibile Arcangelo Gabriele, che lo precede di solo un anno, sin dalla sua apparizione colpiva nell’opera in esame lo slancio sfarfallante e l’iconografia bizzarra, con “l’avveniristica51 testa di antenne esposta sull’ala, ma il suo essere d’albero, di fusto, seguito nei suoi incavi, nei suoi aggetti e persino nei suoi mancamenti, è forse uno degli esempi più didascalicamente vittoriosi tra materia e significato, fra il cercare, il trovare, e lo scegliere e l’aggiungere per modellato, propri nel dominio dell’autore” (Gatto 1969, p. 32). Si trattava di uno dei documenti visivi più importanti dell’inizio di una stagione del tutto nuova per lo scultore triestino: “Di là dal rinnovamento formale, di là dalla novità del tono poetico, rimane ferma l’esigenza profonda di Mascherini di proiettare la realtà sullo schermo del mito: il mito, adesso, della forza primigenia della natura” (Salvini 1962, p. 59); una forza che l’artista cercherà sul campo, calcando con la plastilina le tormentate superfici delle rocce carsiche esposte al vento: “nelle mie opere ricalco le materie vere, dominate da me non casualmente e nelle quali imprigiono la mia volontà […] il modellato non è più espressione di eroismo, di grazie e di bellezza, bensì ricerca, angoscia, per la quale metto nella mia opera un senso drammatico. In particolare l’opera comprende in sé tutti i dubbi di cui è permeata la nostra attualità” (intervista del settembre 1968 in Appella 2004, p. 184).Scultura a soggetto sacro ma collocata a guardia di un luogo laico per eccellenza come il Centro Internazionale di Fisica Teorica, è il colossale Arcangelo Messaggero del 1962, con il quale Mascherini aveva nel gennaio 1974 vinto un concorso bandito dal prestigioso istituto triestino volto all’acquisizione di significative opere d’arte (Appella 2004, p. 197). ‘Difficile’ e complesso, il bronzo aveva fatto parte di quel lotto di immagini, “scabre e petrose […] simboli inquietanti del pietrificarsi della più esaltata vitalità” presentate alla sala personale allestita alla XXXI Biennale veneziana del 1962 (Salvini 1962, p. 58). A differenza del ben più leggibile Arcangelo Gabriele, che lo precede di solo un anno, sin dalla sua apparizione colpiva nell’opera in esame lo slancio sfarfallante e l’iconografia bizzarra, con “l’avveniristica51 testa di antenne esposta sull’ala, ma il suo essere d’albero, di fusto, seguito nei suoi incavi, nei suoi aggetti e persino nei suoi mancamenti, è forse uno degli esempi più didascalicamente vittoriosi tra materia e significato, fra il cercare, il trovare, e lo scegliere e l’aggiungere per modellato, propri nel dominio dell’autore” (Gatto 1969, p. 32). Si trattava di uno dei documenti visivi più importanti dell’inizio di una stagione del tutto nuova per lo scultore triestino: “Di là dal rinnovamento formale, di là dalla novità del tono poetico, rimane ferma l’esigenza profonda di Mascherini di proiettare la realtà sullo schermo del mito: il mito, adesso, della forza primigenia della natura” (Salvini 1962, p. 59); una forza che l’artista cercherà sul campo, calcando con la plastilina le tormentate superfici delle rocce carsiche esposte al vento: “nelle mie opere ricalco le materie vere, dominate da me non casualmente e nelle quali imprigiono la mia volontà […] il modellato non è più espressione di eroismo, di grazie e di bellezza, bensì ricerca, angoscia, per la quale metto nella mia opera un senso drammatico. In particolare l’opera comprende in sé tutti i dubbi di cui è permeata la nostra attualità” (intervista del settembre 1968 in Appella 2004, p. 184).Scultura a soggetto sacro ma collocata a guardia di un luogo laico per eccellenza come il Centro Internazionale di Fisica Teorica, è il colossale Arcangelo Messaggero del 1962, con il quale Mascherini aveva nel gennaio 1974 vinto un concorso bandito dal prestigioso istituto triestino volto all’acquisizione di significative opere d’arte (Appella 2004, p. 197). ‘Difficile’ e complesso, il bronzo aveva fatto parte di quel lotto di immagini, “scabre e petrose […] simboli inquietanti del pietrificarsi della più esaltata vitalità” presentate alla sala personale allestita alla XXXI Biennale veneziana del 1962 (Salvini 1962, p. 58). A differenza del ben più leggibile Arcangelo Gabriele, che lo precede di solo un anno, sin dalla sua apparizione colpiva nell’opera in esame lo slancio sfarfallante e l’iconografia bizzarra, con “l’avveniristica51 testa di antenne esposta sull’ala, ma il suo essere d’albero, di fusto, seguito nei suoi incavi, nei suoi aggetti e persino nei suoi mancamenti, è forse uno degli esempi più didascalicamente vittoriosi tra materia e significato, fra il cercare, il trovare, e lo scegliere e l’aggiungere per modellato, propri nel dominio dell’autore” (Gatto 1969, p. 32). Si trattava di uno dei documenti visivi più importanti dell’inizio di una stagione del tutto nuova per lo scultore triestino: “Di là dal rinnovamento formale, di là dalla novità del tono poetico, rimane ferma l’esigenza profonda di Mascherini di proiettare la realtà sullo schermo del mito: il mito, adesso, della forza primigenia della natura” (Salvini 1962, p. 59); una forza che l’artista cercherà sul campo, calcando con la plastilina le tormentate superfici delle rocce carsiche esposte al vento: “nelle mie opere ricalco le materie vere, dominate da me non casualmente e nelle quali imprigiono la mia volontà […] il modellato non è più espressione di eroismo, di grazie e di bellezza, bensì ricerca, angoscia, per la quale metto nella mia opera un senso drammatico. In particolare l’opera comprende in sé tutti i dubbi di cui è permeata la nostra attualità” (intervista del settembre 1968 in Appella 2004, p. 184).
148 85 - PublicationDedalo e Icaro(1964)Mascherini, MarcelloScultura a soggetto sacro ma collocata a guardia di un luogo laico per eccellenza come il Centro Internazionale di Fisica Teorica, è il colossale Arcangelo Messaggero del 1962, con il quale Mascherini aveva nel gennaio 1974 vinto un concorso bandito dal prestigioso istituto triestino volto all’acquisizione di significative opere d’arte (Appella 2004, p. 197). ‘Difficile’ e complesso, il bronzo aveva fatto parte di quel lotto di immagini, “scabre e petrose […] simboli inquietanti del pietrificarsi della più esaltata vitalità” presentate alla sala personale allestita alla XXXI Biennale veneziana del 1962 (Salvini 1962, p. 58). A differenza del ben più leggibile Arcangelo Gabriele, che lo precede di solo un anno, sin dalla sua apparizione colpiva nell’opera in esame lo slancio sfarfallante e l’iconografia bizzarra, con “l’avveniristica51 testa di antenne esposta sull’ala, ma il suo essere d’albero, di fusto, seguito nei suoi incavi, nei suoi aggetti e persino nei suoi mancamenti, è forse uno degli esempi più didascalicamente vittoriosi tra materia e significato, fra il cercare, il trovare, e lo scegliere e l’aggiungere per modellato, propri nel dominio dell’autore” (Gatto 1969, p. 32). Si trattava di uno dei documenti visivi più importanti dell’inizio di una stagione del tutto nuova per lo scultore triestino: “Di là dal rinnovamento formale, di là dalla novità del tono poetico, rimane ferma l’esigenza profonda di Mascherini di proiettare la realtà sullo schermo del mito: il mito, adesso, della forza primigenia della natura” (Salvini 1962, p. 59); una forza che l’artista cercherà sul campo, calcando con la plastilina le tormentate superfici delle rocce carsiche esposte al vento: “nelle mie opere ricalco le materie vere, dominate da me non casualmente e nelle quali imprigiono la mia volontà […] il modellato non è più espressione di eroismo, di grazie e di bellezza, bensì ricerca, angoscia, per la quale metto nella mia opera un senso drammatico. In particolare l’opera comprende in sé tutti i dubbi di cui è permeata la nostra attualità” (intervista del settembre 1968 in Appella 2004, p. 184).
210 106 - PublicationTesta di Scipio Slataper(1965)Bernt, SylvaIl 26 giugno del 1965 gli eredi di Scipio Slataper, nel corso di una cerimonia ufficiale presieduta dal Rettore Origone, donarono all’Università di Trieste quello che impropriamente veniva definito “busto” del loro illustre parente. Un dono accolto con entusiasmo dal Rettore, che nel suo discorso non aveva mancato di notare come il poeta fosse stato “uno di quelli che vollero l’Università sul serio, e non di coloro che ritenevano la si dovesse richiedere e non mai ottenere”. L’opera era stata realizzata in bronzo dall’artista goriziana Sylva Bernt, che da tempo si era trasferita a Parigi dove si era accostata alle più moderne tendenze del Noveau Realisme, superando progressivamente la cifra martiniana degli esordi. In questa chiave si inserisce anche l’effige di Slataper, che appare quasi consumata dalla luce, concepita “come un’energia che deve trasfondere la materia e che si fa puro movimento di linee e profilo nello spazio. Le figure appaiono quasi soffiate, esse appartengono allo stesso respiro della luce nello spazio […] l’intento più segreto dell’artista è stato quello di giungere a plasmare la luce stessa, di rendere evento plastico la sua immateriale consistenza” (Toniato 1996). Il ricercato basamento su cui poggia la scultura, a fianco dello scranno destinato a ospitare i membri del senato accademico, era stato progettato da Umberto Nordio, che vi aveva anche fatto inserire a lettere capitali una frase dello stesso Slataper: “PRIMA DI TUTTO SONO UOMO/ POI SON POETA E NON LETTERATO/ POI SONO TRIESTINO”, e poi ancora “ SCIPIO SLATAPER/ TRIESTE 1888 – CALVARIO 1915”.
192 88 - PublicationStruttura bianca n. 1(1972)Perizi, Nino“Equilibrio dinamico dell’oggetto in opposizione al suo equilibrio statico”: così Carlo Milic definiva l’essenza di queste sculture che sembrano degli origami non figurativi. L’immagine che più efficacemente riassume il principio guida di queste composizioni in metallo è la fotografia che ritrae l’artista mentre protende verso il cielo una struttura aliforme da lui stesso creata (cfr. Mascherini Perizi Basaldella. 120 giorni di scultura a Trieste, catalogo della mostra di Trieste, Castello di San Giusto, maggio – settembre 1975, Trieste, Amministrazione Provinciale, 1975). Si tratta della sintesi del movimento espressa in un’immagine astratta, concetto al quale Costantin Brancusi aveva conferito forma, in maniera stupefacente, con Uccello nello spazio nel 1940. Un considerevole numero di realizzazioni di Perizi furono esposte al Bastione Fiorito del Castello di san Giusto, accanto alle opere di Mascherini e Basaldella (Mascherini Perizi Basaldella. 120 giorni…). Tali opere hanno un ulteriore illustre precedente: le sculture in metallo smaltato di Carlo Lorenzetti realizzate alla metà degli anni Sessanta. Inoltre non è improbabile che Perizi avesse visitato la trentunesima Biennale di Venezia del 1962 (Catalogo della XXXI Esposizione Biennale d’Arte Venezia, Venezia, Stamperia di Venezia, 1962, p. 117, n. 93) e in quella occasione, nel padiglione centrale, avesse scoperto un’opera di Lygia Clark – Animale invertebrato – prototipo per questi suoi origami astratti.
135 89 - PublicationSenza titolo(2006)Ušić, LaraL’opera è stata donata all’ateneo dall’artista in occasione della mostra personale allestita presso la Sala degli Atti della Facoltà di Economia tra il novembre del 2010 e il marzo dell’anno successivo. L’esposizione, intitolata Frammenti, presentava una selezione di lavori dedicati da Lara Ušić a una propria personalissima visione del mondo, ricreata attraverso una campionatura di manifesti strappati dalle pareti: quei «lembi materici della pelle artificiale dei muri» che più di mezzo secolo fa Mimmo Rotella aveva nobilitato sino a farne elemento imprescindibile della propria poetica. Il processo creativo dell’artista non si limita però al décollage, ma compie un passo ulteriore ricreando con sabbia, cemento, reti e resine acriliche un contesto pittorico dove ospitare questi emblemi usurati della contemporaneità, sostanziandoli di fatto con materiali che fanno parte della sua stessa struttura. In sostanza Lara Ušić, attraversando la nostra stanca modernità, «ricompone stratificando, ricostruisce i frammenti della propria e altrui esistenza utilizzando materiali che fanno parte in altre formulazioni del normale processo di creazione della nostra civiltà urbana […] Una sorta di palingenesi della materia, una vera e propria “cosmogonia portatile”, direbbe Raymond Queneau, dove senza alcuna pretesa di universalità l’artista racconta per ‘frammenti’ la nostra storia recente e le sue lacerazioni» (M. De Grassi, Frammenti, pieghevole della mostra di Trieste, Sala degli atti della facoltà di Economia, 2 febbraio – 29 maggio 2010). Di una visionarietà antagonista parla invece Giovanni Leghissa: «contro a questa visione indifferenziata della frammentazione, il lavoro di Lara Ušić ci riporta verso un’altra dimensione, abitata dalla possibilità di testimoniare frammenti di storie perdute, significative perché pervase dall’intensità di un vissuto che parla di resistenza, di opposizione, di lotta. In maniera non dissimile dall’angelo della storia benjaminiano, si tratta qui di contemplare un passato che, conservatosi nella forma della traccia e della rovina, interroga il presente» (Tutto qui? Non così in fretta!, in Idealizmi in fragmenti – Idealismi e frammenti, catalogo della mostra di Sežana, Kosovelov dom 17 marzo – 18 aprile 2006, Sežana, Kosovelov dom Sežana, 2006, s.n.). Questo processo di composizione trova nell’opera in esame un momento di particolare felicità compositiva, soprattutto dal punto di vista cromatico e soprattutto nell’evocazione, forse involontaria, di un tricolore italiano listato a lutto che sembra lottare con le tessiture materiche predisposte dall’artista che interagisce con il proprio vocabolario artistico con una sottile e rabbiosa ironia. Una riscrittura dove la componente dominante è ovviamente quella dettata dal gusto personale, ma capace di donare allo spettatore piccole ed evocative finestre sul mondo.
102 73 - PublicationSenza titolo(2006)Ušić, LaraL’opera è stata donata all’ateneo dall’artista in occasione della mostra personale allestita presso la Sala degli Atti della Facoltà di Economia tra il novembre del 2010 e il marzo dell’anno successivo. L’esposizione, intitolata Frammenti, presentava una selezione di lavori dedicati da Lara Ušić a una propria personalissima visione del mondo, ricreata attraverso una campionatura di manifesti strappati dalle pareti: quei «lembi materici della pelle artificiale dei muri» che più di mezzo secolo fa Mimmo Rotella aveva nobilitato sino a farne elemento imprescindibile della propria poetica. Il processo creativo dell’artista non si limita però al décollage, ma compie un passo ulteriore ricreando con sabbia, cemento, reti e resine acriliche un contesto pittorico dove ospitare questi emblemi usurati della contemporaneità, sostanziandoli di fatto con materiali che fanno parte della sua stessa struttura. In sostanza Lara Ušić, attraversando la nostra stanca modernità, «ricompone stratificando, ricostruisce i frammenti della propria e altrui esistenza utilizzando materiali che fanno parte in altre formulazioni del normale processo di creazione della nostra civiltà urbana […] Una sorta di palingenesi della materia, una vera e propria “cosmogonia portatile”, direbbe Raymond Queneau, dove senza alcuna pretesa di universalità l’artista racconta per ‘frammenti’ la nostra storia recente e le sue lacerazioni» (M. De Grassi, Frammenti, pieghevole della mostra di Trieste, Sala degli atti della facoltà di Economia, 2 febbraio – 29 maggio 2010). Di una visionarietà antagonista parla invece Giovanni Leghissa: «contro a questa visione indifferenziata della frammentazione, il lavoro di Lara Ušić ci riporta verso un’altra dimensione, abitata dalla possibilità di testimoniare frammenti di storie perdute, significative perché pervase dall’intensità di un vissuto che parla di resistenza, di opposizione, di lotta. In maniera non dissimile dall’angelo della storia benjaminiano, si tratta qui di contemplare un passato che, conservatosi nella forma della traccia e della rovina, interroga il presente» (Tutto qui? Non così in fretta!, in Idealizmi in fragmenti – Idealismi e frammenti, catalogo della mostra di Sežana, Kosovelov dom 17 marzo – 18 aprile 2006, Sežana, Kosovelov dom Sežana, 2006, s.n.). Questo processo di composizione trova nell’opera in esame un momento di particolare felicità compositiva, soprattutto dal punto di vista cromatico e soprattutto nell’evocazione, forse involontaria, di un tricolore italiano listato a lutto che sembra lottare con le tessiture materiche predisposte dall’artista che interagisce con il proprio vocabolario artistico con una sottile e rabbiosa ironia. Una riscrittura dove la componente dominante è ovviamente quella dettata dal gusto personale, ma capace di donare allo spettatore piccole ed evocative finestre sul mondo.
109 72 - PublicationImprovvisazione(2009)Frausin, DanielaL’acquerello è giunto nelle collezioni dell’ateneo in occasione della mostra Danza evanescente allestita presso la Sala degli Atti della Facoltà di Economia tra il 24 giugno e il 12 novembre del 2011. Si trattava di una rassegna incentrata sul duplice interesse dell’artista per la danza e per l’acquerello. Per la prima si trattava di un suo sogno irrealizzato che ispira sottotraccia molte delle sue composizioni sin dagli esordi e affiora anche nei lavori apparentemente più astratti come quello donato all’ateneo triestino. L’acquerello, invece, è indubbiamente la tecnica più amata da Daniela Frausin, quella che meglio le permette di esprimersi con fluidità, lontana dalla severa disciplina imposta dalla grafica, che pure rimane tra i mezzi d’espressione preferiti, o ancora dalla complessità tecnica della pittura più tradizionale. Il termine Improvvisazione usato per il titolo risulta particolarmente adatto per descrivere l’opera in esame, ed evoca anche un immaginario, quello della musica afroamericana, particolarmente adatto per commentare le apparizioni fluttuanti suggerite dalle pennellate delicate e al tempo stesso impetuose che creano con linee morbide e sinuose vere e proprie figure danzanti. Si tratta di apparizioni che non poggiano su un piano preciso e sono solo in parte percettibili nella luce e nelle velature. Prendono forma e si dissolvono nel nulla e poi ricompaiono attraverso lontane trasparenze, come se fossero trascinate in un sogno lontano dai conflitti, dalle tensioni. In questa come nelle altre opere presenti alla mostra dell’ateneo triestino: «il colore acquisisce finalità poetiche, si dilata, si materializza e svanisce; mentre nella luce risiede un potere evocativo: L’artista utilizza luce e colore per dare libero sfogo ai sentimenti e alla tensione drammatica come fossero un eco di complesse scenografie, “intensificatori” dell’espressività» (G. Jercog, Danza evanescente, pieghevole della mostra di Trieste, Sala degli atti della facoltà di Economia, 24 giugno – 12 novembre 2011).
127 86 - PublicationSenza titolo(2010)Furlani, GiovanniIl dipinto è giunto nelle collezioni dell’ateneo in occasione della mostra Finestre sulla realtà allestita presso la Sala degli Atti della Facoltà di Economia tra il 17 gennaio e il 31 maggio 2012. Come le altre opere selezionate per la personale triestina, quella in esame mostra gli elementi oggi dominanti nella ricerca pittorica di Giovanni Furlani, da tempo avviata verso un’attenta rilettura degli stimoli visivi dell’espressionismo astratto americano e in particolare della gestualità a tratti violenta di artisti come Franz Kline e Jackson Pollock. Per Furlani segno e gestualità sono infatti «armi per comunicare al prossimo la propria interiorità e la propria esperienza di vita», dove è stata «fondamentale per la sua crescita umana e soprattutto per la sua formazione artistica […] l’esperienza brasiliana con il maestro spagnolo Kiko Argüello. Da questo incontro deriva la ricerca, tutta interiore, del bello e del vero, frutto dell’unione tra estetica visiva ed estetica spirituale» (Caterina Ratzenbeck, Finestre sulla realtà, pieghevole della mostra di Trieste, Sala degli atti della facoltà di Economia, 17 gennaio – 31 maggio 2012). Nella tela dell’ateneo triestino l’artista mostra con chiarezza, anche in un contesto dimensionalmente contenuto, come la sua poetica si esprima tramite un segno deciso ma tutt’altro che casuale, una gestualità resa ancora più evidente da una materia cromatica molto diluita, quasi evanescente.
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