Pinacoteca del Rettorato
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- PublicationAerovita(1932)Ambrosi Gauro, AugustoNon sono note le circostanze in cui il dipinto è giunto nelle collezioni dell’ateneo, di certo si trattava di un’opera particolarmente significativa nel percorso artistico di Ambrosi, come dimostrano eloquentemente le presenze alle Biennali veneziane e alle mostre organizzate all’estero dal Ministero della Cultura Popolare documentate dai talloncini sul verso della tavola. L’artista era stato sin dal 1929 uno dei primi ad aderire al nascente movimento dell’ Aeropittura: Aerovita, coerentemente bordato da una cornice in lamiera, appare in questo senso un prodotto tipico della prima fase della sua attività, che vede in primo piano l’esaltazione della macchina, senza ancora i virtuosismi ottici della produzione successiva, dedicata soprattutto alla pittura “di guerra”, come ben ricordato da Filippo Tommaso Marinetti nella sua presentazione alla mostra futurista della Biennale del 1942 (p. 224): “fra le venti aeropitture futuriste di guerra di A. G. Ambrosi (reduce dai voli di guerra ispiratori con Verossi Di Bosso Menin) quella che porta il titolo significativo e mondiale di «Bombardamenti di Malta» insegna molto a tutti gli artisti di oggi. Una trasfigurazione e personificazione delle varie forme colori dell’isola sorvolata dai trimotori bombardanti e una geometrizzazione del cielo così velocizzato dai continui voli sopraggiungenti caratterizzazione dei punti colpiti e dei fumi con le sagome spettralizzate delle bombe distruggono qualsiasi possibile accusa di fotografismo centuplicano le velocità sparanti e colpenti e caricano di spiritualità micidiale volitiva e matematica apparecchi e paesaggio tenendo sempre vive nel quadro le altezze e le masse d’aria”. Nel presentare la mostra del futurismo italiano ospitata nel padiglione russo alla Biennale veneziana del 1936, dove il dipinto era esposto, ancora Marinetti (p. 18) aveva annunciato “aeropitture impressionistiche documentarie, aeropitture trasfigurate astratte, aeropitture cosmiche, paesaggi inventati e spiritualizzati, immagini letterarie espresse plasticamente e arte sacra futurista”. In questo contesto, il dipinto sarà quindi esposto alla mostra promossa a Berlino dal Ministero della Cultura Popolare e allestita a cura della Biennale di Venezia al palazzo dell’Accademia Prussiana della Arti Figurative inaugurata il 28 ottobre nel sedicesimo anniversario della marcia su Roma, salutato da una grande attenzione della stampa veronese: “[Ambrosi] espone due opere: “Sensazione continuativa d’ammaraggio a Napoli” e “Aerovita”, quadri già conosciuti dalla stampa e dalla critica di Budapest, Amsterdam, Rotterdam, dove furono esposti in unione ai maggiori artisti d’avanguardia” (Il pittore Ambrosi espone a Berlino, “Corriere Padano”, 9 ottobre 1937). Alla successiva Biennale del ‘42, quando i principi dell’ Aeropittura erano stati ormai codificati, il dipinto sarà presentato nel padiglione della Regia aeronautica alla mostra delle Opere ispirate alla guerra La busta riservata all’autore conservata alla Fototeca dell’Archivio Storico della Biennale veneziana conserva un’immagine che porta sul verso la scritta autografa “A.G. Ambrosi, Aerovita” e mostra un’altra redazione del dipinto, con variazioni nella disposizione delle figure e una più ampio apertura sul paesaggio, visto dall’alto e con la presenza di numerosi aerei da caccia sullo sfondo.
203 222 - PublicationTesta di Fabio Filzi(1934)Bortolotti, TimoLa testa riporta a grandezza naturale le fattezze di Fabio Filzi (Pisino 1884 – Trento 1916), studente di Economia presso l’Ateneo triestino e sottotenente volontario degli alpini durante la prima guerra mondiale, venne impiccato a Trento insieme a Cesare Battisti per aver cospirato contro il governo austriaco. In epoca fascista i contorni della sua vicenda diverranno uno dei simboli dell’irredentismo italiano più utilizzati, basti pensare alla sua collocazione insieme alle figure di Damiano Chiesa e dello stesso Battisti nel sacello del piacentiniano Monumento alla Vittoria di Bolzano, inaugurato nel 1928 (cfr. U. Soragni, Il Monumento alla Vittoria di Bolzano, Vicenza, Neri Pozza, 1993). Non stupisce quindi che l’Ateneo triestino, nel quadro di una sua progressiva fascistizzazione messa in atto a partire dalla metà degli anni Trenta, dedicasse alla memoria del giovane studente un ricordo monumentale nell’allora aula magna dell’Ateneo, collocata in palazzo Dubbane in via dell’Università 7. Così infatti recita il biglietto d’invito alla cerimonia di scoprimento del busto in esame, firmato dall’allora rettore Manlio Udina e datato 14 dicembre 1934: “giovedì 20 dicembre corr., alle ore 19, nell’Aula Magna Principe Umberto di Savoia di questa R. Università, verrà scoperto il busto al Martire Fabio Filzi, opera dello scultore Prof. Timo Bortolotti, offerto dalla Compagnia Volontari Giuliani e Dalmati – Sezione di Trieste dell’Associazione Nazionale Volontari di Guerra”. In quello stesso ‘34 Filzi era stato insignito dall’ateneo giuliano anche della laurea ad memoriam in Economia insieme a Emo Tarabocchia, anch’esso caduto durante la grande guerra. Tramite per la commissione a Bortolotti, la cui attività è concentrata tra Milano e Brescia e di cui non si conoscono altre presenze a Trieste, doveva probabilmente essere stato il pittore giuliano Piero Marussig, che agli inizi degli anni Trenta assieme allo scultore e ad Achille Funi aveva fondato in via del Vivaio a Milano una Scuola d’arte aperta a tutti e che continuava a tenere contatti con l’artista lombardo. Un altro esemplare dell’immagine del martire triestino sarà realizzato alla metà del 1935 per l’Associazione dei Mutilati milanesi (cfr. Panzetta 1996, con bibliografia precedente) e da questa offerto in seguito al Museo del Buonconsiglio di Trento dove è tuttora conservato. Il gesso preparatorio, segnalato da Alfonso Panzetta (1996, p. 142), per le due redazioni conosciute del busto si trova invece in collezione privata.
200 140 - PublicationTesta di Umberto Nordio(1938)Carà, UgoLa scultura è stata donata all’Ateneo nel luglio del 1974 dalla vedova dell’architetto Umberto Nordio (1891-1971), che con Raffaello Fagnoni era stato il principale progettista della nuova sede universitaria. Eseguita da Ugo Carà nel 1938, l’immagine dell’architetto avrà per molto tempo una fruizione esclusivamente privata: non risulta infatti che sia stata presentata a nessuna esposizione ufficiale. Su di un piano squisitamente stilistico l’opera, pur somigliantissima, si inserisce nel recupero della tradizione ritrattistica della Roma repubblicana posta in atto alla metà degli anni trenta da artisti come Francesco Messina; in questo caso, vista la destinazione privata dell’opera, Carà stempera la severa spigolosità che caratterizza alcune realizzazioni di questo momento, che pure gli avevano regalato una certa notorietà, in favore di un “respiro dolce e sereno, talora una gracilità lirica come qualcosa di sopravvissuto che va gradatamente scomparendo […] partito da un realismo quasi brutale […] è andato eliminando il superfluo, sveltendo la tecnica e accentuando la sintesi, sino a cogliere una particolare linearità” (U. Apollonio, Ritratti di Ugo Carà, “Domus”, 146, febbraio 1940, s.n.). La testa poggia su di un alto basamento in pietra d’Aurisina disegnato appositamente da Antonio Guacci.
363 836 - PublicationRitratto del Rettore Manlio Udina(1940)Sambo, Cappelletti EdgardoPreside dell’Università degli Studi Economici dal 1 dicembre 1930, Udina ricoprì la carica di Rettore dal 28 ottobre 1938 fino al medesimo giorno dell’anno seguente. Egli fu, effettivamente, il primo Rettore della “Regia Università degli Studi” di Trieste dal momento che solo nel 1938 questo ruolo venne distinto da quello di preside della Facoltà di Economia grazie alla recente attivazione della seconda facoltà, quella di Giurisprudenza e Scienze Politiche. Tale risultato venne raggiunto proprio grazie alla pertinacia e alla dedizione di Udina, da tempo impegnatosi sul fronte dell’ampliamento dell’offerta didattica. Nato a Visignano d’Istria nel 1902, docente di Diritto Internazionale dapprima alla facoltà di Giurisprudenza della neonata Università di Bari e in seguito nel capoluogo giuliano, sin dal 1935 egli aveva attivato un serrato confronto con il ministro Bottai proprio al fine di espandere il nucleo originario dell’Ateneo triestino. La costituzione della facoltà di Giurisprudenza fu un obiettivo conseguito assieme all’assunzione dell’impegno politico da parte del Governo di realizzare un’Università completa di tutte le facoltà, meta che Udina contribuì attivamente a realizzare creando e alimentando la crescita dell’Istituto di Diritto Internazionale e Legislazione Comparata in cui fu attivo anche come docente. L’ambizioso sguardo proiettato sul futuro e il suo fiero attivismo (causa, nel 1939, del commissariamento da parte del ministero) non impedirono a Udina di mantenere alta l’attenzione anche sul recente passato dell’Ateneo dando vita, nel maggio del 1939, al Comitato per la Storia dell’Università di Trieste di cui venne chiamato a far parte il futuro Rettore Mario Viora. Il prestigio del ruolo accademico ma soprattutto l’impegno profuso per la crescita di quella che, in qualche modo, era la “sua” Università, portano Sambo a enfatizzare l’importanza della carica di Udina raffigurandolo con le spalle coperte dal manto di ermellino. L’immobile frontalità della figura vede dunque in questo particolare un amplificatore della severità del personaggio, enfatizzata dalla posa ingessata e dallo sguardo fisso e penetrante. Rappresentato ancora giovane, nella robusta imponenza della figura il Rettore pare ben conscio dell’onore e degli oneri connessi al suo incarico, evidenziato da Sambo attraverso il deciso scarto cromatico e luministico fra il fondale e la toga da un lato, il bordo di pelliccia e il bavero dall’altro. Realizzato attorno al 1937, il dipinto si può stilisticamente collocare a metà strada fra Il Ritratto del Rettore Prof. Alberto Asquini e quello di Giulio Morpurgo: il plastico modellato ottocentesco viene infatti mitigato da una sincerità di visione che richiama moduli novecentisti, evidenti anche nella semplicità dei mezzi e delle tonalità adottate la cui freschezza e «sonorità quasi di squilli» (b., La mostra di Edgardo Sambo, in “Il Piccolo”, XV, 5334, 5 febbraio 1937) aveva fortemente colpito il critico de “Il Piccolo” già in occasione della personale triestina del 1937.
295 340 - PublicationVenus(1950)Sambo, EdgardoPresentato all’Esposizione Nazionale di Pittura Italiana Contemporanea dell’Università di Trieste, il dipinto venne acquistato per la cifra di centomila lire nonostante gli elenchi dattiloscritti stilati nei giorni precedenti l’apertura della mostra ne segnalassero un valore di quattro volte superiore. Tale disparità di cifre non sfuggì al Rettore Ambrosino che, nel marzo del 1954, si affrettò a inviare una lettera a Sambo per pregarlo di «accettare il sacrificio che le chiedo considerando che la Sua opera sarà conservata da un’istituzione universitaria che ha vita secolare» (Lettera di Rodolfo Ambrosino a Edgardo Sambo, 11 marzo 1954). Nonostante l’esito del concorso indetto a margine dell’esposizione fosse andato a favore di opere stilisticamente molto diverse, Venus non era certo passata inosservata, vuoi per il fatto di uscire dal pennello di uno dei maggiori pittori triestini del secolo, vuoi per il fascino esercitato dal suo essere «pensosa e suggestiva» (Tranquilli, 6 dicembre 1953). Il dipinto può essere considerato il punto di arrivo della pittura di Sambo e, a un tempo, la perfetta summa dei suoi interessi: da un lato il culto della figura, nutrito sin dagli anni della formazione presso Zangrando e proseguito nella fitta schiera di ritratti che hanno costellato la sua produzione, dall’altro l’interesse per il mondo antico, inaugurato nel periodo romano del pensionato Rittmeyer e rafforzatosi negli anni Venti come conseguenza del contatto con Novecento e il gruppo di Valori Plastici. Le immagini di un tempo remoto e ormai in decadenza vengono utilizzate dall’artista triestino per puntellare ulteriormente l’idea di una pittura che è riflessione sui valori del presente, in crisi al pari dei monumenti (e degli ideali) su cui poggiava la grandezza del passato. Venus propone dunque un serrato e immediato confronto fra epoche lontane e principi estetici diversi: nonostante la figura in primo piano e la Venere di Milo sullo sfondo condividano le medesime rotondità e pudori, la femminilità provocante incarnata dalla giovane non è più quella di una divinità distaccata dai rumori del mondo ma piuttosto quella di una soda lavoratrice pronta ad affrontare la vita con tutte le problematiche della contemporaneità. Se dal punto di vista tematico il dipinto presenta evidenti affinità con I tre modelli, risalente al 1929 (Cataldi, 1999, cat. n. 89, p. 75), il motivo del ripiegamento interiore e il desiderio di rappresentare la condizione sociale del secondo dopoguerra che qui si possono percepire si riverberano in opere cronologicamente più prossime come Giovane operaio (ivi, cat. n. 229, p. 147), vicino al dipinto in esame anche sotto il profilo stilistico. Per accentuare l’approfondirsi dell’atteggiamento introspettivo comune all’intera sua produzione, negli anni cinquanta Sambo chiude le figure all’interno di spesse linee di contorno scure, quasi a voler sottolineare l’isolamento dell’uomo moderno e il suo bisogno/necessità di ripiegarsi su se stesso per non lasciarsi scalfire dagli eventi esterni. Questa soluzione compositiva, peraltro, si configura come un’evoluzione dell’attenzione alla plasticità delle forme che, pur percorrendo tutta la produzione dell’artista, si rafforza a seguito della citata vicinanza ai movimenti neoclassici che si affermano dal primo dopoguerra e del più recente neocubismo. Recuperando tonalità solari e una luce capace di creare marcate zone d’ombra, Sambo crea un’opera in cui vengono ribadite le qualità della sua arte, costantemente volta alla ricerca di semplicità compositiva, robustezza della figure, di un modo di procedere sintetico e del legame con la tradizione. Al tempo stesso, tuttavia, questi stessi sono i principi che, essendo perseguiti dalle più moderne correnti pittoriche, pongono Sambo a stretto contatto con il panorama artistico a lui contemporaneo confermandolo artista che, come ha voluto simboleggiare in Venus, tiene nella medesima considerazione passato e presente.
207 197 - PublicationDea Roma(1950)Selva, AttiloIn una lettera al rettore Cammarata del primo luglio 1952, il presidente dell’Associazione fra i laureati dell’ateneo triestino scriveva: “ho l’onore di portare a conoscenza della M.V. Che, come a suo tempo ha già fatto il mio predecessore […] ha deciso di accettare il bozzetto della statua della Dea Roma dovuto allo scultore Attilio Selva e mi ha dato mandato di comunicare alla M.V. Questo voto”; e proseguiva quindi con questo tenore “ho l’onore di chiedere alla M.V. formale accettazione da parte dell’Università di Trieste del dono che l’ALUT intende fare al nostro amato Ateneo e, al tempo stesso, di pregare la M.V. Di voler accogliere il desiderio unanime del sodalizio che io presiedo, di veder sorgere il simbolico simulacro al sommo della scalinata d’accesso al palazzo universitario, sullo sfondo dell’ala ove è sistemata la Facoltà giuridica”, vale a dire più o meno nel posto attualmente occupato dalla Minerva di Mascherini, lì collocata pochi anni più tardi. La proposta di donazione si riferiva probabilmente della redazione in gesso a scala colossale, alta poco più di tre metri, oggi conservata presso il Civico Museo Revoltella e donata alle raccolte cittadine dalla stessa ALUT nel 1963 (cfr. Il Museo Revoltella… 2004, p. 277, n. 1026); una scultura che costituiva un’ulteriore testimonianza della volontà da parte dell’associazione di ‘marcare’ gli spazi universitari già dimostrata negli anni precedenti. Secondo Giovanna Caterina De Feo (2010, p. 73), infatti, l’associazione aveva commissionato l’opera allo scultore sin dagli anni quaranta per collocarla “nel piazzale antistante alla facoltà”: evento improbabile visto che il progetto prevedeva all’epoca la presenza di sculture di Marcello Mascherini. Va inoltre notato come alla luce della documentazione poc’anzi citata, la realizzazione dell’opera fosse certamente conclusa nel 1952, come del resto dimostrano anche i caratteristi stilistici, ben lontani, per esempio, dalla colossale e ieratica Vittoria del Monumento a Nazario Sauro di Capodistria, che pure si avvicina all’opera in esame per moduli compositivi. Occorrerà attendere ancora molti anni per vedere almeno il modellino in bronzo approdare nelle collezioni dell’Università: per ragioni non note, il dono troverà infatti concretizzazione soltanto nel 1963, dopo un iter durato ben 13 anni, come evidenziava una nota de “Il Piccolo” del 27 gennaio di quell’anno: “il Prof. Montesi ha precisato come le massime autorità dello Stato e gli esponenti più alti della politica, dell’arte e dello studio, fra cui 26 Rettori d’Università, abbiano dato unanime adesione all’iniziativa. «Una larga schiera di alcuni tra gli uomini migliori dell’Italia risorta e rinnovata nei suoi propositi di libertà, di progresso, di umana civiltà. Nel 1950 gli anni del dopoguerra dovevano ancora cominciare per Trieste; e quegli uomini, aderendo a quella iniziativa, coraggiosa anche perché troppo facili potevano essere i dubbi che in alcuni si rischiava di far sorgere, ripensando all’abusato nome della civiltà di Roma, espressero un sereno giudizio e un appello fiducioso nel futuro». Beneaugurando alle fortune dell’Ateneo, il prof. Montesi ha concluso il suo discorso pronunciando le parole che Giani Stuparich ebbe a dire sull’iniziativa della Dea Roma. Ha quindi preso la parola il Magnifico rettore prof. Agostino Origone […] dopo aver ringraziato l’ALUT per la tenacia dimostrata nella iniziativa coronata da così brillante successo, ha intrattenuto l’uditorio sul mondo classico e mitologico rappresentante la Dea Roma, ossia Minerva, divinità latina identificata con l’Atena dei greci, dea delle arti e in genere dell’ingegno umano che con Giove e Giunone forma la classica triade capitolina” (AUT, busta 27. fasc. 26B1). Evidente la circostanza che vede le vicende relative a questa scultura correre parallele a quelle riguardanti l’acquisto della Minerva di Marcello Mascherini, perfezionato tra il 1954 e il ‘56, per una collocazione analoga a quella ipotizzata per la statua di Selva ‘sponsorizzata’ dall’associazione dei laureati triestini. Dal punto di vista di quella che si potrebbe chiamare ‘egemonia artistica’, veniva così a riproporsi, a parti questa volta rovesciate, quel dualismo che nell’anteguerra aveva sistematicamente premiato la maggior fama del più affermato Selva, allora interprete pressoché perfetto dei voleri della committenza di partito, che di fatto gli aveva assegnato tutti i più importanti cantieri cittadini lasciando poco o nulla ai giovani in via di affermazione come Mascherini. A distanza di tre lustri le parti apparivano completamente rovesciate: forte del suo successo e della ‘modernità’ della sua proposta, il più giovane veniva preferito in virtù di un linguaggio accattivante e sensibile alle novità del clima internazionale, mentre la scultura di Selva, inappuntabile sul piano della modellazione e della composizione non sembra in alcun modo tener conto del mutamento del gusto.
217 214 - PublicationViso(1950)Fini, LeonorIl dipinto è stato acquistato per le collezioni dell’ateneo dopo l’L’esposizione nazionale di Pittura Italiana contemporanea del 1953, “Egregio signore ricevo la sua lettera. Grazie. Consento il prezzo di 100.000 lire e prego di versare questa somma a mia madre […] mi fa piacere sapere quel quadro all’Università di Trieste”, con questo laconico messaggio Leonor Fini acconsentiva a una sostanziosa diminuzione del valore prefissato in una lettera del due agosto, doveva notificava al rettore Ambrosino la volontà di mandare alla mostra triestina “un’opera recente, una grande testa a olio. Il prezzo e di L. 300.00”, aggiungendo che “ho dato istruzioni alla galleria “La Bussola” di Torino d’inviarle uno dei miei quadri entro il 30 settembre 1953”; cosa avvenuta anche se con un certo ritardo. Nella lettera appena citata la Fini proponeva anche i nomi di Bernard Berenson, Carlo Barbieri e del pittore e architetto Fabrizio Clerici (di cui la Fini aveva realizzato nell’anno precedente un magnifico ritratto) come possibili protagonisti dell’auspicato corso di critica. Tra i pochi commenti della critica dell’epoca, affilato e molto centrato pare il giudizio di Gioseffi, senz’altro il più analitico tra quelli proposti sull’opera in esame e che coglieva con efficacia le caratteristiche peculiari di quel momento della produzione della pittrice, ben documentata anche da tele come il coevo Volto di donna: “la «testa» della Fini non è una delle sue cose più notevoli: ciò che è sempre suo è quell’aspetto come di fantasma, di apparizione, di ectoplasma che sta materializzandosi, proprio di molta sua pittura, e l’espressione inconfondibile degli occhi, torbidi, ambigui e dolci. Occhi che sembrano guardarci dall’aldilà” (Gioseffi 1953); e ancora, nella breve ma significativa annotazione di Luigi Carluccio, il dipinto diventava “una figura che riporta con una scrittura sottile e fluida l’immagine consueta e antica dell’autoritratto” (Carluccio 1953). Di certo molto alto sarà invece il gradimento del pubblico, documentato dall’Istituto di Statistica dell’Università e poi pubblicato sul Bollettino della Doxa, che sconvolgerà di fatto il giudizio della critica segnalando l’opera di Leonor Fini come l’opera di gran lunga più gradevole tra quelle esposte in mostra.
129 196 - PublicationCandele in riva mare(1950)Tomea, FiorenzoAll’Esposizione nazionale di pittura italiana contemporanea allestita nell’aula magna dell’ateneo triestino nel 1953, Fiorenzo Tomea aveva presentato Solitudine, un dipinto del 1949 che ripercorreva una tematica, quella dello scheletro in meditazione, affrontata a più riprese negli anni precedenti, sin dal dipinto di analogo titolo del 1937. Il quadro, oggi in una collezione privata di Milano, verrà in seguito presentato a numerose sue esposizioni, anche successive alla sua morte (cfr. Fiorenzo Tomea, catalogo della mostra di Ferrara, Palazzo dei Diamanti 8 dicembre 1989 – 4 febbraio, a cura di M. L. Tomea Gavazzoli, pp. 47, 135). Solitudine era stato uno dei dipinti scelti per l’acquisto da parte dell’ateneo, che dopo aver ricevuto la richiesta d’acquisto da parte del Rettore, chiederà di poter sostituire l’opera esposta in quell’occasione, con una tela più recente, Candele in riva al mare, di dimensioni inferiori e mai presentata in pubblico in precedenza, una richiesta che sarà prontamente accolta anche se purtroppo la documentazione d’archivio non consente di capire le regioni della scelta dell’artista (AUT, Busta 59, fasc. corrispondenza). Di certo le candele facevano da molto tempo dell’universo poetico dell’autore, sin dalla seconda metà degli anni trenta, quando aveva cominciato a dipingerle insieme alle maschere in ambientazioni quasi metafisiche che diventeranno una delle cifre più riconoscibili della sua opera: “le candele di Tomea appariranno un giorno, nella storia dell’arte, una clausola poeticamente definita, così come le bottiglie di Morandi […] il parallelismo di un mestiere-intelletto anche al di là delle fascinose cento versioni di quel soggetto: sfuggendo all’inerzia di un’espressione atipica, ogni itinerario pittorico del cadorino si condensa piuttosto in una maniera singolare che è tutta la sua autorità e tutta la sua misura” (R. Civello, Sulla pittura di Fiorenzo Tomea, Siena, Ausonia, 1956, p. 23). Il dipinto in esame è stato riproposto al pubblico solo in occasione delle due recentissime mostre che hanno ripercorso le vicende della Esposizione nazionale di pittura italiana contemporanea del 1953.
249 259 - PublicationRitratto del Rettore Angelo Cammarata(1950)Sambo, Cappelletti EdgardoDi origine catanese, Angelo Cammarata era stato professore ordinario di Filosofia del Diritto nelle Università di Messina e Macerata prima di approdare alla neo costituita Facoltà di Giurisprudenza dell’Ateneo triestino. Formatosi a Catania e Pisa con maestri del calibro di Benedetto Croce e Giovanni Gentile, nel capoluogo giuliano Cammarata prese attivamente parte alla nascita della Facoltà di Lettere voluta dal suo predecessore Mario Enrico Viora. Nominato Rettore, ricoprì la carica fra il 1946 e il 1952 inaugurando il proprio mandato con la strenua battaglia condotta contro il governo alleato per garantire l’indipendenza dell’Università, tesi che lo portò a un passo dalla deposizione nell’aprile del 1947. Animato da sincero patriottismo, ribadì con forza questa sua posizione tanto nel corso della prolusione all’anno accademico 1948 – 1949 quanto nei simboli scelti per il nuovo sigillo dell’Ateneo. Commissionato a Tranquillo Marangoni, con la sua sintetica rappresentazione della Cattedrale di San Giusto e del Faro il logo intendeva infatti non solo omaggiare la città attraverso due dei suoi monumenti più significativi ma anche richiamare il ruolo di faro dell’italianità rivestito dall’Università stessa, compito emblematicamente sintetizzato nel motto “Ricorda e splendi” che completa il sigillo. Come nel caso del Ritratto del Rettore Prof. Manlio Udina, Sambo decide di “premiare” il pugnace atteggiamento di Cammarata in difesa dell’Ateneo raffigurandolo in abiti accademici, unico elemento decorativo di una composizione efficacemente essenziale. La posizione rigidamente frontale dell’effigiato così come il suo sguardo sfuggente parlano di un personaggio tanto combattivo quanto restio a celebrazioni, palesemente a disagio di fronte all’occhio del pittore che, dal canto suo, con una pennellata ampia e costruttiva cerca di coglierne soprattutto il lato umano. Nella composta fissità del dipinto l’unico movimento possibile è quello dell’ampio e candido bavero che, con la propria luminosità, attrae immediatamente l’attenzione dell’osservatore trovando dei corrispettivi di minore ampiezza nei punti luce di cui Sambo costella il volto del Rettore. Il carattere introspettivo dell’opera, amplificato dai toni violacei del fondo monocromo, dev’essere letto stilisticamente come un riflesso della persistente influenza del clima novecentista sulla maniera del pittore triestino che, negli ultimi anni della propria carriera, alterna le piacevolezze cromatiche e decorative degli esordi con più pacate e costruttive composizioni influenzate dal neocubismo.
200 244 - PublicationRitratto di Umberto Saba(1950)Levi, CarloAnche considerati disegni, incisioni e il clamoroso caso di Lucania ’61, opera che fu inviata a rappresentare la Basilicata alla Mostra delle Regioni allestita a Torino in occasione del centenario dell’Unità d’Italia e nella quale l’artista sistemò (tra la folla intenta ad ascoltare un discorso di Rocco Scotellaro) tanto sé stesso, quanto il poeta triestino, due sono i più noti ritratti di Umberto Saba realizzati da Carlo Levi: il riferimento corre alla tela conservata presso la Galleria Nazionale d’Arte moderna di Roma portata a termine attorno al 1950 e quella, di dimensioni leggermente maggiori, presentata a Trieste alla mostra del 1953. L’attenzione di Levi nei confronti di Saba va letta secondo due chiavi interpretative: da un lato c’è l’amicizia personale tra due artisti – sarebbe forse il caso di dire che l’amicizia fu a tre, contando anche Linuccia, la figlia di Umberto, cui Carlo è stato sentimentalmente legato: il carteggio tra Carlo e Linuccia è stato pubblicato nel 1994 per la cura di Sergio D’Amaro – incontratisi per la prima volta alla metà degli anni Venti, quando Saba aveva già dato alle stampe la prima edizione del Canzoniere, e di nuovo vicini a Firenze, nel 1943, quando entrambi trovarono riparo dalla persecuzione fascista presso Anna Maria Ichino. Dall’altro, l’incontro tra i due va letto nella più ampia prospettiva della ricerca di contatti nazionali, di un aggiornamento culturale dal respiro europeo di molta della migliore intellettualità giuliana insoddisfatta dagli orizzonti prospettati, a Trieste, dalla rotta politica e culturale dei liberalnazionali; tale vocazione è confermata dalla formazione fiorentina di molti giuliani a partire dai primi del Novecento e dalla stagione de “La Voce”, questione messa a fuoco, per esempio, nell’ambito della ben concertata mostra documentaria Intellettuali di frontiera. Triestini a Firenze (1900-1950) del 1983. Dentro questo discorso, che qui non è possibile approfondire, si spiegano anche le ragioni per le quali Levi, nel 1941, abbia lavorato al ritratto di Bobi Bazlen (opera per la quale si rimanda a Carlo Levi a Matera. 199 dipinti e una scultura, catalogo della mostra di Matera, a cura di Paolo Venturoli, Roma 2005, cat. 114, p. 226). Nel ritratto conservato presso il rettorato triestino, “uno dei più notevoli esempi di introspezione psicologica che Levi ci abbia dato” (Gioseffi, “Il Giornale di Trieste”, 22 dicembre 1953; la lettura psicologica è stata la più battuta, anche fuori della rassegna stampa dell’esposizione: lo attesta il fatto che, per ragioni perlopiù connesse col mito letterario della città di Edoardo Weiss messo a fuoco, per esempio, da Giorgio Voghera nel celebre volume Gli anni della psicanalisi, la tela sia stata esposta nel contesto della mostra del 2004 Arte e psicoanalisi nella Trieste del Novecento), la figura di Saba emerge su un paesaggio brullo, secco, spogliato di presenze umane, sotto un cielo livido. Fatta eccezione per le spoglie arcate di un viadotto, o un acquedotto riconoscibile al di sopra della spalla destra della figura del poeta, e di una costruzione visibile alla sinistra della sua testa, sono azzerati anche gli elementi architettonici. Un paesaggio che, come suggerisce anche Lucia Tranquilli sulle colonne del “Popolo nuovo” di Torino (6 dicembre 1953), si è indotti a credere carsico; un paesaggio, tuttavia, disumanato, seccato, i cui pochi edifici sono puliti da un filtro antistorico, tutto mentale; una triestinità portata fuori dal tempo, con una operazione che, per esempio, il poeta Virgilio Giotti, anch’egli, come Saba, tra i giuliani a Firenze (o, meglio e significativamente, a San Felice a Ema, lontano dai circuiti cittadini e dagli ambienti vociani), aveva imposto al proprio dialetto, al proprio linguaggio poetico. Lievemente china, dolente, la figura del poeta pare evitare di sostenere lo sguardo dello spettatore; sembra, piuttosto, suggerire rispondenze con un paesaggio diretta filiazione di uno stato d’animo di profonda prostrazione. Le stesse pieghe del camiciotto, nervose, segnate con vigore, espressionisticamente, così come quelle che solcano il collo gonfio paiono, assieme alla presa incerta, fiaccata, impressa sul bastone dalla mano sinistra di Saba, concretarne i pensieri angosciosi, tortuosi, gli affanni esistenziali. Non estranea alla concezione del dipinto deve essere stata la preoccupazione con la quale Levi, in quei mesi, si teneva a giorno circa le condizioni di salute del poeta, affetto da una depressione venuta aggravandosi tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta.
347 730 - PublicationNatura morta in blu(1952)Salietti, AlbertoLa raffinata e suggestiva opera di Salietti, nata quale ideale pendant della Natura morta coi frutti (già New York, Graphic Society collection), piacque molto anche al suo creatore tanto da chiederne la momentanea restituzione per un’esposizione a Livorno nell’aprile del 1954. Il dipinto però rimase al suo posto, secondo quanto stabilito dal regolamento dell’esposizione. Tuttavia, non senza una punta di sarcasmo, Salietti scriveva nella stessa lettera del 21 febbraio, probabilmente sapendo già la risposta che avrebbe avuto: “Da una rivista triestina vedo che anche da voi gli allori sono ormai sempre per quelli. Beati loro. E vendite nulla? Molti ossequi e cordialità”. Del resto, la sua posizione politica e il ruolo di primo piano ricoperto in Novecento, lo avevano ormai messo fuori gioco da qualsiasi premiazione di prestigio nel dopoguerra, eccezion fatta per i premi Marzotto ricevuti nel 1955 e 1957. Aveva però, precisamente in quel momento tra 1952-53, ritrovato un eccellente mestiere che si esprimeva al meglio proprio con le nature morte. Anche Natura morta in blu effettivamente non tradì questo stato di grazia e, il vaso blu in primo piano su fondo blu, si impone come immagine di altissimo raggiungimento tecnico e formale. Il dipinto fu realizzato a Chiavari, ormai dimora stabile di Salietti e venne valutato dallo stesso pittore con la ragguardevole cifra di duecentoventimila lire.
200 329 - PublicationLa nave(1952)Cadorin, Guido“Verrò senz’altro a Trieste il 5 dicembre” scriveva lapidario Guido Cadorin al Rettore Rodolfo Ambrosino; in effetti, per il grande pittore veneziano, Trieste rappresentava una seconda patria. Già a partire dal 1930 egli fu in città per realizzare i mosaici dell’abside della cattedrale di San Giusto oltre al fatto che nel 1944 soggiornò, esponendo alla Galleria Trieste e vedendo la figlia Ida innamorarsi di un promettente pittore, Anton Zoran Music. Perciò fu assolutamente naturale partecipare all’esposizione promossa dall’Università nel 1953. Presentò La nave, opera realizzata l’anno prima, che dava l’avvio alle ricerche degli anni Cinquanta imperniate sul tema marittimo con la cifra stilistica che aveva ormai raggiunto esiti di sospensione metafisica. Una trattazione fortemente materica e al contempo delicata, quella del Cadorin primi anni Cinquanta che lo porterà a vette poetiche e malinconiche sul tema, come Solitudine del 1957 (Basilea, collezione privata). L’imponente imbarcazione che sta alle spalle delle piccole barche in primo piano, che sembrano ritmare lo spazio con gli alberi collocati a distanze sorvegliate, sta sospesa in un raggiungimento di tono su tono che il maturo artista era capace di modulare in quel giro d’anni. È un Cadorin quasi didascalico, che insegna attraverso la propria pittura; non è un caso che in questi anni egli si concentri sull’insegnamento all’Accademia di Belle Arti di Venezia.
130 93 - PublicationCantiere(1952)Santomaso, GiuseppeCantiere figurava tra le opere esposte alla mostra Esposizione nazionale di pittura italiana contemporanea allestita nell’Aula Magna dell’ateneo alla fine del 1953 e risulterà vincitrice del primo premio-acquisto di 500.000 lire previsto dal bando della mostra. Nelle prime due votazioni la giuria, dopo aver individuato una terna di candidati composta da Afro, lo stesso Santomaso ed Emilio Vedova, non era riuscita a nominare i vincitori per la mancanza di una maggioranza qualificata. Si dovrà così applicare la clausola del regolamento che prevedeva il sorteggio tra la terna più votata, escludendo così Vedova dai premiati (la sua Crocifissione contemporanea sarà in seguito acquistata dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma) e assegnando a Santomaso il primo premio-acquisto: una scelta che solleverà anche polemiche, vista l’assoluta preponderanza delle opere astratte (o presunte tali nel caso di quella in esame) tra i premiati, così infatti si era espresso Giulio Cesare Ghiglione sulle colonne del “Il Secolo XIX” di Genova riportando le impressioni degli artisti esclusi: "nè vogliamo infirmare la scelta della giuria a favore di uno o dell’altro della stessa tendenza, ma troviamo eccessivo che ambedue i premi siano stati conferiti alla stessa corrente, la quale rappresenta circa un terzo degli espositori", (Polemiche su un premio, 15 dicembre 1953). Al di là delle polemiche, che peraltro non avevano trovato riscontri sulla stampa locale e nazionale, la motivazione formulata dalla giuria a proposito della tela del pittore veneziano poneva l’accento sull’origine picassiana della sua ricerca pittorica: "Santomaso si è infatti proposto di sviluppare la scomposizione cubista fino a permettere una più lucida e costruttiva determinazione dell’oggetto e dello spazio; una più assertiva definizione dei valori plastici e coloristici; una più stretta e impegnativa relazione tra soggetto e oggetto. In questa ricerca, che partecipa con un suo personalissimo accento dei più vivi movimenti dell’arte moderna europea, Cantiere rappresenta indubbiamente un risultato assai importante, soprattutto perché concilia un’aperta emozione paesistica con una rigorosa architettura formale". Veniva così perfettamente inquadrato il carattere della ricerca del veneziano, i cui confini verranno ancor meglio precisati due anni dopo da Giuseppe Marchiori: "Nell’atmosfera limpida dei cantieri, il contrasto con le forti strutture degli scafi e col disegno netto dei tralicci metallici è accentuato sul piano della logica formale, con risultati che fanno del processo astrattivo un modo d’intendere più profondamente la realtà poetica dell’immagine: Gli elementi grafici (scale, fili, corde, grù, antenne) si accordano con la luce del fondo e coi motivi dominanti della partitura coloristica (barche, caldaie, macchine, cilindri, camini). Sono composizioni di oggetti che vanno sempre più trasformandosi in simboli e segni. La luce del cantiere, albale o mattutina, non è poi tanto diversa da quella, primaverile, che accoglie i riflessi verdi dell’erba, e che penetra dalla campagna nelle rimesse dove stanno i carri, gli aratri, le segatrici. Il pittore è dentro tutte le cose vedute, che la memoria ripete e trasforma sullo schermo della fantasia. È una scelta molto più valida di una rappresentazione obbiettiva. E in queste liriche della campagna, in cui gli oggetti si compongono nella misura esatta di un ritmo e di una struttura, c’è l’impulso vitale, c’è la partecipazione dell’essere, che è qualche cosa di più di un omaggio araldico alla fatica e al lavoro" (G. Marchiori, Santomaso. Pitture e disegni 1952-1954, Venezia [1954], p. 11). Una sorta di visionaria etica del lavoro quindi, che in termini pittorici si componeva di una sostanziale ibridazione dei motivi di estrazione neocubista assimilati alla fine degli anni quaranta con elementi di origine surrealista: “in Piccolo cantiere, del ‘52, e in altri lavori coevi [tra i quali si può sicuramente inserire anche il Cantiere dell’ateneo triestino], Santomaso riesce ad incrociare la cultura surrealista e in particolare Mirò, maturando una volta per tutte il taglio di un linguaggio personalissimo: da questo momento in poi è ormai chiaro in quale senso Santomaso afferma di voler «essere nelle cose», nel tessuto della loro energia, e secondo quali parametri egli intenda congiungere la realtà esteriore del mondo con la memoria che se ne ricava: una memoria che abita nelle cose stesse o, meglio, nella visione che il pittore ce ne restituisce” (Cortenova 1990, pp. 20-21).
297 588 - PublicationPorto Verde(1952)Paulucci, EnricoIn occasione dell’Esposizione Nazionale di pittura italiana contemporanea di Trieste del ’53 è giunto nelle collezioni dell’Ateneo anche Porto Verde di Enrico Paulucci, un quadro di forte impatto visivo che si impone per le grandi dimensioni. È una tematica ricorrente, oggetto di riflessione dell’artista durante tutto l’arco degli anni Cinquanta, a partire dal 1951 con la mostra presso la Galleria La Bussola a Torino. La fitta gabbia delle alberature delle barche forma un elegante arabesco. Paulucci è alla ricerca di una composizione più solida e sintetica, memore di quello che è stato uno snodo significativo della sua formazione, Paul Cézanne oltre che del generazionale passaggio per la pittura di Picasso. L’intelaiatura grafica è immersa in un vivace colorismo, un’esplosione di tinte squillanti e chiassose che lo contraddistinguono, retaggio dei numerosi soggiorni parigini fin da giovanissimo. Si ricordano i suoi trascorsi nel Gruppo dei Sei di Torino che alla fine degli anni Venti, in pieno clima novecentista, sotto l’insegna dell’Olympia di Manet, reclamava libertà d’espressione e apertura alle correnti europee. Anche dopo lo smembramento del gruppo, Paulucci ha proseguito incessante il suo cammino e negli anni Cinquanta è approdato ad un linguaggio singolare dove si intrecciano la scomposizione cubista e la ricchezza cromatica dei Fauves ritornati in auge dopo la Retrospettiva della Biennale veneziana del 1950. È questo il caso del dipinto dell’università costruito secondo “schemi” da pittura europea internazionale che hanno fatto irruzione in Italia con la Biennale del 1948. Come ha lucidamente osservato Carlo Giulio Argan nella monografia dedicata all’artista, davanti alle difficili congiunture storiche, Paulucci non cerca i segni dell’angoscia esistenziale degli Espressionisti o del dramma di un Picasso ma prosegue il discorso di felicità iniziato da Matisse, Dufy e di Mirò. Una spensieratezza che non è superficialità o essere avulsi dal mondo circostante ma è una presa di distanza da interferenze ideologiche e una scelta coraggiosa di esprimere sempre e comunque il suo ottimismo e la sua capacità di meravigliarsi davanti alla bellezza della natura e del mondo che ci circonda (Giulio Carlo Argan, Paulucci, Torino, La Bussola, 1963, p. 114).
172 104 - PublicationPaesaggio(1953)Ziveri, AlbertoNella monografia firmata nel 1988 da Maurizio Fagiolo dell’Arco (Alberto Ziveri, consulenza di N. Vespignani, Milano, Fabbri) l’autore da un lato annuncia – promessa, a quanto risulta, disattesa – che il catalogo ragionato dell’opera di Ziveri “è in preparazione avanzata”, dall’altro apre ad alcune “linee” che tale catalogo avrebbero dovuto ispirare. Lo stesso Fagiolo individua in circa mille le opere dell’artista conservate in musei e collezioni private; segnala, tra questo migliaio di opere, almeno duecento paesaggi: paesaggi della terra d’origine della famiglia dell’artista, l’Emilia, e squarci di periferia capitolina, “fuor di porta” romani. Tra le opere pubblicate non c’è, tuttavia, il Paesaggio esposto a Trieste alla fine del 1953. Menzionate, invece, nella sezione “Esposizioni-bibliografia” curata da Francesca Romana Morelli (p. 235 della monografia citata) la presenza dell’artista all’“Esposizione e Corso di critica della Pittura italiana Contemporanea, Università di Trieste”, e la recensione di Ghiglione comparsa ne “Il Secolo XIX” l’8 di dicembre dello stesso anno, articolo peraltro più volte indicato nelle sequenze di riferimenti relativi alla fortuna critica dell’esposizione universitaria e raccolto nell’archivio storico dell’Ateneo nella cartella relativa alla rassegna stampa. Insomma, resta ancora da fare la storia dell’opera conservata a Trieste. Storia che andrebbe a completare l’intera questione del rapporto tra Ziveri ed il Friuli Venezia Giulia: di origine friulane – majanesi, precisamente – era la moglie dell’artista, Nelda Riva. A Majano, Ziveri trascorse molte delle sue estati e non poche, né trascurabili sono le sue opere che hanno per soggetto il paesaggio friulano. Proprio a Majano, a partire dagli anni Ottanta, sono state organizzate tre mostre dedicate all’artista: Ziveri. Omaggio a Majano, del 1985; Alberto Ziveri. Taccuini di viaggio, del 1990; conclude la sequenza, nel 1998, l’esposizione di alcune incisioni del maestro. Ziveri è un artista complesso, per il quale risulta arduo procedere a rigide periodizzazioni su base stilistica. Non a caso, Fagiolo ricorre al termine anagrafico di “Maturità” per la fase successiva al 1948, fase cui appartiene la tela conservata presso il Rettorato triestino. Fase nella quale, almeno fino agli anni Sessanta, quando la sua pittura perde in tensione, Ziveri alterna la materia ricca, i colori violenti, le tavolozze torbide, i temi da illustrazione popolare dei suoi postriboli o dei bui anfratti di borgata romana a visioni incantate, popolate da figure imbambolate, sospese, che più che a Donghi sembrano rimandare ad alcune visioni di Edward Hopper. Non mancano, inoltre, opere nelle quali evidenti sono le citazioni dalla storia della pittura italiana ed europea: decisivi, in questo senso, i viaggi dell’artista che, alla fine degli anni Trenta, ebbe modo di studiare i quadri dei più importanti artisti conservati presso i principali musei centro e nord europei, tra Tiziano a Rembrandt, Courbet e Rubens, Goya e Teniers. Molte maniere, insomma, per un artista che non si è mai piegato ai gusti dominanti e che rimane realista nella misura in cui – così ha scritto Argan – è stato capace di “interrogarsi sul non-senso del reale”, di sacrificare il proprio punto di vista al costo di farlo naufragare nell’esistente; di costruire, come suggerisce Romeo Lucchese, che nel 1952 ha firmato con Leonardo Sinisgalli una celebre monografia dell’artista, una “comunione umana sensuale e affettuosa” con il vero. Nel Paesaggio presentato a Trieste nel 1953 è evidente come i tratti più popolari, sanguigni che avevano accompagnato l’artista negli anni Trenta e Quaranta siano stati puliti sulla scorta di un colorismo dal respiro internazionale, di una pittura di paesaggio caratterizzante le avanguardie europee tra Otto e Novecento. Lezione che, in tutta probabilità, Ziveri aveva appreso nelle sale della prima Biennale veneziana del secondo dopoguerra dove aveva potuto vedere i quadri dei fauve, degli impressionisti e dei post-impressionisti. Firma dell’artista, l’innesto di piccole e, come suggerisce Fagiolo dell’Arco nella monografia menzionata in apertura, “saporose” figure umane che rivelano suggestioni dalla pittura fiamminga.
137 91 - PublicationRicordo d'infanzia(1953)Basaldella, AfroTra le opere esposte alla mostra Esposizione nazionale di pittura italiana contemporanea allestita nell’Aula Magna nel 1953 e confluite nelle collezioni dell’ateneo, quella di Afro è certamente quella che ha goduto di maggior visibilità, essendo stata presentata nel corso degli anni a numerose esposizioni in Italia e all’estero. In occasione della mostra triestina Ricordo d’infanzia aveva riportato il secondo premio solo in virtù di una sfortunata votazione che aveva invece premiato Giuseppe Santomaso. In quell’occasione la giuria aveva così motivato la sua scelta: “è una delle opere più concluse dell’artista, che ha saputo esprimere nella raffinata armonia dell’atmosfera colorata la trasposizione lirica di un ricordo o, meglio, di un ripensamento dell’infanzia veduta attraverso la prospettiva del sogno”, evidenziando quindi “lo spunto surrealista” risolto “tentando di risolvere l’antitesi tra la scrittura automatica e la controllata scelta degli elementi” compositivi. Pesava in quelle scelte il decisivo influsso della pittura di Arshile Gorky: “attraverso Gorky […] Afro può fare l’esperienza di un’intima coesione tra emozione ed espressione, sensazione e figurazione, nell’identità che si concreta nello stendere il colore sulla tela […] cogliendo così dal surrealismo non un repertorio di simboli, e neppure un pregiudiziale, assoluto automatismo, ma un modo più diretto di realizzarsi nella pittura” (Caramel 1992, p. 33). E sarà lo stesso Afro a precisare i termini di questa filiazione nella sua memorabile presentazione al catalogo della mostra allestita dall’artista di origine armena alla romana Galleria dell’Obelisco nel febbraio del 1957: “intrepido, emozionato, pieno d’amore Arshile Gorky mi ha insegnato a cercare la mia verità senza falsi pudori, senza ambizioni o remore formalistiche. Da esso ho appreso più che da qualunque altra, a cercare soltanto dentro di me: dove le immagini sono ancora radicate alle loro origini oscure, alla loro sincerità inconsapevole”. Una sincerità che Afro sembra in grado di poter precisare progressivamente nelle sue opere migliori del primo scorcio degli anni cinquanta: al 1951 risale un Giardino d’infanzia e data novembre 1952 un dipinto intitolato Ricordo d’infanzia oggi al Musée des Beaux-Arts di La Chaux-de-Fonds, e per composizione e scelte cromatiche possono essere associati all’opera in esame anche Figura I, Figura II e Il Sigillo rosso realizzati in quello stesso 1953 e oggi conservati in collezione privata a Roma (cfr. Afro. Catalogo Generale Ragionato dai documenti dell’Archivio Afro, Roma, Dataars, 1997, nn. 309-310), lavori che possono essere letti come un naturale corollario alle scelte compositive messe in atto in questa circostanza. Colpisce in queste tele, e soprattutto in quella triestina, la sensualità del colore e la ricchezza dei passaggi tonali, degni per certi aspetti del miglior Tiziano. Scriverà pochi anni dopo James Johnson Sweeney nella sua monografia sull’artista: “ma oltre l’intuizione di una visuale dell’uomo relativamente nuova e che stiamo imparando a conoscere, nella pittura di Afro attraggono soprattutto le qualità sensuali: colore, ritmo, rapporti di spazio, effetti di luce. Qui Afro attinge profondamente, è naturale, dalla sua eredità. In tutta la sua opera egli resta un artista tradizionale nel senso migliore della parola. Ma alla base della sua arte si rivela, sempre, una3 sensibilità sua: un istinto infallibile nel trattare i propri mezzi, capace di imprimere nei suoi quadri quelle dori di immediatezza, grazie e felicità per cui oggi Afro si identifica come il puro lirico della pittura contemporanea” (Afro, Roma, Edizioni d’Arte Moderna, 1961, p.11). Così scriveva Afro in una lettera a Umbro Apollonio scritta tra il gennaio e il febbraio di quello stesso 1953, quasi a voler spiegare la genesi di questi dipinti: “sebbene a molti i miei quadri sembrino delle divagazioni arbitrarie, io tendo sempre a dare alle mie immagini pittoriche la maggior efficacia espressiva, la più evidente. Queste immagini sono ancora un corrispondente poetico della realtà, di cui la memoria conserva la parte più essenziale, rifiutando tutto che [ciò] sia pratica ed esperienza. Una realtà decantata, direi liberata da legami razionali per cui delle cose vorrei arrivare alla figurazione più diretta e concisa – direi all’idea delle cose. Evidentemente una forma pittorica in me non nasce mai solamente come forma, né un colore si giustifica solo nel suo rapporto di valore e di spazio, ma ha bisogno di caricarsi di un significato espressivo, direi di sentimento, per cui una forma dovrà avere un determinato carattere e il colore quel particolare timbro e il segno quella immediata trepidazione che hai nell’urgenza di dire una cosa che ti viene da dentro quando non vai a cercare il modo più bello per esprimerti, ma sei unicamente preoccupato di esprimere il concetto” (cfr. Afro. Catalogo Generale Ragionato dai documenti dell’Archivio Afro, Roma, Dataars, 1997, p. 389)
317 313 - PublicationFigura in blu (Al caffè)(1953)Vagnetti, GianniCriticato per l’eccessiva prossimità del suo stile a quello di Casorati (Ghiglione 1953), Gianni Vagnetti accolse con entusiasmo l’invito del rettore Ambrosino a partecipare all’Esposizione Nazionale di pittura italiana contemporanea intessendo con lo stesso Ambrosino una fitta corrispondenza volta a precisare i dettagli della manifestazione e a fornire suggerimenti utili per il corso di critica d’arte organizzato a margine dell’evento (Lettera di Gianni Vagnetti al Rettore Ambrosino, Archivio dell’Università di Trieste, 4 agosto 1953; Lettera di Gianni Vagnetti al Rettore Ambrosino, Archivio dell’Università di Trieste, 29 settembre 1953; Lettera di Rodolfo Ambrosino a Gianni Vagnetti, Archivio dell’Università di Trieste, 30 settembre 1953; Lettera di Gianni Vagnetti al Rettore Ambrosino, Archivio dell’Università di Trieste, 12 ottobre 1953). Tali contatti proseguirono anche a mostra conclusa sia per le richieste dell’artista di ricevere gli articoli ad essa inerenti comparsi sulla stampa giuliana e nazionale, sia per reclamare la restituzione del dipinto (Lettera di Gianni Vagnetti al Rettore Ambrosino, Archivio dell’Università di Trieste, 28 dicembre 1953; Lettera di Gianni Vagnetti al Rettore Ambrosino, Archivio dell’Università di Trieste, 22 gennaio 1954). Preoccupato di non riavere l’opera in tempo per la sua partecipazione a nuova esposizione (Lettera di Gianni Vagnetti al Rettore Ambrosino, Archivio dell’Università di Trieste, 5 febbraio 1954), Vagnetti rischiò di far scoppiare un piccolo incidente diplomatico dovuto alla lentezza delle comunicazioni con il rettore ma che si risolse felicemente con la proposta di acquisto del dipinto da parte dell’Università per la cifra di centomila lire (Lettera di Rodolfo Ambrosino a Gianni Vagnetti, Archivio dell’Università di Trieste, 6 febbraio 1954). Soddisfatto alla notizia della visibilità che l’Esposizione aveva ricevuto sui quotidiani e periodici del tempo, l’artista accolse di buon grado la proposta di Ambrosino, felice di entrare nel novero dei pittori scelti per impreziosire gli ambienti dell’Ateneo giuliano (Lettera di Gianni Vagnetti al Rettore Ambrosino, Archivio dell’Università di Trieste, 12 febbraio 1954). Esposta alla retrospettiva che nel 1958 interessò le città di Firenze, Milano e Roma, l’opera rappresenta una spigolosa e assorta figura di donna seduta a un tavolino su cui sono posate, sopra una tovaglietta bianca, una caraffa e una tazzina. Il mento sostenuto dalle mani intrecciate, il gomito destro puntato sul ripiano del tavolo, la protagonista indossa una camicia blu e una gonna candida dalle balze geometriche che le permettono di spiccare con sicura evidenza dal fondo di difficile decifrazione. Lasciato parzialmente indistinto, questo è infatti in parte occupato da quella che potrebbe sembrare la parete di mattoni di un locale pubblico – come suggerisce il titolo dell’opera – o di un’abitazione di modeste condizioni. Se l’ambientazione della scena e il suo significato possono lasciare adito a interpretazioni (si può infatti trattare di una borghese seduta in un caffè cittadino per una semplice pausa dagli impegni quotidiani o di una donna pressata da un sentimento di solitudine e ansia esistenziale), ciò che invece balza sicuro agli occhi senza tema di smentite è il fatto che il dipinto possa essere assunto a modello della nuova fase che attraversa la pittura di Vagnetti negli anni Cinquanta. Come rileva Luigi Cavallo, autore di un’accurata biografia dell’artista, il pittore «rimettendo in discussione gli elementi strutturali e compositivi, riesamina la forma tenendo presente i suggerimenti plastici e i risultati stilistici del postcubismo» (Cavallo, 1975, p. 87) senza giungere a effetti di astrattismo ma approdando a una diversa e più complessa organizzazione spaziale. Non è solo il postcubismo, tuttavia, a caratterizzare questa stagione stilistica né a determinare in modo esclusivo l’opera in esame: se Figura in blu evoca immediatamente gli esordi di Picasso e la malinconica rassegnazione di cui erano ammantati i personaggi dei suoi primi lavori, la parte del titolo che recita Al caffè richiama i soggetti trattati dall’impressionismo ma qui svolti dando voce al senso di solitudine che Vagnetti sembra individuare come caratteristica tipica dell’essere femminile svolgendo questo tema in una serie di dipinti affini a quello in esame tra cui Figura in grigio e L’absinthe (Gianni Vagnetti. Opere dal 1921 al 1956, catalogo della mostra di Anghiari a cura di C. Marsan, Firenze, Arnaud Editore, 1958, pp. 74-75). Avviato al disegno dal padre Italo, a sua volta scultore, Gianni Vagnetti frequentò la Scuola Libera del Nudo di Firenze vincendo nel 1918 il concorso Stibbert con l’opera Dopo il bagno (acquistata dalla Galleria d’Arte Moderna di Lima). Inizialmente influenzato dallo stile postmacchiaiolo di Ciani e Spadini, si volge lentamente a una pittura di maggiore intimismo su cui pesa la frequentazione di Felice Carena (professore dell’Accademia fiorentina di Belle Arti dal 1924) e la vicinanza agli ideali di Novecento che nel 1927, proprio nello studio di Vagnetti, vede la nascita del suo ramo toscano. Fondatore assieme ad Andreotti, Romanelli, Maraini e Bacci del Sindacato Italiano di Belle Arti (1925), nel 1929 realizzò il ritratto dal vero di Mussolini destinato al Viminale ed esposto invece nella sala del direttorio del partito a Roma. Presente alle Biennali di Venezia, alle Quadriennali di Roma e alle principali mostre del Novecento in Italia e all’estero, a metà degli anni Trenta iniziò a dedicarsi alla scenografia diventando presto collaboratore del Maggio musicale. Docente di scenografia all’Accademia di Belle Arti di Firenze, si dedicò al cartellone pubblicitario, alla decorazione di ceramiche e a progetti di arredamento. Morì per emorragia cerebrale il 19 marzo 1956.Criticato per l’eccessiva prossimità del suo stile a quello di Casorati (Ghiglione 1953), Gianni Vagnetti accolse con entusiasmo l’invito del rettore Ambrosino a partecipare all’Esposizione Nazionale di pittura italiana contemporanea intessendo con lo stesso Ambrosino una fitta corrispondenza volta a precisare i dettagli della manifestazione e a fornire suggerimenti utili per il corso di critica d’arte organizzato a margine dell’evento (Lettera di Gianni Vagnetti al Rettore Ambrosino, Archivio dell’Università di Trieste, 4 agosto 1953; Lettera di Gianni Vagnetti al Rettore Ambrosino, Archivio dell’Università di Trieste, 29 settembre 1953; Lettera di Rodolfo Ambrosino a Gianni Vagnetti, Archivio dell’Università di Trieste, 30 settembre 1953; Lettera di Gianni Vagnetti al Rettore Ambrosino, Archivio dell’Università di Trieste, 12 ottobre 1953). Tali contatti proseguirono anche a mostra conclusa sia per le richieste dell’artista di ricevere gli articoli ad essa inerenti comparsi sulla stampa giuliana e nazionale, sia per reclamare la restituzione del dipinto (Lettera di Gianni Vagnetti al Rettore Ambrosino, Archivio dell’Università di Trieste, 28 dicembre 1953; Lettera di Gianni Vagnetti al Rettore Ambrosino, Archivio dell’Università di Trieste, 22 gennaio 1954). Preoccupato di non riavere l’opera in tempo per la sua partecipazione a nuova esposizione (Lettera di Gianni Vagnetti al Rettore Ambrosino, Archivio dell’Università di Trieste, 5 febbraio 1954), Vagnetti rischiò di far scoppiare un piccolo incidente diplomatico dovuto alla lentezza delle comunicazioni con il rettore ma che si risolse felicemente con la proposta di acquisto del dipinto da parte dell’Università per la cifra di centomila lire (Lettera di Rodolfo Ambrosino a Gianni Vagnetti, Archivio dell’Università di Trieste, 6 febbraio 1954). Soddisfatto alla notizia della visibilità che l’Esposizione aveva ricevuto sui quotidiani e periodici del tempo, l’artista accolse di buon grado la proposta di Ambrosino, felice di entrare nel novero dei pittori scelti per impreziosire gli ambienti dell’Ateneo giuliano (Lettera di Gianni Vagnetti al Rettore Ambrosino, Archivio dell’Università di Trieste, 12 febbraio 1954). Esposta alla retrospettiva che nel 1958 interessò le città di Firenze, Milano e Roma, l’opera rappresenta una spigolosa e assorta figura di donna seduta a un tavolino su cui sono posate, sopra una tovaglietta bianca, una caraffa e una tazzina. Il mento sostenuto dalle mani intrecciate, il gomito destro puntato sul ripiano del tavolo, la protagonista indossa una camicia blu e una gonna candida dalle balze geometriche che le permettono di spiccare con sicura evidenza dal fondo di difficile decifrazione. Lasciato parzialmente indistinto, questo è infatti in parte occupato da quella che potrebbe sembrare la parete di mattoni di un locale pubblico – come suggerisce il titolo dell’opera – o di un’abitazione di modeste condizioni. Se l’ambientazione della scena e il suo significato possono lasciare adito a interpretazioni (si può infatti trattare di una borghese seduta in un caffè cittadino per una semplice pausa dagli impegni quotidiani o di una donna pressata da un sentimento di solitudine e ansia esistenziale), ciò che invece balza sicuro agli occhi senza tema di smentite è il fatto che il dipinto possa essere assunto a modello della nuova fase che attraversa la pittura di Vagnetti negli anni Cinquanta. Come rileva Luigi Cavallo, autore di un’accurata biografia dell’artista, il pittore «rimettendo in discussione gli elementi strutturali e compositivi, riesamina la forma tenendo presente i suggerimenti plastici e i risultati stilistici del postcubismo» (Cavallo, 1975, p. 87) senza giungere a effetti di astrattismo ma approdando a una diversa e più complessa organizzazione spaziale. Non è solo il postcubismo, tuttavia, a caratterizzare questa stagione stilistica né a determinare in modo esclusivo l’opera in esame: se Figura in blu evoca immediatamente gli esordi di Picasso e la malinconica rassegnazione di cui erano ammantati i personaggi dei suoi primi lavori, la parte del titolo che recita Al caffè richiama i soggetti trattati dall’impressionismo ma qui svolti dando voce al senso di solitudine che Vagnetti sembra individuare come caratteristica tipica dell’essere femminile svolgendo questo tema in una serie di dipinti affini a quello in esame tra cui Figura in grigio e L’absinthe (Gianni Vagnetti. Opere dal 1921 al 1956, catalogo della mostra di Anghiari a cura di C. Marsan, Firenze, Arnaud Editore, 1958, pp. 74-75). Avviato al disegno dal padre Italo, a sua volta scultore, Gianni Vagnetti frequentò la Scuola Libera del Nudo di Firenze vincendo nel 1918 il concorso Stibbert con l’opera Dopo il bagno (acquistata dalla Galleria d’Arte Moderna di Lima). Inizialmente influenzato dallo stile postmacchiaiolo di Ciani e Spadini, si volge lentamente a una pittura di maggiore intimismo su cui pesa la frequentazione di Felice Carena (professore dell’Accademia fiorentina di Belle Arti dal 1924) e la vicinanza agli ideali di Novecento che nel 1927, proprio nello studio di Vagnetti, vede la nascita del suo ramo toscano. Fondatore assieme ad Andreotti, Romanelli, Maraini e Bacci del Sindacato Italiano di Belle Arti (1925), nel 1929 realizzò il ritratto dal vero di Mussolini destinato al Viminale ed esposto invece nella sala del direttorio del partito a Roma. Presente alle Biennali di Venezia, alle Quadriennali di Roma e alle principali mostre del Novecento in Italia e all’estero, a metà degli anni Trenta iniziò a dedicarsi alla scenografia diventando presto collaboratore del Maggio musicale. Docente di scenografia all’Accademia di Belle Arti di Firenze, si dedicò al cartellone pubblicitario, alla decorazione di ceramiche e a progetti di arredamento. Morì per emorragia cerebrale il 19 marzo 1956.
208 166 - PublicationCase del Paradiso(1953)Rosai, OttaneTracce del passaggio della tela Case del paradiso di Ottone Rosai a Trieste in occasione della Mostra del 1953 si trovano nel denso volume che raccoglie la corrispondenza dell’artista (Lettere 1914-1957, a cura di Vittoria Corti, Prato 1974; tale passaggio, invece, non è menzionato in cataloghi e monografie sull’arte di Rosai, compreso il recente Cinquanta dipinti di Ottone Rosai a 50 anni dalla scomparsa, a cura di Luigi Cavallo, Firenze 2008). In una missiva indirizzata a Perseo Rosai e datata 6 ottobre 1953 (nell’epistolario citato più sopra, n. 685, pp. 627-628), Ottone scrive: “proprio in questi giorni sto mettendo insieme i quadri per la mostra a Trieste”; aggiunge che, a causa di non specificati “impegni” che non gli consentivano di assentarsi da Firenze “neanche per un giorno”, “non potrò esserci presente”. Conferma della mancata partecipazione dell’artista è l’assenza del suo nome nell’elenco degli artisti “che scendono dall’albergo Jolly” (Università di Trieste, Archivio storico). Dei legami tra Rosai e la città di Trieste è testimonianza anche un’altra lettera, di poco precedente (22 agosto 1952, n. 681, pp. 624-625), inviata alla moglie Francesca. Nel documento è fatta menzione di un viaggio della stessa Francesca nella Venezia Giulia, in visita ai parenti del ramo della famiglia Rosai riconducibile al già citato Perseo, il fratello più giovane di Ottone, uno dei ragazzi del ’99 inviati a combattere sul confine orientale del Regno d’Italia. Al termine della prima guerra mondiale Perseo si era trasferito definitivamente a Trieste, e a Trieste ancora vivono i suoi figli Maria Daria e Nevio, i parenti più prossimi dell’artista. È proprio Maria Daria detta Mariuccia (a lei ed alla sua famiglia vanno i più sentiti ringraziamenti per la disponibilità dimostrata) a dare conferma del fatto che Ottone non sia giunto a Trieste in occasione della mostra universitaria; a Trieste, invece, l’artista si era sicuramente recato qualche settimana prima, in concomitanza con l’esposizione di alcune sue opere presso la Galleria Casanuova, mostra la cui inaugurazione ha avuto luogo il 31 ottobre. Nel corso del primo e del secondo decennio del secolo, nella sua Firenze, Ottone studia disegno ed architettura all’Istituto di Arti decorative di piazza Santa Croce e all’Accademia di Belle Arti; in tali contesti, a causa di un temperamento poco incline alle regole della vita scolastica, l’artista colleziona più espulsioni che successi. L’amicizia con Ardengo Soffici – l’uomo che su “La Voce” fece da apripista, in Italia, ai maestri dell’impressionismo francese ed ai cubisti – fa conoscere a Rosai le poetiche delle avanguardie del Novecento; i contatti con Marinetti, Carrà, Palazzeschi, Boccioni imprimono alla sua arte una virata di segno futurista che contraddistingue, ancorché non in profondità, soprattutto la sua produzione del secondo decennio del Novecento. È negli anni Venti che l’artista matura la propria poetica. La stagione del ritorno all’ordine, lo studio dei maestri del Quattrocento fiorentino, Masaccio su tutti, mediati dall’assimilazione dell’arte di Cézanne – in Toscana più precoce e profonda che altrove – sono declinati in senso popolare, vernacolo, connotati dall’attenzione costante per una Firenze “minore”, popolare, ribobolesca, che spiega il legame profondo dell’artista con gli uomini e le battaglie di Strapaese, l’amicizia ed il lungo sodalizio con Mino Maccari. L’ultimo Rosai, quello degli anni Quaranta e Cinquanta, se da un lato (eccezion fatta per la retrospettiva alla Biennale del 1952 e, nel 1953, per una personale alla Strozzina curata da Ragghianti, cui si deve molto del merito della riscoperta della pittura italiana del terzo e quarto decennio del secolo, Strapaese incluso) ha sofferto dell’oblio calato su molta dell’arte italiana del Ventennio, arte che il clima resistenziale ha presto e spesso etichettato come fascista, dall’altro presenta caratteri di specificità e rivela un artista ormai maturo, capace di equilibrare, risolvere pittoricamente il dramma dei lavori degli anni precedenti: anche l’opera conservata presso il Rettorato triestino, che non è datata ma che Luigi Carluccio indica come “recentissima” (Una iniziativa senza precedenti. Pittori all’Università di Trieste, “Gazzetta del Popolo”, 6 dicembre 1953) e che in tutta probabilità si sostanzia di uno dei frequenti scorci di via San Leonardo in cui l’artista aveva il proprio studio, mostra un Rosai che riduce la propria pittura all’essenziale, ai pochi elementi “casa” – “muro” – “cipresso”, in una sorta di declinazione paesaggistica della concentrazione, della tensione morale delle nature morte morandiane. Una pittura, insomma, quella dell’ultimo Rosai, che nel 1971 Bilenchi non ha sbagliato a definire “chiarificata”, “pacificata”; pittura nella quale – si tenga a mente proprio gli scorci in cui, come nell’opera presentata alla mostra triestina del 1953, le stradine non presentano sbocchi, le facciate delle case sono mute – Ragghianti ha letto acutamente un “senso della limitazione, dell’insufficienza, dell’irraggiungibile” (i brani critici citati sono tratti dal repertorio di testi inseriti in Omaggio a Ottone Rosai (1895-1957). Oli e disegni, catalogo della mostra tenuta presso la Galleria La Casa dell’Arte di Sasso Marconi tra il maggio ed il giugno del 1980).Tracce del passaggio della tela Case del paradiso di Ottone Rosai a Trieste in occasione della Mostra del 1953 si trovano nel denso volume che raccoglie la corrispondenza dell’artista (Lettere 1914-1957, a cura di Vittoria Corti, Prato 1974; tale passaggio, invece, non è menzionato in cataloghi e monografie sull’arte di Rosai, compreso il recente Cinquanta dipinti di Ottone Rosai a 50 anni dalla scomparsa, a cura di Luigi Cavallo, Firenze 2008). In una missiva indirizzata a Perseo Rosai e datata 6 ottobre 1953 (nell’epistolario citato più sopra, n. 685, pp. 627-628), Ottone scrive: “proprio in questi giorni sto mettendo insieme i quadri per la mostra a Trieste”; aggiunge che, a causa di non specificati “impegni” che non gli consentivano di assentarsi da Firenze “neanche per un giorno”, “non potrò esserci presente”. Conferma della mancata partecipazione dell’artista è l’assenza del suo nome nell’elenco degli artisti “che scendono dall’albergo Jolly” (Università di Trieste, Archivio storico). Dei legami tra Rosai e la città di Trieste è testimonianza anche un’altra lettera, di poco precedente (22 agosto 1952, n. 681, pp. 624-625), inviata alla moglie Francesca. Nel documento è fatta menzione di un viaggio della stessa Francesca nella Venezia Giulia, in visita ai parenti del ramo della famiglia Rosai riconducibile al già citato Perseo, il fratello più giovane di Ottone, uno dei ragazzi del ’99 inviati a combattere sul confine orientale del Regno d’Italia. Al termine della prima guerra mondiale Perseo si era trasferito definitivamente a Trieste, e a Trieste ancora vivono i suoi figli Maria Daria e Nevio, i parenti più prossimi dell’artista. È proprio Maria Daria detta Mariuccia (a lei ed alla sua famiglia vanno i più sentiti ringraziamenti per la disponibilità dimostrata) a dare conferma del fatto che Ottone non sia giunto a Trieste in occasione della mostra universitaria; a Trieste, invece, l’artista si era sicuramente recato qualche settimana prima, in concomitanza con l’esposizione di alcune sue opere presso la Galleria Casanuova, mostra la cui inaugurazione ha avuto luogo il 31 ottobre. Nel corso del primo e del secondo decennio del secolo, nella sua Firenze, Ottone studia disegno ed architettura all’Istituto di Arti decorative di piazza Santa Croce e all’Accademia di Belle Arti; in tali contesti, a causa di un temperamento poco incline alle regole della vita scolastica, l’artista colleziona più espulsioni che successi. L’amicizia con Ardengo Soffici – l’uomo che su “La Voce” fece da apripista, in Italia, ai maestri dell’impressionismo francese ed ai cubisti – fa conoscere a Rosai le poetiche delle avanguardie del Novecento; i contatti con Marinetti, Carrà, Palazzeschi, Boccioni imprimono alla sua arte una virata di segno futurista che contraddistingue, ancorché non in profondità, soprattutto la sua produzione del secondo decennio del Novecento. È negli anni Venti che l’artista matura la propria poetica. La stagione del ritorno all’ordine, lo studio dei maestri del Quattrocento fiorentino, Masaccio su tutti, mediati dall’assimilazione dell’arte di Cézanne – in Toscana più precoce e profonda che altrove – sono declinati in senso popolare, vernacolo, connotati dall’attenzione costante per una Firenze “minore”, popolare, ribobolesca, che spiega il legame profondo dell’artista con gli uomini e le battaglie di Strapaese, l’amicizia ed il lungo sodalizio con Mino Maccari. L’ultimo Rosai, quello degli anni Quaranta e Cinquanta, se da un lato (eccezion fatta per la retrospettiva alla Biennale del 1952 e, nel 1953, per una personale alla Strozzina curata da Ragghianti, cui si deve molto del merito della riscoperta della pittura italiana del terzo e quarto decennio del secolo, Strapaese incluso) ha sofferto dell’oblio calato su molta dell’arte italiana del Ventennio, arte che il clima resistenziale ha presto e spesso etichettato come fascista, dall’altro presenta caratteri di specificità e rivela un artista ormai maturo, capace di equilibrare, risolvere pittoricamente il dramma dei lavori degli anni precedenti: anche l’opera conservata presso il Rettorato triestino, che non è datata ma che Luigi Carluccio indica come “recentissima” (Una iniziativa senza precedenti. Pittori all’Università di Trieste, “Gazzetta del Popolo”, 6 dicembre 1953) e che in tutta probabilità si sostanzia di uno dei frequenti scorci di via San Leonardo in cui l’artista aveva il proprio studio, mostra un Rosai che riduce la propria pittura all’essenziale, ai pochi elementi “casa” – “muro” – “cipresso”, in una sorta di declinazione paesaggistica della concentrazione, della tensione morale delle nature morte morandiane. Una pittura, insomma, quella dell’ultimo Rosai, che nel 1971 Bilenchi non ha sbagliato a definire “chiarificata”, “pacificata”; pittura nella quale – si tenga a mente proprio gli scorci in cui, come nell’opera presentata alla mostra triestina del 1953, le stradine non presentano sbocchi, le facciate delle case sono mute – Ragghianti ha letto acutamente un “senso della limitazione, dell’insufficienza, dell’irraggiungibile” (i brani critici citati sono tratti dal repertorio di testi inseriti in Omaggio a Ottone Rosai (1895-1957). Oli e disegni, catalogo della mostra tenuta presso la Galleria La Casa dell’Arte di Sasso Marconi tra il maggio ed il giugno del 1980).Tracce del passaggio della tela Case del paradiso di Ottone Rosai a Trieste in occasione della Mostra del 1953 si trovano nel denso volume che raccoglie la corrispondenza dell’artista (Lettere 1914-1957, a cura di Vittoria Corti, Prato 1974; tale passaggio, invece, non è menzionato in cataloghi e monografie sull’arte di Rosai, compreso il recente Cinquanta dipinti di Ottone Rosai a 50 anni dalla scomparsa, a cura di Luigi Cavallo, Firenze 2008). In una missiva indirizzata a Perseo Rosai e datata 6 ottobre 1953 (nell’epistolario citato più sopra, n. 685, pp. 627-628), Ottone scrive: “proprio in questi giorni sto mettendo insieme i quadri per la mostra a Trieste”; aggiunge che, a causa di non specificati “impegni” che non gli consentivano di assentarsi da Firenze “neanche per un giorno”, “non potrò esserci presente”. Conferma della mancata partecipazione dell’artista è l’assenza del suo nome nell’elenco degli artisti “che scendono dall’albergo Jolly” (Università di Trieste, Archivio storico). Dei legami tra Rosai e la città di Trieste è testimonianza anche un’altra lettera, di poco precedente (22 agosto 1952, n. 681, pp. 624-625), inviata alla moglie Francesca. Nel documento è fatta menzione di un viaggio della stessa Francesca nella Venezia Giulia, in visita ai parenti del ramo della famiglia Rosai riconducibile al già citato Perseo, il fratello più giovane di Ottone, uno dei ragazzi del ’99 inviati a combattere sul confine orientale del Regno d’Italia. Al termine della prima guerra mondiale Perseo si era trasferito definitivamente a Trieste, e a Trieste ancora vivono i suoi figli Maria Daria e Nevio, i parenti più prossimi dell’artista. È proprio Maria Daria detta Mariuccia (a lei ed alla sua famiglia vanno i più sentiti ringraziamenti per la disponibilità dimostrata) a dare conferma del fatto che Ottone non sia giunto a Trieste in occasione della mostra universitaria; a Trieste, invece, l’artista si era sicuramente recato qualche settimana prima, in concomitanza con l’esposizione di alcune sue opere presso la Galleria Casanuova, mostra la cui inaugurazione ha avuto luogo il 31 ottobre. Nel corso del primo e del secondo decennio del secolo, nella sua Firenze, Ottone studia disegno ed architettura all’Istituto di Arti decorative di piazza Santa Croce e all’Accademia di Belle Arti; in tali contesti, a causa di un temperamento poco incline alle regole della vita scolastica, l’artista colleziona più espulsioni che successi. L’amicizia con Ardengo Soffici – l’uomo che su “La Voce” fece da apripista, in Italia, ai maestri dell’impressionismo francese ed ai cubisti – fa conoscere a Rosai le poetiche delle avanguardie del Novecento; i contatti con Marinetti, Carrà, Palazzeschi, Boccioni imprimono alla sua arte una virata di segno futurista che contraddistingue, ancorché non in profondità, soprattutto la sua produzione del secondo decennio del Novecento. È negli anni Venti che l’artista matura la propria poetica. La stagione del ritorno all’ordine, lo studio dei maestri del Quattrocento fiorentino, Masaccio su tutti, mediati dall’assimilazione dell’arte di Cézanne – in Toscana più precoce e profonda che altrove – sono declinati in senso popolare, vernacolo, connotati dall’attenzione costante per una Firenze “minore”, popolare, ribobolesca, che spiega il legame profondo dell’artista con gli uomini e le battaglie di Strapaese, l’amicizia ed il lungo sodalizio con Mino Maccari. L’ultimo Rosai, quello degli anni Quaranta e Cinquanta, se da un lato (eccezion fatta per la retrospettiva alla Biennale del 1952 e, nel 1953, per una personale alla Strozzina curata da Ragghianti, cui si deve molto del merito della riscoperta della pittura italiana del terzo e quarto decennio del secolo, Strapaese incluso) ha sofferto dell’oblio calato su molta dell’arte italiana del Ventennio, arte che il clima resistenziale ha presto e spesso etichettato come fascista, dall’altro presenta caratteri di specificità e rivela un artista ormai maturo, capace di equilibrare, risolvere pittoricamente il dramma dei lavori degli anni precedenti: anche l’opera conservata presso il Rettorato triestino, che non è datata ma che Luigi Carluccio indica come “recentissima” (Una iniziativa senza precedenti. Pittori all’Università di Trieste, “Gazzetta del Popolo”, 6 dicembre 1953) e che in tutta probabilità si sostanzia di uno dei frequenti scorci di via San Leonardo in cui l’artista aveva il proprio studio, mostra un Rosai che riduce la propria pittura all’essenziale, ai pochi elementi “casa” – “muro” – “cipresso”, in una sorta di declinazione paesaggistica della concentrazione, della tensione morale delle nature morte morandiane. Una pittura, insomma, quella dell’ultimo Rosai, che nel 1971 Bilenchi non ha sbagliato a definire “chiarificata”, “pacificata”; pittura nella quale – si tenga a mente proprio gli scorci in cui, come nell’opera presentata alla mostra triestina del 1953, le stradine non presentano sbocchi, le facciate delle case sono mute – Ragghianti ha letto acutamente un “senso della limitazione, dell’insufficienza, dell’irraggiungibile” (i brani critici citati sono tratti dal repertorio di testi inseriti in Omaggio a Ottone Rosai (1895-1957). Oli e disegni, catalogo della mostra tenuta presso la Galleria La Casa dell’Arte di Sasso Marconi tra il maggio ed il giugno del 1980).Tracce del passaggio della tela Case del paradiso di Ottone Rosai a Trieste in occasione della Mostra del 1953 si trovano nel denso volume che raccoglie la corrispondenza dell’artista (Lettere 1914-1957, a cura di Vittoria Corti, Prato 1974; tale passaggio, invece, non è menzionato in cataloghi e monografie sull’arte di Rosai, compreso il recente Cinquanta ipinti di Ottone Rosai a 50 anni dalla scomparsa, a cura di Luigi Cavallo, Firenze 2008). In una missiva indirizzata a Perseo Rosai e datata 6 ottobre 1953 (nell’epistolario citato più sopra, n. 685, pp. 627-628), Ottone scrive: “proprio in questi giorni sto mettendo insieme i quadri per la mostra a Trieste”; aggiunge che, a causa di non specificati “impegni” che non gli consentivano di assentarsi da Firenze “neanche per un giorno”, “non potrò esserci presente”. Conferma della mancata partecipazione dell’artista è l’assenza del suo nome nell’elenco degli artisti “che scendono dall’albergo Jolly” (Università di Trieste, Archivio storico). Dei legami tra Rosai e la città di Trieste è testimonianza anche un’altra lettera, di poco precedente (22 agosto 1952, n. 681, pp. 624-625), inviata alla moglie Francesca. Nel documento è fatta menzione di un viaggio della stessa Francesca nella Venezia Giulia, in visita ai parenti del ramo della famiglia Rosai riconducibile al già citato Perseo, il fratello più giovane di Ottone, uno dei ragazzi del ’99 inviati a combattere sul confine orientale del Regno d’Italia. Al termine della prima guerra mondiale Perseo si era trasferito definitivamente a Trieste, e a Trieste ancora vivono i suoi figli Maria Daria e Nevio, i parenti più prossimi dell’artista. È proprio Maria Daria detta Mariuccia (a lei ed alla sua famiglia vanno i più sentiti ringraziamenti per la disponibilità dimostrata) a dare conferma del fatto che Ottone non sia giunto a Trieste in occasione della mostra universitaria; a Trieste, invece, l’artista si era sicuramente recato qualche settimana prima, in concomitanza con l’esposizione di alcune sue opere presso la Galleria Casanuova, mostra la cui inaugurazione ha avuto luogo il 31 ottobre. Nel corso del primo e del secondo decennio del secolo, nella sua Firenze, Ottone studia disegno ed architettura all’Istituto di Arti decorative di piazza Santa Croce e all’Accademia di Belle Arti; in tali contesti, a causa di un temperamento poco incline alle regole della vita scolastica, l’artista colleziona più espulsioni che successi. L’amicizia con Ardengo Soffici – l’uomo che su “La Voce” fece da apripista, in Italia, ai maestri dell’impressionismo francese ed ai cubisti – fa conoscere a Rosai le poetiche delle avanguardie del Novecento; i contatti con Marinetti, Carrà, Palazzeschi, Boccioni imprimono alla sua arte una virata di segno futurista che contraddistingue, ancorché non in profondità, soprattutto la sua produzione del secondo decennio del Novecento. È negli anni Venti che l’artista matura la propria poetica. La stagione del ritorno all’ordine, lo studio dei maestri del Quattrocento fiorentino, Masaccio su tutti, mediati dall’assimilazione dell’arte di Cézanne – in Toscana più precoce e profonda che altrove – sono declinati in senso popolare, vernacolo, connotati dall’attenzione costante per una Firenze “minore”, popolare, ribobolesca, che spiega il legame profondo dell’artista con gli uomini e le battaglie di Strapaese, l’amicizia ed il lungo sodalizio con Mino Maccari. L’ultimo Rosai, quello degli anni Quaranta e Cinquanta, se da un lato (eccezion fatta per la retrospettiva alla Biennale del 1952 e, nel 1953, per una personale alla Strozzina curata da Ragghianti, cui si deve molto del merito della riscoperta della pittura italiana del terzo e quarto decennio del secolo, Strapaese incluso) ha sofferto dell’oblio calato su molta dell’arte italiana del Ventennio, arte che il clima resistenziale ha presto e spesso etichettato come fascista, dall’altro presenta caratteri di specificità e rivela un artista ormai maturo, capace di equilibrare, risolvere pittoricamente il dramma dei lavori degli anni precedenti: anche l’opera conservata presso il Rettorato triestino, che non è datata ma che Luigi Carluccio indica come “recentissima” (Una iniziativa senza precedenti. Pittori all’Università di Trieste, “Gazzetta del Popolo”, 6 dicembre 1953) e che in tutta probabilità si sostanzia di uno dei frequenti scorci di via San Leonardo in cui l’artista aveva il proprio studio, mostra un Rosai che riduce la propria pittura all’essenziale, ai pochi elementi “casa” – “muro” – “cipresso”, in una sorta di declinazione paesaggistica della concentrazione, della tensione morale delle nature morte morandiane. Una pittura, insomma, quella dell’ultimo Rosai, che nel 1971 Bilenchi non ha sbagliato a definire “chiarificata”, “pacificata”; pittura nella quale – si tenga a mente proprio gli scorci in cui, come nell’opera presentata alla mostra triestina del 1953, le stradine non presentano sbocchi, le facciate delle case sono mute – Ragghianti ha letto acutamente un “senso della limitazione, dell’insufficienza, dell’irraggiungibile” (i brani critici citati sono tratti dal repertorio di testi inseriti in Omaggio a Ottone Rosai (1895-1957). Oli e disegni, catalogo della mostra tenuta presso la Galleria La Casa dell’Arte di Sasso Marconi tra il maggio ed il giugno del 1980).
299 418 - PublicationL'arco di Giano(1953)Trombadori, FrancescoPer ricostruire il contesto pittorico, ma anche culturale nel quale si colloca L’arco di Giano conservato presso il Rettorato dell’Ateneo triestino, occorre mettere a fuoco l’opera di Francesco Trombadori nel secondo dopoguerra. Operazione possibile avendo a mente almeno i due cataloghi delle esposizioni romane I paesaggi del silenzio 1945-1961 (Roma 1999) e Paesaggi di Roma (Roma 1979). In quest’ultimo è riprodotto un altro Arco di Giano, di dimensioni analoghe, individuato in collezione privata romana, opera che si può riconoscere nella tela transitata per la Biennale di Venezia del 1954, a pochi mesi dalla mostra triestina del dicembre 1953. Indicazione importante, stante l’abitudine dell’artista di firmare, ma non datare le proprie opere. La pittura di Trombadori compresa tra gli estremi della fine del secondo conflitto mondiale e la morte, avvenuta nel 1961, presenta un carattere di sensibile omogeneità: formati piccoli e medi, l’insistenza su paesaggi e vedute, quasi tutti di Roma; la scomparsa pressoché totale della figura umana e della natura morta dai campi di interesse dell’artista. Nei testi del catalogo Paesaggi di Roma firmati da Giuliano Briganti, Muzio Mazzocchi Alemanni e Roberto Passi, le visioni – lezione che, in senso tutto dechirichiano, Valerio Rivosecchi preferisce a “vedute” – di Trombadori sono ricondotte all’etichetta di Nuova Oggettività in Italia: di certo, e teniamo per buona la suggestione offerta da Duccio Trombadori (I paesaggi del silenzio, op. cit.), che ragiona sulla produzione coeva dell’artista, anche la tela conservata presso il Rettorato triestino è quel che si può definire una “perla ritardataria”. Tale produzione ha subito il torto di essere messa in parentesi in una Roma che, tra i Quaranta e i Cinquanta, è stata impegnata nelle diatribe tra figurativi ed astrattisti, tra formalisti e contenutisti, tra pittori tenacemente aggrappati ai richiami della provincia ed altri che cominciavano a curiosare in quel che succedeva nelle gallerie d’Oltreoceano. Una pittura, quella di Trombadori, che si è tenuta lontana dagli scontri ideologici, dall’attualità storica; che ha le proprie fondamenta nel ritorno al mestiere degli anni Dieci e Venti, una significativa matrice letteraria, specificamente rondista. Un pittore per pittori, insomma, Trombadori, le cui opere sono ricche di riferimenti stilistici, di cultura visiva fatta d’arte moderna e contemporanea anche francese, tra Corot (è di Alfredo Mezio, nelle pagine del catalogo della personale dell’artista inaugurata alla Galleria del Vantaggio nel 1958, la celeberrima definizione di Trombadori quale “Corot lunaire”) e Cézanne. Visioni urbane costruite con pazienza, molto spesso riportate su tela da fotografie (fotografie su cui ha potuto mettere mano chi ha lavorato sull’archivio dell’artista, il cui studio aveva sede in villa Strohl-Fern), fotografie sulle quali Trombadori ha operato quadrettature, linee, reticoli, ha misurato spazi, distanze per il riporto da foto a quadro. Nell’Arco di Giano conservato presso il Rettorato triestino appare ancora una volta una Roma incantata che, con le parole con le quali ha messo a fuoco l’ultima produzione dell’artista (nel numero 169 di “Paragone”, gennaio 1964), Roberto Longhi avrebbe definito “desertica, d’alto meriggio”. Reminiscenze dechirichiane, metafisiche, innanzi tutto, specie nell’edificio che – come una quinta teatrale – chiude la composizione, a sinistra; edifici dalle facciate cieche, sulla destra, che trasmettono tutto il peso di una incomunicabilità, di un silenzio fatto pietra. Spazi puliti, organizzati con grande compostezza fino a trasmettere un’idea di freddezza; una freddezza che è pulizia formale, che trasporta gli edifici fuori dal tempo e dalla storia. L’Arco di Giano, ma non solo: alle sue spalle, in parte nascosta, è riconoscibile, per esempio, la Chiesa di San Giorgo al Velabro, col suo portico ed il campanile romanico. Per concludere. Chi proverà a fare chiarezza sul rapporto tra Trombadori e Trieste dovrà – ce lo segnalano Fagiolo e Rivosecchi in Trombadori, Roma 1986 – tenere conto anche degli scritti figurativi dell’artista: due di questi, per esempio, sono comparsi nel “Piccolo della Sera” il 21 gennaio ed il 16 aprile del 1927.
139 110 - PublicationOmaggio a Garcia Lorca(1953)Perizi, NinoIl dipinto Omaggio a Garcia Lorca fu presentato alla Biennale Triveneta di Padova e poi premiato, nella sezione riservata agli artisti giuliani, alla Mostra Nazionale dell’Università con la seguente motivazione della giuria: «È stato prescelto, fra i quadri esposti dai pittori originari della Venezia Giulia, dagli espositori delle altre regioni d’Italia». Venne successivamente acquisito dall’ateneo triestino, scegliendolo fra le opere presentate appunto alla mostra del 1953. Il dipinto è una sagace commistione dell’iniziale “realismo”, risalente ai primi anni Quaranta, e le sperimentazioni cubiste. Decio Gioseffi, che si occupò della mostra in veste di segretario, nel “Giornale di Trieste” tentò di inquadrare le diverse opere classificandole in tre categorie: i tradizionalisti, gli astrattisti e un gruppo più eterogeneo, espressionista in senso lato («ogni forma d’espressione che parta dal dato naturale, forzandolo in modo da accentuarne, di volta in volta, gli elementi che l’artista ha giudicato più significativi»). In questa categoria fu inserito il dipinto di Perizi: «d’impianto largamente scenografico [Perizi] organizza in un solido ordine architettonico i temi umani della notte, del bivacco, del guado con una disposizione sentimentale che non è fuori luogo chiamare epica» (cit. in 1953: L’Italia era già qui, cit. p. 71 e p. 155). Nino Perizi dimostrò sempre un’astuta capacità eclettica. Fu un attento osservatore dell’arte di Renato Birolli e delle sperimentazioni di “Corrente” e “Fronte nuovo delle arti”. Nelle opere che vanno dal 1945 e in quelle dei primi anni Cinquanta derivò il colore e i contorni marcati da Guttuso e dalla pittura Fauve e dal Primitivismo l’aspetto semplificato delle forme. Nel 1954 si avvicinò prevalentemente al cubismo di Picasso, soprattutto alla sua geometrizzazione grafica: «È stato l’alfiere del movimento per la pittura moderna a Trieste. Tende ad una compenetrazione dei temi umani figurativi ed una ritmica lineare “festonata” di lontana origine cubista» (D. Gioseffi – da una nota datata 1953 – in L’Italia era già qui, cit. p. 146). Progressivamente Perizzi essenzializzò l’ossatura dell’immagine, la superficie pittorica venne così suddivisa in zone piatte sulle quali insisteva l’incrocio di linee ortogonali, diagonali e curve. Omaggio a Garcia Lorca è una sintesi personale di queste esperienze formali e il dipinto che traspare in filigrana è Pesca notturna ad Antibes di Pablo Picasso (1939).
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