Scienze dell'antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche
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- PublicationSALGARI DAL GIORNALE AL LIBRO. SVILUPPO DELLE STRATEGIE NARRATIVE SALGARIANE (1883-1903).(2007-05-24T09:10:17Z)
;Visioli, IvanGuagnini, ElvioSALGARI DAL GIORNALE AL LIBRO. SVILUPPO DELLE STRATEGIE NARRATIVE SALGARIANE (1883-1903) Emilio Salgari nasce, come scrittore, sulle appendici dei giornali. Nel 1883 uscì sulle pagine della “Nuova Arena” di Verona, il romanzo Tay-See, seguito a breve distanza da La tigre della Malesia (1883) e La favorita del Mahdi (1883/84), sempre sullo stesso quotidiano. Gli strangolatori del Gange uscirà, invece, a Livorno sul “Telefono” nel 1887, e La Vergine della pagoda d’Oriente nel 1891/92 sulla “Gazzetta di Treviso”. Mentre su un settimanale, il “Novelliere Illustrato” di Torino farà la sua comparsa, nel 1896, Vita Eccentrica. Si tratta di testi rimasti per lungo tempo praticamente sconosciuti e che solo negli ultimi anni sono stati riproposti all’attenzione dei lettori e degli studiosi, apportando un notevole contributo agli ancora giovani studi su Salgari. Tutti questi romanzi usciti in appendice sono stati, più tardi, editi in volume, spesso con un titolo diverso e hanno, in varia misura, subito dei rimaneggiamenti. Nel 1887 viene pubblicato il volume della Favorita del Mahdi, nel 1895 I misteri della Jungla Nera (Gli strangolatori del Gange), nel 1896 I pirati della Malesia (La Vergine della pagoda d’oriente), nel 1897 La rosa del Dong-Giang (Tay-See), nel 1900 Le tigri di Mompracem (La tigre della Malesia) e nel 1911 I Predoni del Gran Deserto (Vita Eccentrica). Il testo delle appendici della Favorita, così come quello di Vita Eccentrica, non è, purtroppo ancora disponibile in un’edizione filologicamente accurata, ma per fortuna mi è stato possibile reperire i testi originali presso le biblioteche di Verona, Torino e Chieri. In realtà, questi sei romanzi non esauriscono il panorama delle appendici salgariane, infatti anche altri romanzi dell’autore veronese uscirono sulle pagine di vari periodici; tuttavia, in tutti gli altri casi la pubblicazione in volume segue di pochi mesi quella sul giornale o è addirittura contemporanea ad essa. Questi sei romanzi vengono quindi a costituire un corpus a sé stante, in quanto furono gli unici a essere stati inizialmente scritti solo per la pubblicazione sul giornale. In ben cinque casi su sei, infatti, le appendici risultano costituire dei testi sostanzialmente diversi da quelli che compaiono nei volumi. Nella mia tesi di dottorato, mi sono quindi proposto di esaminare il passaggio tra le appendici e i volumi analizzando le relative modificazioni. Questo lavoro viene così a costituire una visione d’insieme completa, che finora mancava, su Salgari romanziere d’appendice, in quanto raccoglie le analisi di tutti e sei i romanzi, mentre finora, anche l’opera di Fioraso la più completa in questo senso, non comprendeva Vita Eccentrica – I Predoni del Gran Deserto tra i testi esaminati. È stato, anzi, di particolare interesse il recupero e lo studio di questo testo ancora inedito e molto poco studiato fino ad ora. Il romanzo fu concepito da Salgari – caso più unico che raro per questo autore - quale seconda parte del racconto Vita eccentrica di Vincenzina Ghirardi Fabiani, apparso sullo stesso settimanale l’anno precedente, il che mi ha consentito di analizzare la strategia narrativa usata dall’autore per creare una narrazione con personaggi già caratterizzati in precedenza da altri. Nei primi sei capitoli ho voluto analizzare ognuno dei sei testi, mettendo a confronto la versione in appendice con quella in volume, a parte il caso di Vita Eccentrica dove, essendo tali differenze trascurabili, ho condotto un confronto fra il testo di Salgari e quello della Fabiani. Per ciascun romanzo ho tentato di mettere in luce le peculiarità, e le parti che mi parevano più interessanti; ho inoltre riportato le opinioni espresse dagli altri critici che se ne sono occupati, evidenziando i punti in cui le mie personali osservazioni mi portavano a mettere in discussione tali posizioni. In particolare, mi sono confrontato con le opinioni espresse negli scritti di Giuseppe Zaccaria e Roberto Fioraso. I due studiosi salgariani, pur con diverse sfumature, sono sostanzialmente convinti che ci sia stata una considerevole diminuzione degli elementi “scabrosi” e violenti, nel passaggio dalle appendici ai volumi. Tale fenomeno, cui danno il nome di attenuazione, sarebbe stato indotto dal pubblico infantile cui erano destinati i volumi, secondo Zaccaria, o dalla volontà di adeguarsi a canoni più “borghesi”, secondo Fioraso. In altre parole si afferma che l’autore abbia operato delle “censure” alla propria scrittura. Questa visione porta, come logica conseguenza, a una sostanziale svalutazione dei volumi, ritenuti meno autentici rispetto alle appendici, e afferma inoltre che, ad eccezione di una piccola parte della produzione giovanile, la grande maggioranza delle opere di Salgari sarebbe stata scritta per un pubblico infantile. L’esame dei testi mi ha, però, portato a confutare radicalmente questa teoria, ho quindi utilizzato un capitolo per esporre le conclusioni cui sono arrivato sulla narrativa salgariana e sul pubblico a cui essa era rivolta, mettendo in rilievo le parzialità e le incongruenze che mi hanno portato e respingere altri tipi di interpretazioni. In un altro capitolo, ho invece raccolto le osservazioni che ho avuto modo di fare a proposito del particolare punto di vista usato da Salgari nelle sue narrazioni, che a volte sembra avvicinarsi più a quello di uno spettatore che a quello di un narratore onnisciente. Ritenendo che le ragioni di questa caratteristica peculiare di Salgari fossero da ricercarsi nel rapporto particolarmente stretto che l’autore veronese ha intrattenuto con il mondo del teatro, ho quindi cercato di ricostruire una panoramica di tale rapporto in base ai non moltissimi documenti attualmente in nostro possesso. In due brevi capitoli finali, ho poi voluto condurre una ricognizione sulle fonti utilizzate da Salgari per attingervi le notizie che inseriva nei suoi lavori, e su alcuni testi salgariani che non mi è stato possibile reperire, pur avendo trovato cospicui indizi a conferma della loro esistenza. Spero che questo mio studio possa portare un piccolo contributo alla ricerca e al dibattito critico attorno a uno scrittore, che si è appena cominciato a studiare con gli strumenti e la serietà che sicuramente merita.2317 9122 - PublicationSPESSORI, CODICI, INTERFACCE. ARCHITETTURE DELLA STRADA(Università degli studi di Trieste, 2007-05-29T08:24:03Z)
;VENUDO, ADRIANO ;CORBELLINI, GIOVANNIAYMONINO, ALDOParkway, strip, viadotto e autostrada sono alcune delle tipologie stradali generate, dal secolo scorso a oggi, direttamente dall’automobile e in cui, per ragioni di sicurezza e comfort, è prevista la totale separazione tra flussi e forme di abitabilità dello spazio, tra l’automobilista e il pedone: per normativa, tutti i possibili utenti non motorizzati e qualsiasi pratica che non contempli il movimento veloce ne vengono infatti escluse. Questa dinamica interessa anche le maglie frammentate della città diffusa contemporanea, in cui l’automobile rappresenta l’interfaccia necessaria per poter vivere un “territorio allargato”, dove la strada è anche motore di quella particolare urbanità che, sempre a una certa distanza, si estende lungo le reti e che potremmo definire come effetto urbano. Un tempo la gente stava sulle strade1, i pedoni al centro e carri, cavalli e altri mezzi ai lati, il dominio dell’automobile ha invertito questo rapporto, confinando, nella migliore delle ipotesi, ai bordi queste attività e utenti. Le strade delle le automobili si sono così trasformate in uno dei più grossi problemi per il funzionamento delle città, non solo per la presenza invasiva del “fenomeno infrastrutturale”, ma anche e soprattutto perché esse rappresentano sempre più un limite invalicabile per tutte le altre pratiche urbane; la strada è diventato un sistema chiuso, che a sua volta genera discontinuità e forti vincoli per gli utenti non meccanizzati. Va aggiunto che l’influenza di un’autostrada, ad esempio, non si limita allo spazio dei sedimi carrabili, ma porta con se un perimetro molto più ampio determinato dalle fasce di rispetto o pertinenza, attraverso imponenti manufatti di sostegno, nel caso di viadotti e altri rilevati, e con altrettanto importanti dispositivi di separazione e chiusura sia tecnica - gli spartitraffico - che sensoriale, barriere acustiche o visive. Se consideriamo poi le autostrade urbane, che attraversano densi tessuti residenziali, tali effetti non possono che aumentare. Questi grandi tubi per il traffico, che passano ovunque, secondo i principi della via più breve, della velocità di progetto degli standard di sicurezza, si configurano come delle vere e proprie eterotopie, dei mondi paralleli, organizzati da regole proprie che frequentemente non integrano alcuna relazione con i contesti attraversati. Di fronte alla “necessità tecnica” espressa da queste enclave del movimento, l’unico atteggiamento possibile sembra essere la subordinazione, la città cresce sotto, sopra, di fianco e negli interstizi, l’architettura piega i propri codici alle esigenze del manufatto viabilistico. Una condizione che può anche essere sfruttata vantaggiosamente: si pensi al museo Guggenheim a Bilbao e a come si “adegua” al viadotto soprastante. Il famoso intervento di Frank O. Gehry rimane però un esempio raro e isolato, l’ordinario si consuma tra barriere antirumore, guard-rail, isole spartitraffico, muri di separazione, piloni e intradossi di viadotti, elementi tanto banali quanto invasivi, i cui caratteri sono determinati dai costi, dalla normativa e dai regolamenti per la sicurezza. Elementi permanenti e “duri”, che chiudono l’orizzonte, che impediscono il passaggio, o che costringono i flussi lenti della città a traiettorie arzigogolate, lungo passerelle aeree o sottopassi, in un regime di separazione, che attraverso dispositivi e manufatti tecnici garantisce distanza tra le diverse velocità, generando contemporaneamente un largo “consumo di spazio” e di risorse. Se questo è l’atteggiamento più diffuso, esiste tuttavia un’ampia serie di esperienze progettuali e di teorie che hanno sperimentato forme di riavvicinamento ai canali di traffico, in aderenza ai flussi, proponendo forme di condivisione dello spazio-strada, di promiscuità d’uso, di ibridazione tra i manufatti tecnici e gli spazi dell’abita- Introduzione re, di integrazione dei sedimi automobilistici con gli spazi per il pedone, facendo del binomio velocità/frizioni una vera e propria strategia del progetto stradale. Tali esperienze dimostrano che le strade delle grandi reti che attraversano i contesti naturali e urbani possono smettere di essere esclusivamente concepite come canali che smistano i flussi secondo la sola logica dell’efficienza idraulica. Dimostrano che anche le strade delle automobili, in cui la velocità determina distanze, forme e usi, possono diventare spazi in cui vivere e soprattutto in cui stare. Questa ricerca è orientata, attraverso la messa in campo di tre livelli di lettura (spessori, codici e interfacce) a individuare le forme, le misure, le caratteristiche e le strategie del possibile avvicinamento e commistione dei flussi verso usi multipli delle infrastrutture di comunicazione, specialmente di quelle veloci. Questi tre livelli corrispondono anche a delle grandezze fisiche, dimensioni e dispositivi della strada, ed in particolare lo spessore è inteso come profondità, o spazio di emanazione connesso allo spazio-strada (sotto, sopra, affianco e tra), e non sempre usato dalle automobili; i codici sono intesi come le relazioni che legano le tre dimensioni principali della strada (sezione, tracciato e bordo); l’interfaccia è infine considerata come l’insieme degli spazi-soglia che dividono e connettono il sistema strada con gli altri sistemi locali. L’intenzione è di superare il dibattito attualmente polarizzato tra due posizioni inconciliabili: la prima legata a una idea di strada intesa come fattore di sviluppo a tutti i costi, incurante delle ragioni del territorio, la seconda espressa da chi vede ogni sviluppo infrastrutturale come una minaccia intollerabile all’ambiente. Si è quindi deciso di ripartire dalla questione primaria, vale a dire quella legata allo spazio, laddove il campo privilegiato di osservazione è quello del canale di traffico e la possibilità di trasformarlo in spaziostrada, ovvero in supporto dotato di un proprio specifico spessore disponibile alle molteplici funzioni associabili al movimento. In particolare, la prima parte sviluppa una riflessione sulle forme dello spessore a partire dall’ambiguità dei due principali paradigmi dello spazio-strada, ovvero quello della strada come macroarchitettura e dell’edificio come organismo complesso che integra anche la strada, e quello dello spazio-strada “in bilico” tra luogo e collegamento. Si è quindi cercato di individuarne l’origine attraverso l’osservazione di prototipi, di progetti instauratori, messi a confronto con le proposte delle avanguardie, le utopie, le visioni e le teorie degli architetti poi assunte come nucleo tematico da cui partire per una interpretazione del significato plurale della strada, da spazio aperto,inteso come superficie, a quello di manufatto, inteso come volume. Questa parte è divisa in tre sezioni, di cui la prima ha come obiettivo la costruzione di un lessico, la seconda la messa a fuoco del rapporto tra infrastruttura e architettura attraverso le “prime architetture della strada” e la terza la sistematizzazione dei materiali iconografici e d’archivio di due casi studio, rispettivamente sulle possibilità di “urbanizzazione” delle autostrade italiane (Autilia di Giò Ponti) e sulla capacità della strada di diventare edificio complesso, macroarchitettura alla scala della città (Coliseum Center di Monaco e Luccichenti). La diffusione del mezzo motorizzato ha avuto un ruolo fondamentale non solo nella trasformazione dei modi di abitare il territorio, ma soprattutto riguardo agli effetti morfologici e funzionali sulle strade, divenute in diverse esperienze (raccolte e sistematizzate all’interno di questa ricerca) la ragione insediativa di architetture e sistemi urbani. La seconda e più ampia parte di questa ricerca si occupa dei codici dello spazio-strada, intesi come regole e misure dello spessore. Si ritiene che gran parte del conflitto strada veloce/spazio abitabile nasca da una cultura progettuale e da una pratica diffusa impostate su un equivoco dimensionale, per cui il sistema di misure che garantisce sicurezza e comfort è inutilmente ipertrofico. Gli esempi selezionati mostrano come questi fattori possano essere comunque soddisfati con misure e geometrie ridotte, che permettono però di modellare lo spazio-strada anche per altri utenti. Sono questi i punti di partenza dell’indagine, che tenta di mettere poi a fuoco le regole compositive e di elaborare strumenti e strategie con cui affrontare il progetto stradale alla scala locale (spazio-strada) in relazione con quella territoriale, dal cordolo alla rete, attraverso tre dimensioni fondamentali ricavate dallo studio di un’ampia casistica di esperienze contemporanee: 1. la dimensione trasversale, che trova una diretta traduzione nella sezione come strumento di articolazione del piano (progetto di suolo) e di controllo della tridimensionalità della strada (volume della strada); 2. la dimensione longitudinale, espressa nel tracciato come strumento di organizzazione dei flussi in relazione alla velocità e ai materiali dei contesti attraversati (progetto di paesaggio e progetto urbano), e come disegno delle forme di prossimità tra diversi mezzi, utenti e velocità (strategia della collocazione); 3. la dimensione relazionale, esplicitata nelle forme e misure del bordo, come luogo privilegiato del rapporto di scambio con il contesto (aperto/chiuso, continuo/discontinuo, ecc…) e come plusvalore dello spazio-strada, in quanto spazio soglia a disposizione, “luogo in attesa di…”. Chiude la trattazione il capitolo dedicato alle interfacce della strada, ovvero l’insieme di dispositivi pensati con il preciso scopo di mediare il rapporto tra automobili e altri utenti, tra strada e contesto, tra diverse velocità. L’attenzione si è focalizzata sulle superfici orizzontali e verticali, oltre che sulle possibilità di ispessimento, trasfigurazione e accoglimento di usi complementari, per arrivare ai casi più estremi di applicazione delle tecnologie wireless, con le conseguenti ipotesi di decomposizione dello spazio-strada avanzata dagli esempi riportati. Queste tre sezioni, oltre a individuare altrettante attitudini della strada a generare una propria specifica architettura (traffic architecture2), corrispondono anche a tre livelli di complessità del tema infrastrutturale e della sua capacità di diventare altro o di accogliere altri usi. L’intenzione è sempre di evitare l’equivoco della specializzazione, ovvero di considerare la strada materiale urbano di dominio esclusivo delle automobili. In questo senso, il recupero delle ricerche e dei progetti di Lawrence Halprin assume il ruolo di modello diretto all’integrazione tra manufatti viabilistici e architetture, verso la sperimentazione di edifici-strada ibridi e di forme di condivisione dello spazio infrastrutturale tra diverse velocità e categorie di utenti. Negli stessi anni, le proposte di Giò Ponti configurano assetti dei tracciati e dei nodi autostradali come possibili sistemi insediativi delle strade veloci. Queste ipotesi sono il risultato di un periodo storico particolarmente fertile per l’infrastruttura, che fa riferimento alla situazione generale determinata dal boom economico, dalla costruzione dei grandi itinerari di attraversamento e dalla parallela diffusione dell’automobile come mezzo di massa. Dall’America all’Europa, con un nucleo particolarmente prolifico in Italia, la speranza verso la capacità della strada di generare il “mondo nuovo” guida ricerche e sperimentazioni sull’infrastruttura come supporto in grado di accogliere qualsiasi cosa,dotato di una propria autonomia e di un proprio statuto spaziale. È la stagione dei grandi concorsi di architettura per quartieri popolari, università, centri direzionali, in cui la strada disegna le regole compositive di architetture che guardano al territorio, di macro-edifici impostati sulle corsie di traffico, di spazi la cui composizione è determinata dal fattore velocità. Poche di queste visioni hanno trovato una diretta realizzazione, ma l’importanza di queste idee depositate al suolo arriva fino ad oggi. Dopo la crisi petrolifera mondiale degli anni settanta e il conseguente spostamento generale dell’attenzione disciplinare verso altri temi (ad esempio il progetto urbano e lo spazio aperto negli anni ottanta) è emerso un nuovo atteggiamento, un misto tra pragmatismo e neo-utopia. Alcuni grandi eventi degli anni novanta, soprattutto europei come i programmi nazionali olandesi di espansione residenziale, i Datar o i Vinex, hanno contribuito a generare una nuova sensibilità per il tema infrastrutturale e in particolare per quello del progetto stradale, non più come prezzo da pagare ma come strumento di trasformazione del territorio. A partire da alcuni progetti, primo fra tutti il Moll de la Fusta di Manuel de Solà Morales a Barcellona, la strada non è più vista come “consumo di spazio” e di risorse, ma come occasione di riassetto per la città e il paesaggio. In particolare, l’ampia azione di riqualificazione urbana in Spagna, iniziata negli anni novanta parte proprio dalla concezione del progetto stradale come progetto urbano e di spazio pubblico. In Francia, sempre nelle stesso periodo, la Direction des Routse, attraverso programmi nazionali promossi dal governo, avvia un processo di riqualificazione delle autostrade esistenti e di costruzione di nuovi corridoi di attraversamento con l’obiettivo di “ristrutturare” il paesaggio del sud della Francia. Analogamente in Olanda i piani Vinex e altri interventi effettuati sulla base dei documenti nazionali di pianificazione (Architectuur Nota) (come il recente Making Space, Sharing Space) hanno visto nel progetto stradale l’occasione di correzione per politiche rivelatesi fallimentari, nel loro promuovere la “dispersione” e la frammentazione del paesaggio della randstad. Il progetto della strada diventa in questo caso progetto di densità e di concentrazione. Le esperienze soprattutto spagnole, francesi e olandesi degli ultimi quindici anni, pur largamente legate alle sperimentazioni precedenti, assumono un carattere di particolare interesse, soprattutto per la capacità di trasformare le utopie di un tempo in strategie tanto paradossali quanto pragmatiche. Una serie di proposte operative che, unendo gli aspetti tecnici a una visione integrata dell’infrastruttura, del paesaggio e dell’architettura, costituiscono un orizzonte di ricerca nuovo e necessario.2215 7945 - PublicationSistema informativo territoriale storico-urbanistico di forum IULII (CIVIDALE DEL FRIULI)(Università degli studi di Trieste, 2008-03-03)
;Gonizzi Barsanti, SaraMorselli, ChiaraL’idea di questo lavoro nasce dalla volontà di applicare la tecnologia GIS al campo dell’archeologia, da qualche anno a questa parte sempre più propensa ad usare strumenti informatici. Ormai la ricerca archeologica non è più solo studio erudito e piacere della conoscenza, essa si scontra spesso con la realtà delle nostre città dove, se si effettua uno scavo, non è raro imbattersi in strutture antiche importanti tanto da necessitare di una documentazione corretta e il più completa possibile, da realizzare però senza penalizzare o compromettere le funzioni quotidiane della città stessa e senza far aumentare i costi di realizzazione e gestione degli scavi. Non è facile conciliare le necessità della tutela esercitata dagli organi periferici del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, cioè le Soprintendenze, i cui compiti consistono nel tutelare e conservare i resti archeologici, con quelle delle istituzioni pubbliche che devono amministrare e gestire la vita cittadina, ritenute spesso e per molti versi in contrapposizione. Per questa ragione si è voluto proporre uno progetto di lavoro che potesse far fronte ad entrambe le necessità, che potesse essere uno strumento al contempo di analisi, e di archiviazione e gestione dei dati relativi alle evidenze archeologiche, utile anche e soprattutto per individuare le aree a maggior rischio archeologico in modo tale da permettere una sinergia tra tutti gli Enti preposti alla gestione delle aree urbane e del territorio in senso lato. La creazione della carta archeologica della città in GIS, utilizzando il software ArcGIS, ha avuto come area di interesse il centro storico della città di Cividale del Friuli ed ha usato come base di lavoro la carta archeologica della città, redatta nel dicembre del 2003 per la tesi di laurea in archeologia classica presso l’Università La Sapienza di Roma e integrata con i dati degli scavi effettuati nel lasso di tempo intercorso tra il 2002 ed il 2007. L’impostazione del GIS ha ripercorso la metodologia di studio seguita per la tesi, secondo un posizionamento delle evidenze in base a riferimenti topografici e puntuali, a seconda del tipo di informazioni scaturite dalla ricerca bibliografica. Questo procedimento è stato ulteriormente completato ed affinato con il posizionamento di precisione di alcune aree archeologiche sulla Carta Tecnica Regionale Numerica in scala 1:5000 mediante l’utilizzo di rilievi strumentali con stazione totale che hanno sfruttato una rete topografica realizzata dalla Soprintendenza ai Beni Archeologici del Friuli Venezia Giulia e che usa una serie di vertici topografici, materializzati con chiodi, distribuiti su gran parte del tessuto urbano, le coordinate dei quali sono state restituite mediante strumentazione GPS. Passaggio successivo al posizionamento dei resti archeologici è stato quello della ricostruzione ipotetica dell’urbanistica della città antica, con la graficizzazione dell’antico tessuto viario della città romana sulla base dei dati archeologici e cartografici d’archivio. Per completare l’analisi dello sviluppo urbano della città in epoca immediatamente successiva a quella romana (V – X sec d.C.) sono stati inseriti all’interno dello stesso sistema cartografico di archivio anche tutti i dati archeologici pertinenti a questo arco cronologico. L’analisi dello sviluppo urbano relativa ad un arco cronologico così ampio ha permesso di puntualizzare e determinare i cambiamenti del tessuto cittadino avvenuti tra la tarda antichità e il primo medioevo, cambiamenti che si possono apprezzare attraverso le interrogazioni del database e della cartografia applicata e visibili a tutt’oggi nel moderno impianto urbano. Alla carta archeologica in GIS è stato collegato un database contenente tutte le informazioni necessarie per la conoscenza e lo studio dei resti archeologici. L’idea iniziale era di creare un geodatabase in ArcCatalog in quanto sembrava lo strumento migliore essendo direttamente collegato alle entità geografiche rappresentate. Un primo problema è incorso nel momento dell’impostazione del geodatabase in quanto esso richiede per ogni Feature Class una sola entità, punto, linea o poligono. Per uno scavo archeologico questo è limitante poiché si possono trovare tutte e tre le rappresentazioni e quindi si dovrebbero creare tre Feature Class invece che una. Inoltre uno scavo archeologico può presentare una larga varietà di informazioni (mosaici, muri, tombe, frammenti ceramici) che possono riferirsi a periodi storici e a fasi del reperto archeologico diversi. L’articolazione dei dati ha fatto prevalere l’idea che sarebbe stato più agevole creare un database in Access che permette la contemporaneità di più informazioni relative ad una stessa tabella. Un secondo problema legato al database è la possibilità di implementare le informazioni e di interrogare i dati: si deve tenere in mente che la carta archeologica sarà uno strumento di valore divulgativo e che quindi dovrà essere usata da non addetti ai lavori; il database creato in Access possiede tutti i requisiti necessari, sia per l’organizzazione che per l’implementazione dei dati. In secondo luogo è stato impostato un lavoro relativo alla creazione di un modello tridimensionale del terreno della città di Cividale del Friuli con la rappresentazione dell’attuale morfologia del territorio su cui insiste l’area urbana della città, con l’intento di ricostruire dove possibile e sempre in 3 dimensioni, sulla base delle quote dei piani antichi individuati durante le indagini archeologiche (piani pavimentali, livelli stradali, quote di calpestio), la morfologia antica riferita a specifici periodi cronologici. In questo modo, con la creazione della carta di rischio archeologico, si possono fornire indicazioni non solo sul posizionamento dei siti all’interno della città, ma anche a quale quota sono stati trovati e a quale quota si potrebbero trovare eventuali nuove scoperte. A questo punto è sorto un problema relativo al miglior software da utilizzare per le ricostruzioni, se ArcGis o Cad in quanto lo spazio in cui ci si muove è ridotto essendo il centro cittadino molto piccolo. Alla fine, dopo molte prove, la soluzione migliore, che permette un maggiore visibilità delle variazioni altimetriche tra piano di calpestio attuale e ipotetico piano antico, è stata la creazione di un reticolo di sezioni che coprisse l’intera superficie della città in cui sono localizzati elementi archeologici quotati. Sono state create infine alcune carte di rischio sulla base dei posizionamenti e delle quote dei resti archeologici per individuare le aree propriamente archeologiche, quelle in cui la concentrazione di resti antichi è maggiore, le aree a loro prossime, che presentano un rischio elevato e, via via che ci si discosta dalle aree archeologiche, le aree con vari gradi di rischio, fino a quello basso. La carta di rischio e di tutela è uno strumento fondamentale per l’Amministrazione pubblica, che può disporre di elementi fondamentali per il posizionamento, in pianta ed in altimetria, dei resti archeologici e può quindi organizzare facilmente i lavori dei piani regolatori, e per la collaborazione tra il Comune e la Soprintendenza per tutelare i resti archeologici senza nuocere ala vita cittadina di tutti i giorni. Come ulteriore sviluppo del lavoro cartografico e di archivio è stato creato un sito multimediale dedicato al Museo Archeologico Nazionale ospitato nei locali del Palazzo dei Provveditori in piazza Duomo a Cividale del Friuli all’interno del quale sono esposti numerosi oggetti di diversa natura rinvenuti nella zona del centro storico della città e nel territorio limitrofo. Il sito è stato progettato con la finalità di fornire al visitatore del Museo una guida multimediale sugli oggetti esposti e, attraverso questa, la possibilità di collegare gli stessi al luogo di rinvenimento fornendo contestualmente delle informazioni topografiche ed archeologiche oltre che storico – artistiche proprie della descrizione dell’oggetto esposto. Questo progetto di ricerca ha avuto come obiettivo la creazione di un GIS dedicato a Cividale del Friuli ed al suo territorio, alla sua storia e al suo patrimonio storico – artistico ed archeologico; il GIS così creato rappresenta uno strumento utile non solo per la ricerca, l’archiviazione e lo studio dei dati archeologici in senso lato, ma è anche un importante mezzo attraverso il quale poter conoscere in tempo reale e puntuale la sovrapposizione tra la città moderna e “le città” antiche e progettarne la loro convivenza; è proprio grazie ai programmi informatici e alla loro interazione che la carta archeologica ed il database ad essa collegato possono diventare strumenti utili per l’archiviazione, lo studio, l’analisi dei dati in tempo reale e la progettazione.4354 2471 - Publication" I lettori hanno bisogno di sale,di droghe,di eccitanti ". Nero, fantastico e bizzarrie varie nella Domenica del Corriere (1899-1909)(Università degli studi di Trieste, 2008-04-08)
;Foni, FabrizioGuagnini, ElvioPer quanto riguarda il primo Novecento italiano, sulla scorta di quanto affermato da Calvino, la critica letteraria si è solitamente limitata ad esaminare una produzione fantastica di stampo «intellettuale», anziché «emozionale». In realtà, per il nostro paese, è proprio la nascita di svariate riviste di taglio popolare (e dalle larghe tirature) a contribuire alla diffusione d’un racconto fantastico finalizzato alla meraviglia o al raccapriccio del lettore. “La Domenica del Corriere”, oltre ad essere la più venduta, offre un perfetto esempio di come questo tipo di narrativa acquisti sempre più spazio, contribuendo alla creazione di una scuola di autori prolifici, seppur ai limiti del dilettantismo, e proponendo – spesso per la prima volta – le traduzioni a puntate dei romanzi esteri polizieschi, fantastici o semplicemente avventurosi più noti all’epoca. La citazione nel titolo riprende la risposta, all’interno dell’anonima rubrica “Piccola Posta”, fornita a un lettore che aveva inviato un racconto giudicato dalla redazione «troppo semplice». Il "sale", le "droghe", gli "eccitanti" su cui viene posto l’accento, ben esemplificano il favore accordato dalla testata alla narrativa di genere. È in questi anni che, all’interno dei giornali, il fantastico nostrano diviene una specifica e organizzata espressione della cultura di massa, e non una curiosa e occasionale presenza, e “La Domenica del Corriere” ne rappresenta senz’altro il modello più riuscito.1431 16776 - PublicationIl viaggiatore "ideale" di Alberto Fortis. Scritture e riscritture adriatiche fra Settecento e Ottocento.(Università degli studi di Trieste, 2008-04-08)
;Giurgevich, LuanaGuagnini, ElvioLa grande varietà di scritti usciti dalla penna di Alberto Fortis consente di entrare nell’officina odeporica di un viaggiatore d’eccezione, che dimostra un costante e vivo interesse per la costa orientale dell’Adriatico. Un viaggiatore che, fino alla fine della sua vita, anche quando il sogno raguseo è ormai svanito e può solo «euganeizzarsi», non smette mai di raccogliere materiali e informazioni sulle terre adriatiche. La tesi si propone di analizzare gli interessanti itinerari testuali proposti dal viaggiatore padovano attraverso una serie di confronti che coinvolge, da un lato, gli scritti adriatici dello stesso autore, quelli che precedono e seguono la stesura del Viaggio in Dalmazia (ricordo le istruzioni scientifiche per i viaggiatori in Adriatico, le relazioni sullo stato della pesca stese per il serenissimo governo, il carteggio privato, le lettere odeporiche inviate a John Strange) e, dall’altro, le innumerevoli riscritture e traduzioni che prendono le mosse dal celebre resoconto di viaggio. Fra quest’ultime ricordo, in particolare, la Topografia veneta di Vincenzo Formaleoni e il resoconto odeporico di Ernst Friedrich Germar, due testi che rivelano una storia di intrecci, di travasi, di corrispondenze intertestuali. Il viaggio lungo la frastagliata linea adriatica indica, già nella sua mutevolezza, la ricchezza di spunti che il viaggiatore padovano trarrà dall’osservazione delle coste, delle montagne, dei corsi d’acqua zigzaganti verso l’interno della Dalmazia. Insomma di tutte quelle «piste» della Natura che lo condurranno all’incontro con l’Uomo morale morlacco. In una cornice adriatica, dove regna l’osservazione diretta e si fa strada una proposta di rettifica, che è anche reinterpretazione della nozione di spazio e dei viaggi verso Oriente, il naturalista padovano sviluppa un proprio ideale di viaggiatore e il suo resoconto di viaggio diventa, a sua volta, una vera e propria guida, un testo imprescindibile per i futuri viaggiatori in Adriatico.1304 5328 - PublicationL'invettiva contro Gildone.Motivi di propaganda politica e prassi letteraria.(Per un commento a Claud.carm.15)(Università degli studi di Trieste, 2008-04-17)
;Cuzzone, Tullia ;Cristante, LucioFernandelli, MarcoL’indagine ha permesso di mettere in luce la complessità di un poema che è prima di tutto un’opera a sostegno della politica di Stilicone e contiene un messaggio, duplice (di rimprovero e parenetico), inviato all’Oriente dell’Impero relativo alla necessaria concordia fra le due parti e fra i fratelli reggenti, Onorio e Arcadio. Claudiano eleva a dignità epica un episodio politico-militare la cui conclusione, più che da una vera e propria battaglia (che nella realtà non avvenne mai), era stato determinato dall’abile strategia di Stilicone. La specificità dell’opera consiste in una elevata cifra retorica dell’elemento panegiristico di cui si è fornita documentazione. La condanna di Stilicone come hostis publicus, da parte della corte orientale, obbliga il poeta ad assegnare al generale vandalo un ruolo di secondo piano e determina l’impossibilità di attribuirgli una responsabilità diretta nella risoluzione della vicenda gildonica. Tale condizionamento storico-politico si traduce in una strategia narrativa in cui il soggetto centrale del racconto diventa Gildone, il nemico o piuttosto l’anti-eroe, a cui si contrappone in modo implicito (esplicito raramente) proprio Stilicone. Stilicone incarna così l’eroe della tradizione romana, rispettoso della fides verso i familiari (in qualità di suocero di Onorio) e la patria. Le azioni del generale vandalo sono exempla di pietas e in netta antitesi con quelle di Gildone che però non compare mai come attore nella vicenda. L’opposizione tra i due si traduce in definitiva nella vittoria morale di Stilicone. Il generale vandalo, compie il suo ingresso nel finale del poema (352), preparato dall’encomio ad opera di Teodosio il Grande. Nel poema dunque la vittoria su Gildone non viene descritta mediante il racconto dei fatti, ma è sancita sul piano etico per mezzo della contrapposizione fra i due antagonisti. Il presente lavoro cerca di mettere in luce le ragioni che nell’In Gildonem hanno determinato il silenzio di Claudiano sugli antefatti e sulle operazioni in rapporto al più dettagliato resoconto della vicenda e al vero e proprio panegirico di Stilicone nella successiva Laus. Il confronto fra le due opere indurrebbe infatti a individuare nella prima una sorta di anticipazione dei motivi enfatizzati, senza reticenze, nella Laus. In questa prospettiva di lettura le due opere risultano complementari e ciò permetterebbe di superare la posizione della critica (Döpp 1980, Hajdu 1996-1997, Charlet 2000) che ritiene l’In Gildonem incompiuto tanto da ipotizzare la mancata pubblicazione di un secondo libro.1407 13271 - PublicationPlutarco, Quaestiones Convivales, Libro nono. Edizione critica con introduzione, traduzione e note di commento.(Università degli studi di Trieste, 2008-04-17)
;Cimadori, Silvia ;Pellizer, EzioFormentin, Maria RosaL’elaborato è costituito da un’edizione critica del libro IX delle Quaestiones Convivales di Plutarco. L’edizione si compone delle seguenti parti: a) un’ampia introduzione generale; b) un sommario dei contenuti principali dell’opera; c) il testo greco sottoposto a revisione critica, e dotato di doppio apparato (apparato critico di tipo «positivo»; apparato dei loci similes); d) una traduzione; e) un commento; f) due indici (dei nomi e delle citazioni). Il primo capitolo dell’Introduzione è dedicato alla presentazione delle Quaestiones Convivales di Plutarco (cronologia, contenuti, struttura, collocazione all’interno della classificazione delle opere plutarchee, modelli, problema della «storicità» dei contenuti). Il secondo capitolo dedica specifica attenzione al libro nono, sia negli aspetti più generali (datazione del banchetto descritto all’interno del libro; elenco delle Quaestiones in esso contenute; peculiarità strutturali e tematiche del libro rispetto agli otto libri precedenti), sia nel dettaglio dei contenuti, attraverso l’evidenza dei temi di maggiore interesse che spiccano nel corso dell’esposizione plutarchea (ricorrenza dell’applicazione pratica di regole conviviali trattate dall’autore in altri libri dell’opera; giochi di parole e pseudoetimologie come divertimento da tavola ma anche come strumento di indagine filosofica; presenza di segnali stilistici che consentono l’individuazione del portavoce dell’autore; rilevanza della componente filosofica e dei richiami a Platone all’interno del libro; possibilità di riqualificare alcune citazioni poetiche apparentemente erronee come citazioni adattate dall’autore al nuovo contesto; importanza della Questione XIV, ed in particolare del discorso conclusivo del personaggio Plutarco in essa contenuto, in quanto nucleo tematico contenente un messaggio di particolare spessore etico). Nella prima sezione del capitolo relativo al testo, dedicata alla storia del testo e alla fortuna dell’opera, diverse tipologie di documenti testuali relativi alle Quaestiones Convivales (papiri, fonti letterarie antiche, manoscritti greci, traduzioni latine, altre traduzioni) vengono evidenziate all’interno di una panoramica unitaria di descrizione degli aspetti più salienti relativi alla fortuna dei Moralia, dal periodo antico fino al Cinquecento. L’excursus evidenzia una buona circolazione dell’opera nel periodo antico, una «riscoperta» tarda rispetto a tutti gli altri Moralia in età umanistica, l’esistenza di alcune traduzioni latine parziali all’inizio del Cinquecento (che precedono la traduzione latina completa di Xylander del 1570), e di volgarizzamenti italiani a partire grosso modo dalla metà del Cinquecento, sia parziali che completi. La seconda sezione del capitolo relativo al testo è riservata alla trattazione degli aspetti strettamente ecdotici (elenco e datazione dei testimoni dell’opera, recensio, stemma codicum, esposizione dei criteri editoriali). Il quarto capitolo, dedicato alla lingua e allo stile, contiene l’evidenza di alcune peculiarità riscontrate nel corso dello studio sul testo, tra le quali sono notevoli la presenza di hapax, la ricorrenza di moduli stilistici quali la dittologia sinonimica, il chiasmo, l’allitterazione in alfa. La revisione critica del testo si avvale di principi conservativi, tendenti al mantenimento motivato del testo tràdito, in contrapposizione all’applicazione di criteri normativi già adottata in precedenti edizioni dell’opera stessa. Le note di commento sono finalizzate alla chiarificazione dei passi di difficile comprensione, alla segnalazione dei contenuti particolarmente rilevanti in sé o ai fini della migliore valutazione dell’opera, all’evidenza dei paralleli più notevoli all’interno delle fonti antiche, all’informazione bibliografica sui temi trattati e al confronto con le fonti bibliografiche, alla giustificazione delle scelte testuali, all’osservazione degli aspetti linguistici, stilistici e retorici.5688 5123 - PublicationImmagini della luce nelle Epistulae di Seneca.(Università degli studi di Trieste, 2008-04-17)
;Zudini, Giulia ;Fernandelli, MarcoCristante, LucioStudiare gli ambiti metaforici cui Seneca attinge con maggior frequenza nella sua opera filosofica è un mezzo per avvicinare molti aspetti della sua cultura stilistico-retorica e, allo stesso tempo, del suo mondo ideologico e psicologico. Oltre ai realia – alle realtà sociali, politiche, materiali del mondo che lo circonda – l’immaginario di Seneca accoglie e contribuisce a convogliare soprattutto realtà culturali: esse si traducono in immagini che rivelano le convergenze tra la sua opera e quella di chi lo precedette. Tra esse rientra anche il motivo della luce che, per il suo carattere intuitivo, ‘assiomatico’ , si presta a convogliare nell’immaginario senecano una lunga tradizione di simbolismo letterario, filosofico, teologico. Per misurare l’originalità del trattamento senecano si tratterà di precisare innanzitutto in che modo egli disponga di tale eredità, valutando contemporaneamente gli effetti di quello scambio incessante che, nello sviluppo dell’immaginario, avviene tra gli elementi che giungono dall’ambiente circostante – sociale e culturale – e le pulsioni psicologiche e soggettive di chi se appropria, che tende ad assimilare questi elementi al proprio personale linguaggio letterario. La descrizione e l’analisi della fenomenologia delle immagini della luce in un testo filosofico, con le cui istanze proprie essa interagisce naturalmente, esige altresì che si individui in che misura e in quali forme si compenetrino immagine e concetto, ovvero l’aspetto retorico e l’aspetto propriamente logico-teoretico del testo. Un necessario presupposto per l’individuazione di tali rapporti è costituito, per le Epistulae morales, dalla definizione dell’atteggiamento che Seneca matura consapevolmente verso la funzione delle imagines all’interno del discorso filosofico, nonché verso il ruolo dell’immaginazione creatrice come autonoma facoltà dell’artista. Sebbene non sia attestata in Seneca una teoria della letteratura organicamente espressa, la coerenza del suo atteggiamento sul piano della dottrina estetica si radica in un costante riferimento al sistema di pensiero stoico, attraverso l’autorevolezza del quale Seneca reperisce una sorta di garanzia a priori del proprio impianto teorico. Così facendo, però, abbiamo visto che il filosofo si trova a fare i conti, in campo estetico, con la tradizione di scuola: la concezione stoica di un ideale di linguaggio trasparente, adatto a esprimere la verità del pensiero morale, imponeva la svalutazione delle istanze stilistiche e la loro subordinazione all’integrità dell’espressione. Seneca non si discosta mai esplicitamente da questa posizione di condanna dell’elemento stilistico-formale e quando prende in considerazione lo stile della predicazione filosofica lo fa sempre in relazione diretta al suo fine, che è di ammaestramento alla virtù e di esortazione a una condotta attivamente morale. Così, nella teoria senecana, anche l’uso delle immagini nella prosa filosofica è giustificato solo sulla base della funzione didattica che esse possono svolgere in tale contesto e dell’utilità pedagogica che ne deriva: ho cercato di mostrare come questo sia il tratto che spicca maggiormente nelle notazioni sulla letteratura e sullo stile presenti nelle Epistulae. Tuttavia, proprio la ricerca di un’eloquenza che, attraverso la bellezza e la ricercatezza delle espressioni, sappia dare risalto non a sé stessa bensì ai contenuti che mira a comunicare, permette parallelamente a Seneca di operare una rivalutazione degli aspetti stilistico-formali. Il filosofo sostiene con convinzione la necessità di un’admonitio che agisca psicagogicamente su chi ascolta, e concepisce l’uso di un linguaggio energico, che sappia farsi forte dei mezzi della persuasione al fine di rispecchiare e trasmettere la verità del contenuto filosofico. Quanto allo specifico uso delle immagini all’interno della prosa filosofica, abbiamo visto che esso è giustificato innanzitutto al fine di sopperire all’egestas linguae, ma soprattutto è concepito come un imprescindibile mezzo di sostegno della debolezza intellettiva: la principale funzione delle immagini per Seneca è appunto quella di demonstrare attraverso la loro concretezza e vividezza. Esse trovano pertanto il loro definitivo riscatto come strumenti utili al filosofo per mettere a fuoco problemi e argomentazioni, all’ascoltatore per appropriarsi i concetti con maggiore immediatezza. A questa concezione fa da pendant, nella concreta prassi stilistica di Seneca filosofo, un uso costante delle immagini. Quelle che sviluppano il motivo della luce trovano nel corpus delle Epistulae due principali ambiti di applicazione: la conoscenza e la virtus. La prima di queste associazioni, quella che assimila luce e conoscenza, è un risultato di quel ‘pensare per immagini’ che è all’origine stessa del linguaggio filosofico: ho ripercorso nella parte introduttiva di questo lavoro le idee che nella speculazione psicologico-estetica e nella cultura retorica disponibili a Seneca, avevano stabilito un nesso tra immaginazione e meditazione filosofica, e di concerto l’affinità tra il poeta e il filosofo, accomunati dalla capacità di ‘scorgere il simile’ attraverso le apparenze della varietà fenomenica. Nel poeta, secondo Aristotele, questa capacità è alla base dell’arte della metafora, ed è nativa, non insegnabile. A propria volta, il pensiero filosofico si svolge in origine attraverso metafore: così come si è visto, questo tipo di immagini traducono il pensiero astratto, per la prima volta, in contenuto sensibile. Le metafore divengono pertanto uno strumento naturale della predicazione filosofica. È il caso appunto della luce come metafora della conoscenza: la natura della luce come chiarezza che rende possibile il vedere e l’intuitiva associazione dell’atto conoscitivo all’atto della visione, dell’anima agli occhi, sono elementi esplorati dalla lunga tradizione retorica e filosofica che nella mia ricerca ho cercato di ripercorrere. Anche Seneca rientra in questa tradizione filosofica, che aveva avuto nei dialoghi di Platone – molto più che nell’elaborazione della scuola stoica – il suo momento centrale. Certo, nel caso di Seneca, il quale non è l’inventore del sistema filosofico che espone, la metafora della luce come conoscenza non conferisce ex novo una forma al pensiero, ma serve piuttosto a vivificarlo, ad animarlo, permettendo al filosofo di ripercorrerne i nessi secondo le proprie categorie mentali attraverso un apparato di immagini consolidate dalla tradizione. A loro volta, metafore poco evidenti o quasi completamente lessicalizzate, limitate a un solo verbo o sostantivo, si riattivano per mezzo dei procedimenti stilistici che Seneca mette in atto nella sua prosa filosofica. Sulla base dei testi presi in considerazione, mi sembra si possano individuare come segue: 1. Accumulazione di immagini dallo stesso campo figurativo al fine di rafforzarne l’evidentia, come nell’epistola 88, dove un complesso sistema di richiami collega i motivi della luce come conoscenza, dell’accecamento, dell’orientamento: insieme essi collaborano alla costruzione di un impianto metaforico coeso e coerente, che serve a guidare il lettore nello sviluppo dell’argomento. 2. Interazione del motivo della luce con motivi tratti da altri ambiti metaforici: nell’epistola 94 la complessa costellazione metaforica che si sviluppa intorno all’associazione vista fisica / vista interiore, è rafforzata dall’innesto del motivo tipicamente senecano della salute / malattia come condizioni morali. 3. Trapasso continuo dal piano connotativo a piano denotativo, come nell’epistola 48, dove la metafora dell’iter, che interagisce strettamente con quello della luce dell’orientamento morale, è anticipata dal riferimento di cornice al viaggio di Lucilio; l’immagine resta evidente al lettore funziona poi da Leitmotiv nello sviluppo dell’epistola. Per quanto riguarda l’applicazione del campo metaforico della luce al tema della virtus, l’analisi della fenomenologia presa in considerazione ci mostra una più complessa compenetrazione tra l’aspetto letterario e l’aspetto propriamente logico-teoretico. Ho operato nel mio studio una distinzione dei materiali essenzialmente tecnici o dossografici da quelli che propriamente letterari; sulla base di questo criterio mi sembra che il rapporto tra le immagini della luce e il contenuto filosofico si possa definire come segue: 1. Un primo tipo è costituito da metafore puramente ornamentali che, proprio perciò, non si fa carico di particolare significato dottrinale. È il caso della luce come attributo dell’eccellenza del sapiens: questo motivo, che è convenzionale già in Cicerone e che è presente nelle Epistulae in moltissime occorrenze, è stato citato a proposito di epist. 120,13, un’occorrenza che può essere ricollegata a una più estesa presenza dell’immaginario della luce nella medesima epistola. 2. Un secondo tipo, più significativo, è rappresentato da formulazione analogiche le cui implicazioni sono intese a contribuire alla determinazione del senso della dottrina enunciata. Tali metafore si possono distinguere a loro volta in due sottocategorie: a. vi sono analogie essenziali alla giustificazione della dottrina enunciata, come quella di epist. 31,2: Seneca riconduce il rapporto che intercorre tra bene e virtù ai precetti della fisica stoica in cui tale rapporto si radica, assimilando i processi invisibili dell’interiorità umana a quelli visibili del mondo naturale, e in particolare alla luce, fenomeno visibile per eccellenza. La mixtura lucis di cui hanno parte le cose luminose richiama la teoria della kra~siı tra lo pneu~ma e le parti del cosmo che esso compenetra, teoria che sul piano fisico fonda la dottrina etica della partecipazione delle cose buone al bene, ovvero la ratio divina che le compenetra. Un altro caso di questo tipo di occorrenze è quello di epist. 66,20, dove la grandezza assoluta della virtus in rapporto agli incommoda è assimilata alla potenza luminosa del sole: esso, con l’intensità della sua luce, rende impercettibile ogni fonte di luce minore. Anche qui l’analogia, perfettamente organica alla dottrina enunciata, funziona in base ai principi della fisica stoica che identificavano lo hJgemonikovn del cosmo nel sole. b. viceversa in altre analogie, sebbene si stabiliscano anch’esse sulla base di una stretta correlazione fra immagine e contenuto filosofico, prevale l’aspetto icastico. In questa sottocategoria ricadono i casi di epist. 92,5 e 17, dove l’intensità luminosa del sole è tertium comparationis comune a due similitudini, le quali però illustrano due rapporti diversi, quello tra virtus e commoda e quello tra virtus e incommoda: Seneca indulge in variazioni su uno stesso motivo il cui sviluppo, pur contribuendo alla determinazione di senso dell’insegnamento enunciato nell’epistola, mostra come l’equilibrio tra istanze teoretiche e istanze letterarie si sbilanci a favore delle seconde. 3. Un terzo tipo di immagini è il più caratteristico dell’usus senecano: è costituito dai casi in cui una metafora è adottata per rivitalizzare o per corroborare l’impatto di una teoria senza che ciò sia inteso a determinare la sostanza della teoria stessa. Anche in questo caso ho individuato due distinte applicazioni: a. talvolta Seneca introduce elementi e idee coerenti con la teoria presentata. È il caso di epist. 21,2 dove la concezione stoica dell’autosufficienza della virtus prende corpo in una similitudine che gioca sul contrasto tra due diverse manifestazioni luminose: la lux rappresenta la vita ritirata nel godimento del sicuro possesso della virtus, che dipende dall’autonoma volontà e intenzione dell’individuo, appunto come una cosa che abbia in sé la fonte della propria luminosità. A essa si oppone lo splendor riflesso, cui è associata la vita pubblica, la quale deriva il suo valore da beni e condizioni che non dipendono direttamente dalla condotta individuale e che sono pertanto incerti ed effimeri; b. in altri casi attraverso l’immagine Seneca introduce elementi e idee in parte fuorvianti rispetto alla sostanza della teoria enunciata. Un esempio macroscopico di questo procedimento è costituito dalla similitudine solare in epist. 41: l’anima che alberga nell’uomo e lo rende partecipe della propria divina natura pur restando congiunta alla propria origine, è assimilata ai raggi del sole, che toccano la terra ma hanno la propria fonte nell’astro da cui sono emessi. L’immagine di matrice platonica sembra implicare una concezione psicologica ed escatologica dell’anima a sua volta non scevra da spunti platonici. L’immagine occupa dunque una posizione contraddittoria, che si spiega col fatto che Seneca attinge da fonti diverse elementi anche molto eterogenei tra loro, e li assimila in un organismo retorico che di ognuno di essi sa avvalersi ai fini dell’incisività della predicazione morale. Questa prassi è indizio di un atteggiamento non già eclettico o poco rigoroso, bensì aperto a recepire spunti significative dalle altre scuole e a integrarli in una cornice di pensiero che rimane fondamentalmente stoica. Naturalmente, in un autore letteratissimo come Seneca, ci sono momenti – forse l’epistola 41 si può considerare uno di questi – in cui l’immagine prende il sopravvento sul ragionamento che doveva illustrare o corroborare.7627 17331 - PublicationFrancesco Da Molino, Patrizio veneziano del Cinquecento e il suo compendio(Università degli studi di Trieste, 2008-04-23)
;Maggio, SilviaTrebbi, GiuseppeQuesto lavoro ha come finalità la trascrizione e l’analisi del Compendio di me Francesco da Molino de m(esser) Marco delle cose, che reputerò degne di tenerne particolar memoria, del patrizio veneto Francesco Da Molino, aristocratico minore della Venezia del Cinquecento. Il manoscritto è conservato a Venezia, nella Biblioteca Nazionale Marciana, mss. Italiani, cl. VII, 553 (=8812). L’opera si è rivelata di vivo interesse per le molteplici informazioni da essa riportate. Francesco da Molino q. Marco, modesto mercante e giudice della Quarantia, Consigliere a Retimo, rettore a Pordenone e nella fortezza di Spinalonga, risulta essere un attento osservatore della realtà veneziana; egli si sposta nello spazio veneziano e cosparge il suo Compendio di annotazioni critiche sugli accadimenti avvenuti durante la sua vita. Il lavoro è organizzato in due parti. La prima, divisa in tre capitoli, si occupa di analizzare, usando come fonte il Compendio, la biografia del Molino, nato nell’aprile 1546 e deceduto nell’ottobre 1598, i suoi primi tentativi nella mercatura, che ebbero esito infelice, le cariche pubbliche da lui ricoperte da Avvocato ai Consigli (1568) fino a Provveditore a Pordenone. La seconda parte è costituita dalla trascrizione del Compendio stesso. PARTE PRIMA. Nel primo capitolo si dimostra, con l’ausilio delle dichiarazioni di decima della famiglia Molino, l’appartenenza dei da Molino al patriziato minore per possibilità economica e, di conseguenza, per ruoli ricoperti nella carriera politica. Quella dei da Molino non è povertà assoluta, ma è certamente povertà relativa, rispetto alla condizione patrizia, se le loro rendite vengono confrontate con quelle di famiglie illustri. Sono quindi esaminate le modeste cariche pubbliche con cui Francesco da Molino deve integrare le rendite familiari, senza potere aspirare a magistrature prestigiose come le ambascerie. Il secondo capitolo si occupa della rappresentazione della società veneziana nel Compendio; infatti il Molino è testimone, non solo dei più clamorosi avvenimenti politici, ma della vita veneziana (e dello Stato da mar) considerata in tutta la sua ricchezza e complessità. Il Compendio del Molino, così varia e spesso drammatica, ci porta dalle acque del Mare Egeo fino alla terraferma e all’Atlantico, e ci dice moltissimo sulla psicologia di un patrizio veneziano del ‘500 di mediocre ricchezza. Questa parte della ricerca intende proseguire sulla strada tracciata da storici come Alberto Tenenti e Ugo Tucci, che hanno portato negli studi su Venezia le novità metodologiche della scuola delle Annales. Si esamina inoltre la scrittura del da Molino, le sue intenzioni nel comporre l’opera, la sua formazione culturale, il suo rapporto coi possibili lettori del Compendio. L’opera viene confrontata con la cronachistica veneziana ed i diari coevi, nella sua funzione di archivio politico della nobiltà, con descrizione di esperienze, viaggi, osservazioni, critiche. Ci sono alcuni episodi nei quali il Molino non solo rappresenta una delle testimonianze più significative per lo storico, ma raggiunge - entro i limiti del suo stile - una notevole efficacia narrativa e, soprattutto, esprime con chiarezza la sua visione della vita e della società veneziana: vengono analizzati in particolare l’incendio di Palazzo Ducale e alla sua ricostruzione, da cui apprendiamo qualcosa sulla visione artistica del Molino, e gli episodi in cui appaiono le rare figure di donne, comuni o straordinarie, tratteggiate dal Molino (la madre, Bianca Cappello, Vittoria Accoramboni) ed ancora l’episodio dell’alchimista Mamugna, che ci presenta una sorta di summa della capacità del Molino di descrivere realisticamente gli atteggiamenti dei vari gruppi sociali, compresi i ceti dirigenti, principi e patriziati di fine ‘500, che si disvelano ai nostri occhi come assai poco saggi e prudenti: sicché la pietra filosofale del Bragadin si trasforma per noi in una cartina al tornasole dell’Italia della Controriforma. Il terzo capitolo intitolato “Politica e religione” vede il Molino testimone della riforma costituzionale veneziana del 1582-83 e partecipe dell’atteggiamento anticuriale di larga parte del patriziato alla vigilia dell’Interdetto. Il Compendio del Molino è stato talvolta utilizzato, accanto ad altre testimonianze, per cercare di delineare - sulle orme di Leopold von Ranke - caratteri ed orientamenti del cosiddetto patriziato “giovane” nei decenni precedenti all’Interdetto e in particolare nel periodo della crisi costituzionale, che condusse alla riforma del Consiglio dei X del 1582-3 e alla definitiva abolizione della sua “Zonta”. Essendo la questione complessa, si impone l’esigenza di un rinnovato contatto con le fonti, che, senza escludere a priori la possibilità di recuperare le formule già impiegate da qualificati osservatori contemporanei della vita pubblica veneziana, come nunzi e ambasciatori, per descrivere certe dinamiche interne alla politica del Senato, restituisca però più concretamente l’identità dei singoli personaggi e la specificità delle voci che concorrevano, con varie motivazioni, a dar vita alle tendenze anticuriali di una parte del patriziato veneziano. Storici e politici più profondi del Molino, come Paolo Paruta coglieranno nel papato post-tridentino una fatale tendenza all’accentramento, destinata a sfociare proprio durante il pontificato di Sisto V. Non a caso, è proprio questo accentramento di poteri che conferisce un aspetto più drammatico alle vertenze fra Venezia e Roma. Il Molino non si sofferma più di tanto su questi temi, ma –con la sua sensibilità di patrizio- riesce a cogliere il contrasto tra Venezia e Roma, fra l’idea di una città libera retta da un’aristocrazia che conserva un’apparente eguaglianza repubblicana e il papato romano, che esprime l’esigenze dello Stato assoluto, esaminando tale conflitto sotto un profilo affatto particolare, quello delle procedure di estradizione da Venezia allo Stato pontificio. APPENDICE. In appendice sono riprodotte le fonti archivistiche più importanti per la biografia del da Molino e per una piena comprensione della sua opera: accanto ai dati biografici (registrazione della nascita e del decesso), e alle notizie economiche (il contratto di matrimonio del padre, le dichiarazioni di decima), sono trascritti i dispacci dell’ambasciatore Sigismondo Cavalli da Madrid, sulla missione del da Molino in Spagna nel 1567 per la liberazione della nave Giustiniana; vengono documentati i contrasti giurisdizionali fra il da Molino rettore a Pordenone e il Consiglio dei Dieci e Zonta nel 1580-1581, e viene trascritta la relazione sulla fortezza di Spinalonga, del 1586. PARTE SECONDA. La seconda parte contiene l’edizione critica del Compendio, preceduta dall’indicazione dei criteri di edizione qui adottati e accompagnata da note storiche e filologiche. Concludono l’opera l’indice analitico, comprendente i personaggi, i luoghi e gli avvenimenti citati nel Compendio, e la bibliografia.1642 10977 - PublicationJoseph Heintz il Giovane pittore nella Venezia del Seicento(Università degli studi di Trieste, 2008-04-23)
;D'Anza, Daniele ;Degrassi, MassimoDegrassi, MassimoQuesta tesi di dottorato presenta il catalogo ragionato dell’opera pittorica di Joseph Heintz il Giovane, artista tedesco attivo a Venezia per più di un cinquantennio, dal 1625 al 1678, anno della morte. Il lavoro rispetta l’impostazione tipica di questo metodo conoscitivo aprendosi pertanto con la biografia dell’artista accompagnata dal saggio critico, che introduce il catalogo ragionato delle opere; chiude in clausola la bibliografia. Da questa prima e inedita catalogazione sono emersi diversi aspetti della sua attività, finora poco noti o addirittura sconosciuti. Partendo dall’analisi delle opere a lui precedentemente riferite, si è cercato di differenziare quelle autografe, da quelle di bottega e da quelle estranee al suo pennello. La versatilità di questo artista, che lo spingeva a passare con disinvoltura da un genere all’altro cambiando stile all‘occorrenza, non ha certo agevolato tale compito. Fra le lagune egli si sposò due volte ed ebbe almeno quattro figli, inserendosi pienamente in quel circuito di committenze pubbliche e private che regolavano la vita artistica locale. Il suo contemporaneo Marco Boschini nel 1674 segnalava ventitre dipinti di carattere religioso sparsi nelle chiese veneziane, il suo nome affiora, altresì, con frequenza dall’elenco degli inventari delle collezioni private coeve. Il merito maggiore di Heintz fu quello d’aver affrontato per primo a Venezia il tema della veduta. Se in precedenza qualche artista aveva trasposto su grandi teleri certe significative cerimonie veneziane, fu Heintz il primo a commercializzarle impiegando supporti, le cui dimensioni ridotte rispondevano meglio alle esigenze di una committenza privata. Il successo riscosso da queste opere lo “obbligò” ad avvalersi dell’ausilio di alcuni collaboratori. Due di questi furono sicuramente i figli Daniel e Regina, successivamente pittori in proprio a Venezia; un altro quel Francesco Trevisani che nel 1678, anno di morte di Heintz, si trasferì a Roma per diventare uno dei massimi esponenti del rococò locale. La presenza di collaboratori attivi all’interno della sua bottega giustifica quindi la quantità di dipinti che ancora oggi vengono indebitamente registrati come autografi e che invece debbono esser distinti, in alcuni casi, come opere di bottega e in altri espunti senza indugio dal catalogo. Lo studio attento e una conoscenza precisa del suo ductus pittorico hanno permesso all’autore di sottrargli molti dipinti che ripetevano, senza nerbo e con una condotta evidentemente diversa, quelle tematiche da lui sviluppate e diffuse. Il presente catalogo offre infine una ricostruzione della vicenda biografica dell’artista dedotta, in parte, dallo studio di alcuni interessanti documenti d’archivio, finora inediti.2817 9695 - PublicationInventario dei luoghi di culto dell'area falisco-capenate,(Università degli studi di Trieste, 2008-04-28)
;Ferrante, Cristina ;Coarelli, Filippo ;Bandelli, Gino ;Scheid, JohnDe Cazanove, OlivierInventario dei luoghi di culto della zona falisco-capenate. Sunto. La raccolta delle fonti relative alla vita religiosa della zona falisco-capenate è stata finalizzata, in primo luogo, all’individuazione di luoghi di culto sicuramente identificabili come tali. Dove questo non fosse stato possibile, soprattutto in presenza di documenti epigrafici isolati e di provenienza non sempre determinabile, si è comunque registrata la presenza del culto. Attraverso la documentazione raccolta si intende cercare di delineare una storia dei culti dell’area considerata, a partire dalle prime attestazioni fino all’età imperiale. La zona presa in esame, inserita nella Regio VII Etruria nel quadro dell’organizzazione territoriale dell’Italia augustea, è compresa entro i confini naturali del lago di Bracciano e del lago di Vico a ovest, del corso del Tevere a est, mentre i limiti settentrionale e meridionale possono essere segnati, rispettivamente, dai rilievi dei Monti Cimini e dei Monti Sabatini. I centri esaminati sono quelli di Lucus Feroniae, Capena, Falerii Veteres, Falerii Novi, Narce, Sutri e Nepi. La comunità capenate occupava la parte orientale del territorio, un’area pianeggiante, dominata a nord dal massiccio del monte Soratte, e delimitata a est dall’ansa del Tevere. Il suo fulcro era costituito dall’abitato di Capena, l’odierno colle della Civitucola, cui facevano capo una serie di piccoli insediamenti, ancora poco indagati, dislocati in posizione strategica sul Tevere, o in corrispondenza di assi stradali di collegamento al fiume. Il principale di essi risulta essere localizzabile nel sito della moderna Nazzano, occupato stabilmente a partire dall’VIII sec. a.C., e posto in corrispondenza dell’abitato sabino di Campo del Pozzo, sull’altra sponda del Tevere. Il comparto falisco si articola, invece, attraverso una paesaggio di aspre colline tufacee, incentrato attorno al bacino idrografico del torrente Treia, affluente del Tevere, che percorre il territorio in direzione longitudinale. Lungo il corso del fiume si svilupparono i due più antichi e importanti centri falisci di Falerii Veteres e Narce, un sito nel quale la più recente tradizione di studi tende a riconoscere, sempre più convincentemente, la Fescennium nota dalle fonti, l’altro abitato falisco, oltre a Falerii, di cui sia tramandato il nome; lungo affluenti del Treia sono ubicate Nepi e Falerii Novi. Pur nella specificità culturale progressivamente assunta da Falisci e Capenati, la collocazione geografica del territorio da essi occupato lo rende naturalmente permeabile a influenze etrusche e sabine, rilevabili attraverso la documentazione archeologica, e rintracciabili in alcune notizie delle fonti antiche, rivalutate dalla più recente tradizione di studi. Una posizione differente era, invece, maturata dopo le prime indagini condotte nella regione, tra la fine dell’’800 e l’inizio del ’900, che avevano portato a enfatizzare i caratteri culturali specifici delle popolazioni locali, sottolineando la sostanziale autonomia di queste rispetto agli Etruschi, soprattutto sulla base delle strette analogie tra la lingua falisca e la latina. Tale percezione fu dominante fino alla seconda metà degli anni ’60 del ’900, quando la pubblicazione dei primi dati sulle necropoli veienti mise in luce gli stretti rapporti con le aree falisca e capenate, tra l’VIII e il VII sec. a.C. Gli studi sul popolamento dell’Etruria protostorica condotti a partire dagli anni ’80 del ’900 hanno sempre più focalizzato l’attenzione su un coinvolgimento di Veio nel popolamento dell’area compresa tra i Monti Cimini e Sabatini e il Tevere nella prima età del Ferro, trovando conferma anche dalle recenti analisi dei corredi delle principali necropoli falische, che hanno evidenziato, nell’VIII e all’inizio del VII sec. a.C., importanti parallelismi con usi funerari veienti, ma anche aspetti specifici della cultura locale. Il corpus di iscrizioni etrusche proveniente dalle necropoli di Narce dimostra, per tutto il VII e VI sec. a.C., la continuità stanziale di etruscofoni, che utilizzano un sistema scrittorio di tipo meridionale, riconducibile a Veio, di cui Narce sembra costituire un avamposto in territorio falisco. Già dall’inizio del VII sec. a.C., tuttavia, si fanno evidenti i segni di una più specifica caratterizzazione culturale delle aree falisca e capenate, anche attraverso la diffusione di un idioma falisco, affine a quello latino, documentato epigraficamente per il VII e VI sec. a.C. soprattutto a Falerii Veteres. Un ulteriore elemento di contatto culturale col mondo latino è rappresentato, in questo centro, dal rituale funerario delle inumazioni infantili in area di abitato. Tale uso, che trova numerosi confronti nel Latium vetus, mentre risulta estraneo all’Etruria, è documentato a Civita Castellana, in località lo Scasato, da due sepolture di bambini, databili tra la fine dell’VIII e la prima metà del VII sec. a.C. A Capena sono state rilevate, a partire dal VII sec. a.C., notevoli influenze dall’area sabina, soprattutto attraverso la documentazione archeologica fornita dalle necropoli, mentre, da un punto di vista linguistico, un influsso del versante orientale del Tevere è stato colto, in particolare, attraverso un’analisi del nucleo più nutrito delle iscrizioni epicorie, che risale al IV-III sec. a.C. La ricettività nei confronti degli apporti delle popolazioni limitrofe e la capacità di elaborazioni originali, attestate archeologicamente sin dalle fasi più antiche della storia dei popoli falisco e capenate, possono offrire un supporto documentario alla percezione che già gli scrittori antichi avevano dell’ethnos falisco, trovando riscontro, in particolare, nelle tradizioni che definivano i Falisci come Etruschi, oppure come ethnos particolare, caratterizzato da una propria specificità anche linguistica, un dato, quest’ultimo, che tradisce il ricordo di contatti col mondo latino. Un terzo filone antiquario, che si intreccia a quello dell’origine etrusca, rivendica ai Falisci un’ascendenza ellenica, e più propriamente, argiva, e sembra, invece, frutto di un’elaborazione erudita maturata in un momento successivo. La notizia dell’origine argiva risale, per tradizione indiretta, alle Origines di Catone, e si collega a quella della fondazione di Falerii da parte dell’eroe Halesus, figlio di Agamennone, che avrebbe abbandonato la casa paterna dopo l’uccisione del padre. Ovidio e Dionigi di Alicarnasso attribuiscono all’eroe greco l’istituzione del culto di Giunone a Falerii, il cui originario carattere argivo sarebbe conservato nel rito celebrato in occasione della festa annuale per la dea. L’importanza accordata al culto di Giunone nell’ambito di tale tradizione ha portato a ipotizzare che questa possa essersi sviluppata proprio a partire dal dato religioso della presenza a Falerii di una divinità assimilabile alla Hera di Argo. Dall’esame linguistico del nome del fondatore, il quale non ha combattuto a Troia e non ha avuto alcun ruolo nel mondo ellenico, si è concluso che dovesse trattarsi di un eroe locale, e che la formazione dell’eponimo sia precedente alla metà del IV sec. a.C., quando è documentata l’affermazione del rotacismo in ambiente falisco. L’elaborazione della leggenda di Halesus deve essere collocata, dunque, in un momento precedente a questa data, che, si è pensato, possa coincidere con la presenza a Falerii di maestranze elleniche o ellenizzate, attive nel campo della ceramografia e della coroplastica, a partire dalla fine del V sec. a.C. Questa tradizione si collega a quella sull’origine etrusca attraverso la notizia di Servio, secondo cui Halesus sarebbe il progenitore del re di Veio Morrius. Il ricordo di una discendenza dalla città etrusca è comune anche a Capena, dove, secondo una notizia di Catone, riportata da Servio, i luci Capeni erano stati fondati da giovani veienti, inviati da un re Properzio, nel cui nome, peraltro, è stata ravvisata un’origine non etrusca, ma italico-orientale. A livello storico, l’accostamento tra Veio, Falisci e Capenati sarà documentato dalle fonti attraverso la costante presenza dei due popoli, al fianco della città etrusca, nel corso degli scontri con Roma tra la seconda metà del V e l’inizio del IV sec. a.C. Di tale complesso sistema di influenze partecipa anche la sfera religiosa dell’area in esame. È interessante notare, a questo proposito, che la massima divinità maschile del pantheon falisco-capenate, il dio del Monte Soratte, Soranus Apollo, costituisca l’esatto corrispettivo dell’etrusco Śuri, come da tempo dimostrato da Giovanni Colonna. La particolarità del culto del Soratte, tuttavia, è determinata dalla cerimonia annua degli Hirpi Sorani, che camminavano indenni sui carboni ardenti e il cui nome, nel racconto eziologico sull’origine del rito, tramandato da Servio, è spiegato in relazione a hirpus, il termine sabino per indicare il lupo, in perfetta coerenza col carattere “di frontiera” di questo territorio. Di origine sabina è la divinità venerata nell’unico grande santuario noto nell’agro capenate, il Lucus Feroniae. La diffusione del culto a partire dalla Sabina, già sostenuta da Varrone, è largamente accolta dalla critica recente, sia sulla base dell’analisi linguistica del nome della dea, sia per la presenza, in Sabina, dei centri principali del culto (Trebula Mutuesca, Amiternum), da cui questo si irradia, oltre che presso Capena, in Umbria e in area volsca. Le attestazioni di Feronia in altre zone, come la Sardegna, il territorio lunense, Aquileia, Pesaro sono generalmente da collegare con episodi di colonizzazione romana. Il carattere esplicitamente emporico del Lucus Feroniae, affermato da Dionigi di Alicarnasso e Livio, che lo descrivono come un luogo di mercato frequentato da Sabini, Etruschi e Romani già dall’epoca di Tullo Ostilio, rende perfettamente conto della varietà di frequentazioni e di influenze, che caratterizzano il santuario almeno dall’età arcaica. Pur in assenza di documentazione archeologica relativa alle fasi più antiche, sembra del tutto affidabile la notizia della vitalità del culto capenate già in età regia. Feronia, infatti, a Terracina, risulta associata a Iuppiter Anxur, divinità eponima della città volsca, il che sembra far risalire l’introduzione del suo culto all’inizio della presenza volsca nella Pianura Pontina, cioè ai primi decenni del V sec. a.C., fornendo, inoltre, un possibile indizio di una provenienza settentrionale, da area sabina, dell’ethnos volsco. È ipotizzabile, dunque, che la dea fosse venerata nel santuario tiberino, prospiciente la Sabina, ben avanti il suo arrivo nel Lazio tirrenico. Al di là della semplice frequentazione del luogo di culto e del mercato, un ruolo di primo piano rivestito dalla componente sabina presso il Lucus Feroniae, in epoca arcaica, sembra suggerito dall’episodio del rapimento dei mercanti romani, riferito da Dionigi di Alicarnasso. I rapitori sabini compiono una ritorsione nei confronti dei Romani, che avevano trattenuto alcuni di loro presso l’Asylum, tra il Capitolium e l’Arx, il che fa pensare che i Sabini esercitassero una sorta di protettorato sul santuario tiberino, e avessero, su di esso, una capacità di controllo analoga a quella che i Romani avevano sull’Asylum romuleo. La vocazione emporica del Lucus Feroniae è naturalmente legata alla sua collocazione topografica, nel punto in cui i percorsi sabini di transumanza a breve raggio attraversano il Tevere, tra i due grandi centri sabini di Poggio Sommavilla e Colle del Forno, per dirigersi verso la costa meridionale dell’Etruria. La dislocazione presso il punto di arrivo dei principali tratturi dell’area appenninica, popolata da genti sabelliche, è, peraltro, una caratteristica comune ai più antichi luoghi di culto di Feronia, come Trebula Mutuesca e Terracina, che condividono col Lucus Feroniae capenate anche la collocazione all’estremità di un territorio etnicamente omogeneo. È stato osservato come, in questi santuari, l’attività emporica marittima si intrecciasse con quella legata allo scambio del bestiame, e, nell’ottica di un’apertura verso l’economia pastorale dei Sardi, è stata inquadrata la fondazione romana, nel 386 a.C., di una Pheronia polis in Sardegna, presso Posada. Da questa località proviene, inoltre, una statuetta bronzea, databile tra la fine del V e i primi decenni del IV sec. a.C., raffigurante un Ercole di tipo italico, divinità di cui è noto il legame con la sfera dello scambio, anche in rapporto agli armenti. L’epoca dell’apoikia sarda ha portato a ipotizzare un collegamento col Lucus Feroniae capenate, dato che già tra il 389 e il 387 a.C. nel territorio di Capena erano stanziati coloni romani, misti a disertori Veienti, Capenati e Falisci. La filiazione del culto sardo da quello tiberino sembra, inoltre, perfettamente compatibile con le pur scarne attestazioni relative a una presenza di Ercole nel santuario capenate. A questo proposito è interessante notare che su una Heraklesschale, ancora sostanzialmente inedita, proveniente dalla stipe del santuario, il dio è rappresentato con la leonté e la clava nella mano sinistra, e lo scyphus di legno nella mano destra. Questi due ultimi attributi di Ercole erano conservati nel sacello presso l’Ara Maxima del Foro Boario, a Roma, e lo scyphus, usato dal pretore urbano per libare nel corso del sacrificio annuale presso l’ara, compare anche nella statua di culto di Alba Fucens, nella quale, per vari motivi, si è proposto di riconoscere una replica del simulacro del santuario del Foro Boario. Il richiamo iconografico a questi elementi, in un santuario-mercato ubicato lungo percorsi di transumanza, come era il Lucus Feroniae, non sembra casuale, ma potrebbe, in un certo senso, evocare il culto dell’Ara Maxima, e, in particolare, un aspetto fondamentale di esso, rappresentato dal collegamento con le Salinae ai piedi dell’Aventino. Queste, ubicate presso la porta Trigemina, e dunque prossime all’Ara Maxima, erano il luogo di deposito del sale proveniente dalle saline ostiensi, e destinato alla Sabina, e, in generale, alle popolazioni dell’interno dell’Italia centrale, dedite a un’economia pastorale. L’Ercole del Foro Boario, che tutelava le attività economiche collegate allo scambio del bestiame, sovrintendeva anche all’approvvigionamento del sale, e in questo senso va spiegato anche l’epiteto di Salarius, attestato per il dio ad Alba Fucens, dove, come è stato visto, il santuario di Ercole aveva la funzione di forum pecuarium. La dislocazione di santuari-mercati lungo i tratturi garantiva, dunque, ai pastori, dietro necessario compenso, la possibilità di rifornirsi di sale, e lo stesso doveva verificarsi presso il Lucus Feroniae. Questo sembra confermato dal fatto che, come è stato di recente dimostrato, la via lungo cui sorge il santuario, l’attuale strada provinciale Tiberina, vada, in realtà, identificata con la via Campana in agro falisco, menzionata da Vitruvio, in relazione a una fonte letale per uccelli e piccoli rettili. Il nome della via va spiegato, infatti, in relazione al punto di arrivo, costituito dal Campus Salinarum alla foce del Tevere, dove erano le saline. Nel comparto falisco, l’analisi della documentazione relativa ai luoghi di culto ha evidenziato una più marcata influenza di Veio rispetto all’area capenate. Questa risulta particolarmente rilevante in un centro come Narce, segnato, sin dall’inizio della sua storia, da una netta impronta veiente, e il cui declino coinciderà con gli anni della conquista della città etrusca. Per limitarci alla sfera del sacro, già da un primo esame dei materiali rinvenuti nel santuario suburbano di Monte Li Santi-Le Rote, di cui si attende la pubblicazione integrale, è stata segnalata, dall’inizio del V sec. a.C., epoca in cui comincia la frequentazione dell’area sacra, la presenza di prototipi veienti, che sono all’origine di una produzione locale di piccole terrecotte figurate. A un modello veiente sono riconducibili le cisterne a cielo aperto, che affiancavano l’edificio templare in almeno due dei principali santuari di Falerii Veteres, quello di Vignale e quello dello Scasato I, da identificare entrambi come sedi di un culto di Apollo. Più problematico risulta, invece, l’accostamento ad esse degli apprestamenti idrici rinvenuti presso un’area sacra urbana, recentemente individuata presso la moderna via Gramsci, nella parte meridionale del pianoro di Civita Castellana, e solo da una vecchia notizia d’archivio della Soprintendenza sappiamo di un’analoga cisterna rinvenuta presso Corchiano all’inizio del ’900. Nei casi meglio documentati di Vignale e dello Scasato, tali impianti idrici risultano coevi alla fase più antica del santuario, e rispondono a uno schema che, a Veio, ricorre presso il santuario di Apollo al Portonaccio, presso il tempio a oikos di Piazza d’Armi, nel santuario di Menerva presso Porta Caere, e nel santuario in località Casale Pian Roseto. Non è facile determinare l’esatto valore da attribuire, di volta in volta, a tali cisterne, ma l’enfasi topografica ad esse accordata nell’ambito dei santuari non pare permetta di prescindere da un collegamento con pratiche rituali. Per gli impianti di Falerii si è pensato a un collegamento col santuario del Portonaccio, anche sulla base della corrispondenza cultuale incentrata sulla figura di Apollo, e la piscina è stata spiegata, dunque, in relazione a rituali di purificazione, legati a un culto oracolare. Dopo la sconfitta di Veio Falerii si trovò non solo a tener testa a Roma sul piano militare, ma dovette dimostrarsi non inferiore anche per prestigio e capacità autorappresentativa, essendo l’altro grande centro della basse valle del Tevere. Questo aspetto è stato colto, in particolare, sulla base della decorazione templare della città falisca, che conosce, intorno al secondo-terzo decennio del IV sec. a.C., un rinnovamento generalizzato, dovuto alla nascita di un’importante scuola coroplastica, la cui attività si riconosce anche nel frammento isolato di rilievo fittile rappresentante una Nike, da Fabrica di Roma. Una diversa reazione alla presa di Veio è attestata per l’altro importante centro falisco, quello di Narce, anche attraverso la documentazione fornita dal santuario di Monte Li Santi-Le Rote. Il luogo di culto continua a essere frequentato anche dopo la crisi dell’insediamento urbano, riscontrata attraverso una consistente contrazione delle necropoli a partire dal IV sec. a.C., ma nella prima metà del III sec. a.C. è attestata una contrazione del culto in vari settori del santuario, contestualmente all’introduzione di nuove categorie di ex-voto, quali i votivi anatomici, i bambini in fasce, le terrecotte raffiguranti animali. Questi mutamenti sono stati messi in relazione con la vittoria romana sui Falisci nel 293 a.C., mentre un secondo momento di contrazione del culto sembra coincidere con la definitiva conquista romana del 241 a.C. Dall’inizio del III sec. a.C. anche nei depositi di Falerii vengono introdotti nuovi tipi di votivi, cui si è fatto cenno precedentemente, e, come anche nel santuario di Monte Li Santi-Le Rote, si registra la presenza di monetazione di zecca urbana, che entra a far parte delle offerte. Tale dato diventa ancora più eloquente, se si considera l’assenza di monetazione locale nei contesti di epoca preromana, che sembra tradire l’indifferenza delle popolazioni falische verso tale tipo di offerta. È evidente, dunque, anche per Falerii, un’influenza del mercato romano dopo gli eventi bellici che segnarono la vittoria di Spurio Carvilio sui Falisci. La città, tuttavia, sembra fronteggiare la crisi, tanto da non mettere in pericolo le sue istituzioni, come dimostrano le dediche falische poste, nel Santuario dei Sassi Caduti, a Mercurio, dagli efiles, l’unica carica attestata per la città. Del resto, anche con la costruzione del nuovo centro di Falerii Novi, la documentazione relativa alla sfera religiosa attesta la conservazione, a livello pubblico, della lingua e della grafia falisca, tramite la dedica a Menerva posta dal pretore della città, nella seconda metà del III sec. a.C. (CIL XI 3081). Quanto sappiamo sui culti di età repubblicana di Capena e del suo territorio si limita al santuario di Lucus Feroniae, dove praticamente quasi tutti i materiali e le fonti epigrafiche sono inquadrabili nel corso del III sec. a.C., e a un paio di dediche di III sec. a.C. La capitolazione di Capena subito dopo la presa di Veio (395 a.C.) rende, in questa fase, la presenza romana ormai stabile da circa un secolo, dunque non sorprende che le iscrizioni sacre utilizzino un formulario specificamente latino, anche con attestazioni piuttosto precoci di espressioni che diventeranno correnti nel corso del II sec. a.C. Uno dei primi esempi attestati di abbreviazione alle sole iniziali della formula di dedica d(onum) d(edit) me(rito) è in CIL I², 2435, provenente dalla necropoli capenate delle Saliere. La documentazione archeologica più antica riguardo alla vita religiosa dell’area presa in esame proviene da Falerii Veteres. In ordine cronologico, la prima divinità attestata epigraficamente è Apollo, il cui nome compare inciso in falisco su un frammento di ceramica attica dei primi decenni del V sec. a.C. dal santuario di Vignale. È notevole che si tratti in assoluto della più antica attestazione conosciuta del nome latinizzato del dio, che indica la sua precoce assimilazione nel pantheon falisco, dove, già da quest’epoca, bisogna riconoscere come avvenuta l’identificazione con Apollo del locale Soranus. Il culto del dio del Soratte, attestato per via epigrafica solo in età imperiale, attraverso due dediche a Soranus Apollo, può essere coerentemente collocato tra le più antiche manifestazioni religiose del comprensorio falisco-capenate, e probabilmente la sede cultuale del Monte Soratte doveva fungere da tramite tra le due aree. Nel territorio falisco la presenza del dio lascia tracce più consistenti, attraverso la duplicazione del culto di Apollo a Falerii Veteres, e una dedica di età repubblicana da Falerii Novi, mentre sembra affievolirsi in area capenate, dove ne resta traccia solo in due dediche ad Apollo della prima età imperiale da Civitella S. Paolo, e in una controversa notizia di Strabone, che, apparentemente per errore, ubica al Lucus Feroniae le cerimonie in onore di Sorano, che si svolgevano, invece, sul Soratte. Anche questa notizia, tuttavia, si inserisce in un sistema di corrispondenze cultuali, che associa a una dea ctonia, della fertilità, un paredro di tipo “apollineo”, cioè una divinità maschile, giovanile, con aspetti inferi e mantici. Non sembra casuale, in questo contesto, che il santuario per cui è attestata una più antica frequentazione a Falerii Veteres sia quello di Giunone Curite, una divinità che sembra rispondere allo schema di dea matronale e guerriera (era una Giunone armata, ma anche protettrice delle matrone) per la quale, pure, è attestata l’associazione cultuale con un giovane dio, della stessa tipologia di Sorano. Anche se non sono attestati direttamente rapporti tra Iuno Curitis e Sorano Apollo non sembra da trascurare il dato che l’unica statuetta di Apollo liricine, di IV sec. a.C., rinvenuta a Falerii Veteres provenga proprio dal santuario della dea; inoltre quando essa fu evocata a Roma dopo la presa di Falerii nel 241 a.C., insieme al suo tempio, in Campo, fu costruito quello di Iuppiter Fulgur, una divinità parimenti evocata dal centro falisco, e per la quale, pure, si possono istituire dei parallelismi con Soranus, attraverso l’assimilazione con Veiove. Nell’agro falisco, come in quello capenate, le più antiche attestazioni cultuali si riferiscano, dunque, a una coppia di divinità che, pur nelle differenze maturate in aspetti specifici del culto, sembra rispondere a esigenze cultuali piuttosto omogenee. Con l’età imperiale, infine, il panorama dei culti della zona considerata sembra diventare più omogeneo, inserendosi, peraltro, in una tendenza piuttosto generale. La manifestazione più appariscente è costituita, naturalmente, dal culto imperiale, attestato molto presto in Etruria meridionale. Da Nepi proviene la più antica testimonianza nota in Etruria, costituita da una dedica in onore di Augusto da parte di quattro Magistri Augustales (CIL XI, 3200). L’iscrizione è databile al 12 a.C., anno della fondazione del collegio di Nepi, e dell’istituzione, a Roma, del culto del Genius di Augusto e dei Lares Augusti, venerati nei compita dei vici della città. Altri esempi di una piuttosto precoce diffusione del culto imperiale vengono da Falerii Novi (CIL XI, 3083, databile tra il 2 a.C. e il 14 d.C.; CIL XI, 3076, età augustea); da Lucus Feroniae, dove intorno al 31 d.C. è attestato per la prima volta l’uso della formula in honorem domus divinae (AE 1978, n. 295). Il fatto che la diffusione del culto imperiale in agro falisco-capenate avvenga praticamente negli stessi anni che a Roma, sembra legato anche ai rapporti che legarono Augusto e la dinastia giulio-claudia a questo territorio. Dopo Anzio veterani di Ottaviano ottennero terre nell’Etruria meridionale, lungo il corso del Tevere, e non è un caso che l’Augusteo di Lucus Feroniae, l’unico in Etruria meridionale, che sia noto, oltre che epigraficamente, anche attraverso i suoi resti, sia stato eretto tra il 14 e il 20 d.C. da due membri della gens senatoria, filoagustea, dei Volusii Saturnini. Augusto stesso e membri della dinastia parteciparono direttamente alla vita civile dei centri della regione: Augusto fu pater municipii a Falerii Novi, Tiberio e Druso Maggiore furono patroni della colonia a Lucus Feroniae, tra l’11 e il 9 a.C. Inoltre la presenza, nel territorio capenate, di liberti imperiali incaricati dell’amministrazione del patrimonio dell’imperatore, fa pensare all’esistenza di fundi imperiali. La documentazione di età imperiale è costituita, inoltre, da una serie di iscrizioni che difficilmente possono farci risalire a specifici luoghi di culto, e dalle quali, in molti casi, si evince soprattutto una richiesta di salute e di fertilità alla divinità, come avveniva in età repubblicana, tra il IV e il II sec. a.C., attraverso l’offerta nei santuari di votivi anatomici. Sono note anche alcune attestazioni di culti orientali (Mater Deum e Iside, anche associate, da Falerii Novi e dal suo territorio; una dedica alla Mater Deum da Nazzano, in territorio capenate), che rientrano nell’ambito della devozione privata, tranne nel caso del sacerdozio di Iside a Mater Deum attestato a Falerii Novi.4252 13853 - PublicationIl cyberpunk in Italia: testimonianze letterarie e linguaggi mediatici(Università degli studi di Trieste, 2009-02-27)
;Incarico, IreneGuagnini, ElvioIl cyberpunk è un movimento nato negli anni Ottanta tra Stati Uniti e Canada come risposta rivoluzionaria alla situazione stagnante della fantascienza americana. Il suo stretto legame con le novità della scienza, dalla cibernetica militare alla pirateria informatica, la sua estetica tesa verso il post-apocalittico e il post-umano e la sua carica innovativa stilistico-linguistica faranno di questa corrente letteraria una vera e propria rivoluzione pop che finirà per penetrare ogni campo mediatico, dal cinema alla musica, dalle arti visive all’intrattenimento fino ad arrivare alla moda e alle manifestazioni culturali. E in Italia? È esistito anche un cyberpunk italiano? La risposta è si. Un si che si avvale di numerose testimonianze letterarie e culturali. Sicuramente tardivo, talvolta di dubbia qualità e spesso carente in originalità, il cyberpunk italiano nasce e si afferma costantemente sospeso tra imitazione e innovazione, contaminazione e plagio, recupero avanguardistico e omaggio. Ma non è scevro di opere interessanti, sia per il loro valore intrinseco, sia per la loro capacità di aiutarci a comprendere paure e desideri della nostra epoca.2870 16703 - Publication"Il bene e il male quando vengono piovono": paradossi, antinomie e ossimori nella narrativa di Fulvio Tomizza (1935-1999)(Università degli studi di Trieste, 2009-02-27)
;Moretto, MartaGuagnini, ElvioLo scrittore istriano Fulvio Tomizza (1935-1999) ha proposto, attraverso i titoli composti nei quarant'anni della sua carriera e afferenti a generi letterari diversi, un'attenta analisi del problema della "conciliazione" nell'ambito dei rapporti intertnici e interculturali con particolare riferimento all'area adriatica e balcanico danubiana. Attraverso l'uso di ossimori, antinomie e paradossi, presenti nei testi a livello formale e contenutistico, lo scrittore ha concretizzato nella struttura narrativa delle proprie produzioni l'evolversi della sua teoresi in merito al problema stesso della "conciliazione". Un'analisi delle diverse tipologie di "figure retoriche della conciliazione degli opposti" offre, pertanto, la possibilità di delineare lo sviluppo delle indagini tomizziane.1226 4265 - PublicationIl comparto nord orientale del Friuli Venezia Giulia tra Neolitico e Bronzo antico: aspetti di viabilità e di economia pastorale(Università degli studi di Trieste, 2009-04-20)
;Boscarol, Chiara ;Montagnari, EmanuelaZbona Trkman, BeatriceStudio multidisciplinare della viabilità e della pastorizia nel comparto nord-orientale del Friuli Venezia Giulia durante la Preistoria recente.1600 10422 - PublicationIl culto di Ercole lungo la Via Salaria(Università degli studi di Trieste, 2009-04-20)
;Tripaldi, Luca ;Fontana, Federica ;Fontana, FedericaBandelli, GinoNella presente tesi di dottorato è stato affrontato lo studio del culto di Ercole lungo la via Salaria, una delle più antiche vie romane, utilizzata per il trasporto del sale da Roma in Sabina. La via, dipartendosi dal Foro Boario, sede dell’ancestrale luogo di culto erculeo dell’Ara Massima, raggiungeva la costa adriatica dopo aver attraversato la Sabina, il Piceno e il territorio pretuzio. Nel corso del lavoro sono state quindi raccolte e analizzate tutte le testimonianze archeologiche ed epigrafiche della devozione ad Ercole provenienti dai centri e dai territori toccati dalla direttrice viaria. Un capitolo è stato inoltre dedicato all’approfondimento del culto di Ercole all’Ara Massima, vista la sua posizione nel Foro Boario, punto di partenza della via Salaria. Nonostante non sia stato possibile individuare tracce evidenti del rapporto tra culto del dio e commercio e distribuzione del sale lungo il percorso della Salaria, va comunque ricordato il rinvenimento di un bronzetto raffigurante Ercole presso Tortoreto, nell’area della chiesa di S. Angelo in Salino, edificio che, come sembra deducibile dal toponimo, doveva sorgere in prossimità di giacimenti salini. Il presente lavoro ha poi permesso di accertare come, lungo la via, il culto del dio clavigero sia attestato principalmente nei territori di Rieti e di Amiternum (L’Aquila) e nell’ager Praetuttianus (odierno Teramano), più precisamente lungo il ramo della Salaria che, staccandosi da Antrodoco, raggiungeva la conca aquilana e il Teramano. Le testimonianze archeologiche ed epigrafiche del culto provengono in gran parte da aree extraurbane; pochi sono i casi di documenti rinvenuti nei centri urbani. In particolare, i santuari, dedicati ad Ercole o nei quali è documentata la presenza del dio, ed i templi erculei sorgono quasi esclusivamente in contesti rurali, lungo il tracciato principale della Salaria oppure lungo i suoi diverticoli. Un altro dato di particolare interesse che si è potuto ricavare dalla documentazione analizzata è stato quello del rapporto topografico tra templi di Ercole e insediamenti vicani: laddove è stato possibile accertare la presenza di un’aedes dedicata al dio, questa sorgeva all’interno o in prossimità di un vicus. Da un’analisi approfondita dei dati raccolti è emersa infine la coerenza cronologica delle attestazioni del culto, in gran parte databili in epoca repubblicana, che sembra mostrare come il culto del dio abbia vissuto il suo momento di massima diffusione proprio in questa fase.2848 5562 - PublicationStudio archeometrico di asce in pietra levigata provenienti dal Caput Adriae(Università degli studi di Trieste, 2009-04-20)
;Bernardini, Federico ;Montagnari, Emanuela ;Veluscek, AntonPrincivalle, FrancescoSono stati studiati manufatti in pietra levigata – soprattutto lame d’ascia e asce forate – riferibili al Neolitico e all’età del Rame, scoperti nel Caput Adriae e nelle aree limitrofe (principalmente Friuli, Carso, Istria e Palude di Lubiana). Alcune ricerche preliminari hanno indicato un drastico cambio di materie prime tra Neolitico ed età del Rame, principalmente HP metaofioliti affioranti in Italia nord-occidentale per lame d’ascia neolitiche e altre litologie metamorfiche, di provenienza non ben precisata ma genericamente alpino-orientale o balcanica, per le asce forate dell’età del Rame. Sulla base di queste indicazioni è stato redatto un progetto di ricerca volto a raccogliere dati utili per ricostruire l’evoluzione culturale e dei sistemi di scambio attivi nel Caput Adriae durante la preistoria recente e per cercare di comprendere le cause di eventuali interruzioni o sviluppi significativi. Nel primo capitolo vengono esposti i criteri morfo-metrici e tecnologici adottati per la descrizione dei reperti attraverso un sistema di schedatura e le metodologie analitiche più utilizzate. In quello successivo, dedicato al contesto archeologico, viene riassunto lo stato delle conoscenze per quanto concerne le evidenze archeologiche e lo sviluppo culturale delle varie aree incluse nel progetto per un arco cronologico compreso tra Neolitico ed età del Rame. Segue un capitolo dedicato alla descrizione tipologica e alla caratterizzazione dei manufatti in pietra levigata, suddivisi per cronologia. Tra i materiali neolitici del Friuli prevalgono le industrie costituite da HP metaofioliti – soprattutto giade ed eclogiti –. Reperti dello stesso tipo sono piuttosto comuni anche nelle grotte del Carso, in Istria e nelle isole del Quarnero, mentre il loro numero si riduce drasticamente in Slovenia centrale dove essi appaiono per la prima volta appena nel IV millennio a.C.. In questo periodo nei siti del Ljubljansko barje le lame d’ascia sono tuttavia in gran parte fabbricate con rocce piroclastiche. Le asce forate, nella gran parte dei casi riferibili con sicurezza all’età del Rame, sono costituite principalmente da tre litologie d’importazione: serpentiniti, diffuse soprattutto nella parte settentrionale del Caput Adriae; metaultramafiti anfibolico-cloritiche-pirosseniche, comuni nel Ljubljansko barje e nel Carso; doleriti parzialmente ricristallizzate, particolarmente numerose in Istria e nella Slovenia meridionale. Nel quarto capitolo, sulla base dei dati emersi dalla caratterizzazione dei manufatti, vengono prese in considerazioni le possibili fonti di approvvigionamento, sia sulla base della letteratura, sia su quella del lavoro effettuato in campagna. Nel tentativo di identificare l’area di provenienza delle serpentiniti sono stati campionati i principali affioramenti di queste rocce in Slovenia (Pohorje) e in varie regioni austriache (Carinzia, Stiria, Salisburghese, Tirolo Orientale e Burgenland). Grazie al confronto dei dati emersi dalla caratterizzazione dei manufatti con quelli relativi alle possibili zone sorgenti – nel quinto capitolo – è stato possibile definire la più probabile zona di provenienza della gran parte dei materiali importati: 1) i manufatti in HP metaofioliti sono costituiti da rocce provenienti da depositi del Piemonte e della Liguria, come numerosi studi hanno già dimostrato; 2) le serpentiniti impiegate per la produzione delle asce forate trovano strette affinità in alcuni affioramenti degli Alti Tauri in Austria centrale; 3) l’area di approvvigionamento delle asce forate in dolerite dovrebbe corrispondere al Banija Ophiolite Complex, margine estremo settentrionale della Central Dinaric Opholitic Belt in Croazia; 4) non si è ancora proceduto a uno studio sistematico delle possibili zone sorgenti delle asce forate in metultramafite ma la distribuzione dei reperti suggerisce un’origine diversa da quella delle serpentiniti e più orientale, nell’ambito delle Alpi Orientali o forse altrove. Nel sesto capitolo i dati morfo-metrici e tecnologici dei manufatti, considerati nell’ambito di gruppi litologici distinti – vista l’importanza e il condizionamento delle proprietà delle rocce e della morfologia dei supporti –, sono stati considerati per verificare la possibilità di creare dei raggruppamenti tipologici significativi. In alcuni casi è stato possibile riconoscere dei tipi caratteristici di determinate fasi cronologiche e la loro evoluzione nel tempo. Gli elementi raccolti hanno permesso di evidenziare alcuni dei tratti fondamentali e di lungo periodo dei sistemi di scambio attivi nell’area del Caput Adriae tra VI e III millennio a.C.. Durante il Neolitico, a partire dalla cultura di Danilo/Vlaška, le aree costiere del Caput Adriae sono coinvolte in sistemi di scambio che le collegano soprattutto all’Italia settentrionale e all’attuale fascia costiera croata, mentre, allo stato attuale mancano del tutto prove certe di contatti con la Slovenia centrale, dove una cultura neolitica si afferma appena nella prima metà del V millennio a.C.. L’esistenza di questi circuiti di scambio è documentata dalla comune presenza di manufatti in HP metaofioliti, manufatti in ossidiana lipariota, in ossidiana carpatica, asce a cuneo da calzolaio – queste ultime due classi di materiali introdotte in Friuli e Carso probabilmente tramite la mediazione dalla costa Dalmata – e da manufatti ceramici, recipienti e oggetti cultuali. Nel corso dell’età del Rame – dal IV millennio a.C. – si assiste a una crescita della rilevanza strategica del Caput Adriae e forse alla sua prima costituzione nel senso di un territorio fortemente connotato come luogo di incontro e passaggio di elementi materiali e spirituali tra il modo europeo continentale e quello mediterraneo, fenomeno chiaramente indicato dall’origine delle asce forate e di altre classi di materiali. I dati archeometrici a disposizione per le asce forate in Italia settentrionale e nel Caput Adriae indicano che le aree di provenienza della materie prime corrispondono a fonti di approvvigionamento, in genere non troppo distanti, sconosciute o quasi durante il Neolitico. Le ragioni di questo netto cambiamento, già messo in evidenza da altri studiosi, vanno probabilmente ricondotte a un insieme complesso di fattori, non facilmente definibili. Una possibile chiave interpretativa è suggerita dal tipo di materie prime sfruttate per la manifattura delle asce forate. Si tratta infatti di rocce affioranti in complessi ofiolitici ricchi di mineralizzazioni di rame. La corrispondenza tra le fonti di approvvigionamento delle materie prime usate per la produzione di asce forate e aree ricche di depositi di rame, sfruttate da momenti diversi della tarda preistoria, potrebbe non essere casuale. L’adozione di martelli litici, spesso fatti di rocce doleritiche o altre litologie magmatiche, la cui presenza è registrata in siti minerari dell’età del Rame, implica una ricerca delle materie prime litiche più dure e adatte all’attività di estrazione mineraria. La conoscenza delle proprietà tecniche delle rocce, acquisita empiricamente in un contesto di esplorazione e sfruttamento delle risorse di rame, potrebbe essere dunque stata applicata anche nella produzione di asce forate.2425 9521 - PublicationLuoghi di culto nelle città portuali delle regiones V e VI dell'Italia augustea(Università degli studi di Trieste, 2009-04-20)
;Capriotti, Tiziana ;Fontana, Federica ;Fontana, FedericaBandelli, GinoIl lavoro di ricerca che ha inteso concentrarsi sugli aspetti religiosi delle città portuali del medio Adriatico occidentale è strutturato in tre capitoli che seguono ad una breve introduzione sul mare Adriatico e sulle frequentazioni di genti allogene nell’antichità. Nel primo capitolo viene fatta una panoramica storica e topografica dell’area presa in esame, onde mettere in evidenza i meccanismi insediativi e le dinamiche socio-culturali della regione in cui dominano naturalmente gli abitati piceni, ma con significative presenze villanoviane. Viene offerta una rapida ma funzionale carrellata delle fasi determinanti del popolamento della regione, che offre testimonianze di grande rilievo storico-artistico soprattutto per il periodo orientalizzante (VII-VI secolo a.C.) e quindi per quello arcaico (V secolo a.C.), quando la grande emporìa attica ed eginetica frequenterà con costanza ed intensità le coste marchigiane, lasciando significative testimonianze ed invadendo dei propri prodotti artigianali anche l’entroterra. L’esposizione prosegue quindi soffermandosi sulla fase celtica e siracusana di IV secolo a.C. per approdare infine al III secolo a.C. quando Roma comparirà sullo scacchiere adriatico e la regione subirà una rapida e profonda romanizzazione. Il secondo capitolo costituisce il vero e proprio dossier delle fonti documentarie prese in esame in questa ricerca: attraverso un’esposizione che segue il criterio topografico da S a N vengono passate in rassegna tutte le città situate sulla costa medio adriatica attualmente comprese nelle regioni Marche e Abruzzo (settentrionale) e appartenenti alle regiones V (Picenum) e VI (Umbria) della suddivisione amministrativa augustea. Il confine meridionale è rappresentato dal fiume Salino mentre quello settentrionale dal fiume Foglia. In quest’arco di costa sono state individuate undici città provviste di apprestamenti portuali anche minimi che, pur non raggiungendo mai lo spessore di porti come Ancona e Numana (in età arcaica), svolsero comunque un ruolo fondamentale all’interno di un bacino come quello adriatico particolarmente insidioso per le esigenze della navigazione antica, che necessitava di tappe ravvicinate, raggiungibili nell’arco di ventiquattrore o poco più. Attraverso quest’emporìa “minore” i grandi vettori commerciali mediterranei entreranno in contatto con le popolazioni medio adriatiche determinandone inevitabilmente gli aspetti culturali, dei quali il fenomeno religioso è il più significativo. Queste città sono state trattate attraverso una preliminare storia del sito, per passare poi ad un’analisi delle testimonianze di carattere religioso attestate per il sito medesimo. Nell’ultimo capitolo si propone un quadro d’insieme del fenomeno religioso nell’area esaminata, attraverso un’analisi approfondita dei culti principali (in base all’abbondanza delle testimonianze raccolte nel capitolo precedente), dei quali si indaga il contesto e le forme del culto stesso, avanzando qualora possibile, proposte sull’ubicazione del luogo di culto (Cupra, Fortuna) oppure sull’identità della divinità venerata (Afrodite Akráia ad Ancona), approdando a soluzioni abbastanza persuasive. Segue la raccolta bibliografica aggiornata.2037 13777 - PublicationMonete dalle terme pubbliche di Tadinum - Gualdo Tadino (PG)(Università degli studi di Trieste, 2009-04-20)
;Ranucci, Samuele ;Callegher, Bruno ;Callegher, BrunoGorini, GiovanniLo studio dei ritrovamenti monetali dalle terme pubbliche del municipio romano di Tadinum (Gualdo Tadino, Perugia) è introdotto da un capitolo, di natura storica e topografica, riguardante il sito e gli edifici messi in luce dai recenti scavi effettuati nell’area dall’Università degli Studi di Perugia. La documentazione numismatica già nota per il sito è descritta prima dei rinvenimenti oggetto di studio e risulta suddivisa in tre nuclei principali: le monete dagli scavi Borgia del 1750, la collezione municipale ed il ripostiglio rinvenuto in località Grello (99 denari imperiali). I successivi capitoli che precedono il catalogo, riguardano le monete dalle campagne di scavo 2004 e 2005 dell’edificio termale. Il complesso monetale è costituito in gran parte da singoli ritrovamenti che coprono un arco cronologico molto ampio, dalla fine del III secolo a.C. alla prima metà del V secolo d.C. L’epoca repubblicana ed i primi tre secoli dell’impero sono rappresentati da pochi esemplari, mentre il IV e la prima metà del V secolo presentano una documentazione molto abbondante. Due i ritrovamenti di più monete associate tra loro: nel primo caso si tratta di un gruppo di esemplari rinvenuti in una ristretta area dell’edificio per i quali si ipotizza la provenienza da un borsellino o ripostiglio di IV sec. d.C., tentandone la ricostruzione; nel secondo caso non sussistono dubbi circa l’attribuzione ad un borsellino di 87 monete e frammenti di monete di bronzo databili entro la metà del V secolo d.C. Questo gruzzolo presentava, al momento del rinvenimento, la forma del sacchetto che aveva contenuto le monete. L’osservazione delle fibre tessili mineralizzate che si conservavano sulla superficie dei piccoli bronzi ha permesso, grazie alla collaborazione con la Soprintendenza Archeologica di Roma e l’Istituto Centrale per il Restauro, di chiarire la natura del contenitore che viene descritta prima dell’analisi delle monete e dei confronti con altri rinvenimenti. I mezzi e le metodiche utilizzate dallo scrivente nel lavoro di restauro, conservazione e fotografia delle monete (in tutto 1180 esemplari), sono descritti nel capitolo 4, prima di procedere all’analisi dei singoli ritrovamenti. Questi sono trattati per categorie ed in ordine cronologico, seguendo, per il IV e V secolo, la suddivisione dettata dalle principali riforme monetarie. Gli aspetti caratteristici, come la presenza più o meno marcata di alcuni tipi monetali e l’attestazione delle diverse zecche per il tardo Impero, sono esemplificati in grafici e tabelle. L’analisi del complesso monetale è corredata di confronti con altri siti umbri, etruschi e sabini prossimi a Tadinum. Il confronto è allargato, per il IV e V secolo, ad un territorio più ampio, lungo il principale asse viario della regione: la via Flaminia, che attraversa l’area della città romana e lambisce l’edificio termale. Il quadro della circolazione monetale nel municipio romano è, quindi, delineato e commentato per i vari periodi. Nel capitolo conclusivo sono richiamati gli elementi caratteristici del lotto. Segue il catalogo di tutti gli esemplari leggibili e l’elenco di quelli illeggibili per i quali si fornisce una indicazione cronologica sulla base del modulo. Il contesto di rinvenimento delle monete nello scavo, al quale si fa riferimento, quando necessario, nei capitoli di commento, è esemplificato nelle tabelle che elencano gli esemplari suddivisi per unità stratigrafiche. Seguono, infine, la bibliografia e le tavole. In queste ultime sono riprodotti, a grandezza naturale, tutti gli esemplari identificabili con l’eccezione delle monete che componevano il borsellino di V secolo per le quali si fornisce un ingrandimento. Altre immagini sono riprodotte, ove necessario, nel testo.538 1876 - PublicationI KOINA' di Rodi(Università degli studi di Trieste, 2009-04-21)
;Benincampi, Luisa ;Faraguna, Michele ;Faraguna, MicheleCoarelli, FilippoL’isola di Rodi, dal sinecismo (408/7 a. C.) in poi, attraversa fasi politiche alterne e turbolente, rappresentate dall’avvicendarsi al potere ora del partito democratico ora di quello oligarchico, fino allo stabilizzarsi, in età ellenistica, di un governo democratico nelle istituzioni, ma oligarchico nella configurazione dei rapporti di potere: un’apparente contraddizione riconoscibile nella gestione della cosa pubblica da parte dalle famiglie aristocratiche più ricche e potenti dell’isola, che, quasi “ereditariamente”, ricoprono le cariche pubbliche di maggior prestigio (i sacerdozi eponimi di Halios, Athana Ialysia, Athana Lindia; il demiurgato a Kameiros; la navarchia, la pritania, etc.). Altro aspetto, probante della coesistenza delle due tendenze politiche, è il trattamento del territorio: in esso, accanto alla suddivisione in demi tipicamente democratica, si conservano le antiche partizioni territoriali, come le ktoinai, e i raggruppamenti di evidente natura aristocratica, quali synnomai e diagoniai, la cui funzione era quella di mantenere saldi i legami fra gene un tempo uniti anche nel territorio e ora distribuiti nei vari demi del’isola (tale esigenza si riscontra anche nel ricorso frequentissimo all’adozione, talvolta usata per trasferire membri della stessa famiglia da un demo all’altro, probabilmente al duplice scopo di aggirare le regole di rotazione per l’elezione alle cariche pubbliche e di mantenere, ereditando, la proprietà dei beni di famiglia). L’equilibrio, esistente tra conservatorismo e apertura politica, si riscontra soprattutto nella conformazione della compagine sociale di Rodi: oltre ai cittadini con pieni diritti troviamo moltissimi stranieri residenti (e di passaggio), considerati secondo classificazioni differenti e spesso tanto sfumate da rendere complicatissima l’individuazione delle differenze sostanziali. Tra gli status sociali degli stranieri, oltre alla metoikia, ricordiamo l’epidamia (associata talvolta alla concessione straordinaria del diritto di enktesis ges kai oikias), in virtù della quale i beneficiari, residenti a tutti gli effetti, garantivano la naturalizzazione in Rhodioi ai propri discendenti (da non confondere con i Rhodioi, cittadini con pieni diritti, che, per il loro mestiere di artisti, preferivano identificarsi con l’etnico anziché con il demotico per ottenere fama e visibilità anche oltre i confini dell’isola). L’elaborazione della complessa (e molto mobile) stratificazione sociale riservata agli stranieri, entro cui essi, se meritevoli, guadagnavano diritti sempre maggiori, si rivela una strategia vincente al fine di alimentare la potenza economica e politica di Rodi, attirando commercianti e manodopera straniera, il cui contributo incrementava, tramite il mercenariato, la forza dell’esercito di terra (stanziato nei territori della Perea) e la marina, impegnata nella difesa delle acque del Mediterraneo contro i pirati. Inoltre una politica di apertura allo straniero favoriva il consolidamento delle relazioni internazionali e, dunque, la centralità dell’isola in tema di traffici e scambi commerciali (Rodi fino al 167 a. C. restò il portofranco più importante del Mediterraneo, il punto di snodo centrale dei commerci tra Occidente e Oriente). In questo contesto di floridezza economica e benessere sociale, all’interno del quale gli stranieri capaci potevano conquistare posizioni di prestigio, si sviluppa in proporzioni eccezionali – uniche per il mondo antico – il fenomeno associativo, attestato dalle fonti epigrafiche a partire dalla fine del IV sec. a. C. Il fenomeno in sé è conosciuto e diffuso in tutto il Mediterraneo antico, in particolare nelle poleis (come Atene, Delo, Alessandria) la cui funzione di porto commerciale attirava folti gruppi di stranieri, ma esso assume a Rodi dimensioni senza confronti: nell’isola e nei territori della sua Perea è documentata la presenza, allo stato attuale dei rinvenimenti, di circa duecento koinà. La maggior parte di essi è rappresentata da associazioni di tipo “eranos”, ovvero gruppi organizzati e di carattere stabile, i cui affiliati, accanto ai cittadini, erano principalmente stranieri (epidamoi, meteci, schiavi) provenienti dai più importanti empori del Mediterraneo e dell’Egeo. Gli eranoi, i cui nomi derivano sostanzialmente da teonimi (in molti casi sono attestati nomi multipli) e da fondatori, presidenti o riformatori, avevano una struttura interna molto articolata, basata sul modello della polis: le cariche interne di presidente, tesoriere, vari archontes, epistati e di segretario venivano annualmente rinnovate dall’Assemblea di tutti i membri dell’associazione che approvava anche l’accettazione stessa di nuovi affiliati, previa constatazione delle qualità morali del candidato e giuramento sullo statuto del koinon. Una volta accolto, il nuovo iscritto doveva versare una quota fissa in denaro secondo le scadenze stabilite e, occasionalmente, era chiamato a partecipare volontariamente a sottoscrizioni, promosse dall’associazione, per coprire le necessità o le emergenze economiche del proprio eranos di appartenenza (i motivi potevano essere i più vari: dal bisogno di liquidità per l’acquisto o la ristrutturazione di sedi e spazi comunitari all’allestimento di adeguate onoranze funebri per soci di spicco; la sottoscrizione volontaria era un sistema, praticato anche dalla polis, per fronteggiare spese improvvise di qualsiasi tipo); naturalmente il denaro donato, secondo le possibilità di ciascuno, non era reso, bensì dato a titolo di doreà. Spesso la composizione dell’associazione era mista, ovvero vi partecipavano sia stranieri residenti che cittadini; il koinon, secondo la legge della polis, diversamente dagli stranieri in quanto singoli, aveva il diritto di acquistare beni immobili come case (ad uso di sede), terreni ove intraprendere attività agricole o edifici ad uso commerciale, purché i guadagni ricavati costituissero capitale sociale e non individuale; ancora, molte associazioni, specialmente quelle con un gran numero di affiliati, possedevano spazi circoscritti nelle necropoli dove seppellire i propri soci e dove celebrare vere e proprie festività di carattere funerario. La maggior parte delle iscrizioni in nostro possesso rivelano che una delle attività fondamentali dei koinà era quella onoraria, ovvero la possibilità di decretare onori ufficiali a cittadini importanti o membri del gruppo per le occasioni più varie; tale partecipazione consisteva nell’acquisto di corone e nella collocazione di stele onorarie a spese dell’associazione. Tale consuetudine, quando destinata a politici di spicco (non necessariamente affiliati dell’associazione), rivela uno stretto legame esistente tra le associazioni private e la polis, entrambe le quali traevano reciprocamente grandi vantaggi sia di natura economica che in termini di visibilità sociale. Gli eranoi, a differenza degli altri tipi di associazione (come quelle dei veterani, dei giovani legati al ginnasio, dei gene, dei magistrati o dei sacerdoti) disponevano di capitali ingenti, provenienti sia da quote associative e donazioni che dagli introiti delle attività esercitate in comunità; essi rappresentavano dunque una garanzia di ricchezza e protezione sia per gli affiliati (spesso appunto stranieri che, diversamente, non avrebbero potuto investire in beni immobili né conquistare ruoli importanti i società) che per la polis, la quale beneficiava della loro prosperità non soltanto in termini finanziari - se si pensa, ad esempio, ai contributi privati delle associazioni per la costruzione di edifici pubblici o per l’allestimento di festività che chiamavano commercianti da tutto il Mediterraneo – ma anche in vista di rapporti politici con altre città, che avrebbero accordato la loro preferenza a Rodi sotto l’aspetto commerciale, garantendole un continuo afflusso di ricchezza e il sostegno per il mantenimento di una politica di neutralità. Concludendo, il fenomeno associativo rodio, oltre alle conseguenze più evidenti legate ai risvolti economici, deve la sua ampia diffusione a molti altri fattori, primi fra tutti al rapporto di stretta reciprocità e collaborazione con la polis e alla sua versatilità nel rendersi parte integrante e necessaria della società rodia; i koinà non erano comunità indipendenti o estranee alla compagine sociale i cui interessi rimanevano “privati” e limitati ai soli soci, bensì il collante tra cittadini e stranieri che creava una forte osmosi da cui tutti, polis compresa, traevano vantaggi di ogni tipo.2219 7292 - PublicationScultori italiani alle esposizioni universali di Parigi : aspettative, successi e delusioni(Università degli studi di Trieste, 2009-04-21)
;Gardonio, Matteo ;Degrassi, Massimo ;Stringa, NicoSereni, UmbertoLa ricerca si prefigge lo scopo di fare chiarezza sulla presenza degli scultori italiani alle esposizioni universali di Parigi tra il 1855 ed il 1889. La tesi vuole mettere in evidenza non solo delle dinamiche prettamente storico-artistiche ma portare alla luce i diversi contesti storico-sociali nei quali essi agivano.1851 27981