Scienze giuridiche
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- PublicationIl diritto penale europeo a tutela dell'ambiente(Università degli studi di Trieste, 2010-04-16)
;Campeis, Carlotta ;Pittaro, PaoloPittaro, PaoloLo studio si prefigge di indagare come la produzione normativa comunitaria abbia influenzato il diritto penale nazionale fino a delineare i tratti di un diritto penale di matrice europea. Ai fini dell’individuazione dei rapporti intercorrenti tra i due sistemi, è stata prescelta come chiave di lettura trasversale la materia ambientale. L’introduzione mira a porre le basi dell’analisi, ripercorrendo, seppur in forma riassuntiva le tappe dell’evoluzione dell’Unione europea, sotto il profilo del progressivo ampliamento delle finalità e delle competenze della stessa: nata con finalità prevalentemente economiche, quali la creazione di un mercato unico diretto alla libera circolazione delle merci, delle persone e capitali, l’Unione espanse le sue competenze verso la creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, inaugurando nuove forme di cooperazione, prefissandosi finalità politiche generali e servendosi per questi fini di un solido quadro istituzionale. Al progresso economico e sociale, alla creazione di uno spazio senza frontiere interne ed ad un’unione monetaria si affiancò la prospettiva di una politica estera di sicurezza e di difesa comune, di una tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini dei suoi Stati membri, mediante una cittadinanza comune dell’Unione, nonché di una cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni. A fianco delle politiche comunitarie (primo pilastro) attuate per mezzo di una cessione di sovranità dei singoli Stati a vantaggio delle Istituzioni europee, sorsero nuove forme di cooperazione, di natura intergovernativa, in materia di politica estera e di sicurezza comune (secondo pilastro) e di giustizia e affari interni (terzo pilastro), poi mutata in cooperazione di polizia giudiziaria in materia penale. La nascita e l’espansione delle Comunità Europee fece emergere, svilupparsi ed affermarsi una serie di beni giuridici meritevoli di tutela su più livelli, a carattere nazionale e sovranazionale. Se ne distinguono principalmente due categorie: i beni “istituzionali”, c.d. comunitari, strettamente funzionali all’esistenza dell’Unione ed allo svolgimento dei compiti ad essa connessi, ed i beni “satellite” rispetto ai precedenti, c.d. di estensione comunitaria, originariamente tutelati dagli ordinamenti nazionali e solo recentemente attratti nei piani di tutela comunitaria, con la caratteristica di essere beni “normativi” e connessi ad un sistema giuridico di riferimento ma destinatari di una tutela integrata da parte del diritto comunitario derivato. Trova poi posto una nuova categoria di beni, nascenti dalla regolamentazione comunitaria e comprendente i diritti derivanti dalla cittadinanza comunitaria, il diritto di circolazione e soggiorno, nonché la tutela del consumatore e dell’ambiente. La domanda di tutela dei beni di rilevanza comunitaria si trasforma inevitabilmente in una richiesta di intervento effettivo che comprende, in base ad una valutazione qualitativa, di sussidiarietà, di meritevolezza della pena e di necessità della stessa, anche ipotesi di tutela penale. Infatti, la “necessità di pena” in queste ipotesi deve essere intesa quale necessità di pena sovranazionale, ai fini di evitare un inefficace e disarmonico intervento rimesso agli Stati. Un tanto ha portato nel corso degli anni ad una europeizzazione dei diritti penali nazionali, vincolando le scelte dei legislatori interni in ordine ai comportamenti da sanzionare, alla natura ed alla misura della sanzione, nonché alla prospettiva di un diritto penale europeo, che conferisse all’Unione, e poi anche alla Comunità, un effettivo e diretto potere di intervento. Ne è esempio il bene ambiente che si caratterizza per una significativa “bidimensionalità”, possedendo rilevanza nazionale e sovranazionale e rientrando peraltro tra quei beni di rilevanza comunitaria per cui si richiede una efficace ed uniforme tutela. L’interesse giuridico in questa direzione si rinviene nella comunanza dei tipi di condotte illecite che pongono in pericolo o ledono il bene giuridico tutelato. Tali condotte sono la fonte dei c.d. spillowers o effetti transnazionali, eventi in senso naturalistico o giuridico che si riverberano all’interno dei paesi della Comunità Europea, senza che operino barriere politico-geografiche di sorta. Le conseguenze fisiche ed economiche che una tale criminalità transnazionale porta con sè rende necessario un intervento comunitario, non risultando invece efficace né possibile l’intervento del singolo Stato membro. E’ per tali motivi che il diritto ambientale ha avuto anche storicamente una dimensione in primis internazionale ed europea e solo successivamente nazionale. La tutela ambientale ha rappresentato una costante dell’azione della Comunità che ha consentito una progressione verso la normativizzazione in materia ambientale, inizialmente attraverso convenzioni, decisioni quadro, regolamenti e direttive, poi in misura sempre più vincolante a livello dei Trattati, divenendo con il Trattato di Maastricht politica fondamentale dell’Unione e con Amsterdam un valore autonomo, indipendente dalle scelte economiche. L’interesse crescente a livello europeo e comunitario ha contribuito all’implementazione e all’armonizzazione delle normative nazionali, destinatarie degli impulsi di sensibilizzazione e di orientamento verso obiettivi comuni di tutela. La normativa interna ne ha subito gli influssi, presentando fattispecie costruite tramite il rinvio, in forma definitoria o di completamento, di norme extrapenali di derivazione comunitaria. Un tale meccanismo normativo, pur consentendo un agevole mutamento della norma penale, ha posto di fronte a problemi interpretativi e di legittimità costituzionale, le Corti nazionali ed europee. L’influenza comunitaria si è fatta ancora più evidente nella misura in cui le Istituzioni europee hanno formulato una specifica domanda di criminalizzazione, nella formulazione del precetto e della sanzione, aprendo il varco alla prospettiva di un vero e proprio diritto penale europeo. Sotto queste premesse, il primo capitolo si propone di indagare se, nonostante l’assenza di un’affermazione sulla potestà punitiva comunitaria possa esistere un’influenza dell’attività normativa delle Istituzioni europee nella formazione del precetto e della sanzione penale. Si prendono le mosse dall’attività di una cooperazione giudiziaria in materia penale”, attuata attraverso “posizioni comuni” ed “azioni comuni” e la cooperazione in materia penale, nell’ambito, c.d. Terzo pilastro, che, seppure distinto da quello propriamente comunitario, rientra a pieno titolo nelle competenze dell’Unione europea. Gli strumenti del terzo pilastro sono espressivi di un sistema misto, lasciando ad ogni singolo Stato un ulteriore livello di discrezionalità sia nella fase della firma e della ratifica, con riserve o eccezioni, sia nella fase successiva alla sua adesione, consentendo la scelta di mezzi funzionali al raggiungimento del risultato, e rispettando così il principio di riserva di legge e di sovranità nazionale. Ma gli strumenti utilizzati, la mancanza di diretta efficacia degli stessi, la discrezionalità nella fase attuativa e il carattere facoltativo della competenza pregiudiziale della Corte di Giustizia, hanno reso progressivamente necessario, o quantomeno auspicabile, nelle materie comunitarie in senso proprio, un intervento più cogente, con capacità di penetrazione nell’ordinamento interno e prerogative giurisdizionali affidate alla Corte di Giustizia, azionabile solo con gli strumenti del primo pilastro. Si ripercorrono, dunque, le tappe essenziali in base alle quali viene affermato e riconosciuto il principio di prevalenza dell’ordinamento comunitario, al quale, neppure il diritto penale, con la sua forza di resistenza, risulta impermeabile. Si è di fronte a due ordinamenti coordinati ma autonomi e separati per cui l’ordinamento comunitario è considerato come integrato negli ordinamenti giuridici degli Stati membri, con la conseguente impossibilità per gli Stati membri di far prevalere contro un ordinamento giuridico da essi accettato a condizione di reciprocità, un provvedimento unilaterale ulteriore. Vi è dunque una modifica de facto dell’assetto costituzionale delle fonti del diritto, risultando una ritrazione degli ambiti normativi di pertinenza dell’ordinamento interno ed una contestuale affermazione di alcuni ambiti propri invece dell’ordinamento comunitario. La prevalenza del diritto comunitario deve però conciliarsi con il principio di legalità in quanto la valenza garantistica del principio, derivante dall’attribuzione all’organo democraticamente eletto del potere di individuare le condotte da sottoporre a pena, non risulta adeguatamente rispettata dall’attribuzione di una potestà penale ad un’entità, quale la Comunità, il cui assetto istituzionale ed operativo non soddisfa a pieno i criteri di democraticità e rappresentatività che tale potestà esige. Dal punto di vista nazionale, il mancato rispetto del principio di legalità, sotto l’aspetto della riserva di legge e di quello della determinatezza si pone come ostacolo primo all’applicazione diretta delle norme comunitarie al fine di comminare una sanzione penale: la potestà punitiva è sempre stata soggetta al rispetto dei limiti del principio di legalità nelle forme della riserva di legge e tassatività e non può cedere neppure di fronte agli interventi normativi diretti o riflessi della Comunità. La conclusione che sembra soddisfare tutte le istanze e conciliare le problematiche nascenti dall’incontro dei due sistemi punitivi, deve ricercarsi in una tutela mediata degli interessi, assicurata tramite l’intervento dell’apparato sanzionatorio degli Stati membri. Infatti, le fisiologiche lacune di tutela dell’ordinamento comunitario che appare sprovvisto di autonomi strumenti di tutela idonei ad assicurare il corretto funzionamento risultano colmate dal ricorso alle risorse sanzionatorie degli Stati membri che vengono chiamati a mettere il proprio sistema giuridico al servizio delle esigenze di tutela degli interessi dell’ente sovranazionale. Il diritto penale subisce, dunque, alla pari di tutti gli altri settori normativi, gli effetti scaturenti dal processo di integrazione europea fondanti sul principio di prevalenza e diretta efficacia del diritto comunitario. Allo stato attuale, ciò che può essere definito come diritto penale europeo, dunque, è caratterizzato “dall’incontro tra il principio di prevalenza del diritto comunitario e quello di riserva di legge del diritto penale, che determina un universo giuridico paradossale, composto per un verso da norme, quelle comunitarie, prevalenti ma incompetenti e per altro verso da altre norme, quelle penali nazionali, competenti in via esclusiva ma subordinate alle prime”. Ad una domanda espressa del diritto comunitario a tutela dei beni creati dalle sue attività, deve corrispondere un’offerta di tutela del legislatore nazionale, formando in tal modo un diritto penale comunitario risultante dalla stratificazione di più livelli normativi. Nonostante le problematiche sottese all’intervento penalistico, non si può negare come si sia attuata una progressiva armonizzazione delle sanzioni nel quadro europeo, in seno alle organizzazioni internazionali, nell’ambito del terzo pilastro e dunque, nella sede comunitaria. In questo ambito la prima armonizzazione è avvenuta ad opera dell’attività creatrice della giurisprudenza, e solo successivamente a livello normativo. La Corte ha incrementato la domanda di tutela fino a giungere, non solo alla richiesta di sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive ma anche di natura penale. La rivoluzionaria sentenza del 13 settembre 2005 ha legittimato, infatti, una competenza normativa comunitaria in materia penale, prevedendo la possibilità di una domanda esplicita di tutela penale per mezzo di direttive. L’assenza di una specifica indicazione in merito alla scelta del contenuto delle prescrizioni penali ha lasciato che si sviluppasse, in seno alla Commissione, l’idea che la Comunità potesse giungere fino ad indicare misura e specie delle sanzioni, vincolando il legislatore nazionale in limiti edittali predeterminati. E’ però la Corte di Giustizia, in una successiva statuizione a chiarire il punto e specificare che il contenuto delle direttive oltre a segnalare agli Stati l’opzione della tutela penale in talune materie di rilevanza comunitaria, ed a descrivere i requisiti costitutivi delle fattispecie incriminatrici, garantendo uno standard di tutela penale, non possa giungere a stabilire la tipologia delle sanzioni penali e i correlativi minimi e massimi edittali. Riassumendo la questione ai minimi termini si può affermare che l’Unione europea diviene definitivamente competente a svolgere il giudizio di necessità di pena, ma non ad esercitare la potestà punitiva, concezione accolta anche dal neonato Trattato di Lisbona. Il secondo capitolo si occupa quindi di indagare quale sia la risposta nazionale a fronte della domanda operata in sede comunitaria e dunque di delineare quali mutamenti operino a livello normativo penale. Si distingue a tal proposito tra l’influenza diretta e l’influenza riflessa. La prima consiste in quegli obblighi di criminalizzazione espressa a cui l’ordinamento ha dato ingresso solo recentemente al fine di tutelare beni ed interessi riconducibili alla Comunità europea, con provvedimenti vincolanti e precisi. L’attività normativa comunitaria così strutturata condurrebbe alla creazione di vere e proprie norme incriminatrici e disposizioni sanzionatorie di produzione sovranazionale direttamente applicabili nell’ordinamento interno. Si è già sottolineato come questo rappresenti però il punto più problematico, nell’affidare ad Istituzioni non democraticamente elette il potere punitivo, tradizionalmente detenuto dallo Stato nazionale. Si ritiene che possa ricomprendersi nell’influenza lato sensu diretta anche quell’attività normativa di natura comunitaria che si concretizza in obblighi di criminalizzazione, sia a livello del precetto che della sanzione, contenute in atti vincolanti, seppur non direttamente efficaci. Le ipotesi di influenza riflessa, invece, indicano tutte quelle interferenze che non sono perseguite come scopo primario dal diritto comunitario ma che ugualmente si producono, senza alcun intervento dei legislatori nazionali, in forza del normale incontro del diritto sovranazionale col diritto penale interno. Il fondamento dell’efficacia riflessa è da rinvenire nel principio di preminenza del diritto comunitario secondo cui “le disposizioni del Trattato e gli atti delle Istituzioni, qualora siano direttamente applicabili, hanno l’effetto, nei rapporti col diritto interno di rendere ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, nonchè di impedire la valida formazione di atti legislativi nazionali, nella misura in cui questi fossero incompatibili con norme comunitarie”. Spetterà, dunque, a qualsiasi giudice nazionale “applicare integralmente il diritto comunitario e tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, disapplicando le disposizioni eventualmente contrastanti della legge interna, sia anteriore, sia successiva alla norma comunitaria”. Il primo tipo di influenza riflessa del diritto comunitario è rappresentato dall’influenza c.d. interpretativa che, proprio in forza del principio del primato del diritto comunitario, comporta che il diritto interno debba essere interpretato conformemente alle fonti comunitarie: il giudice, dunque, ravvisato un contrasto tra norme nazionali e disposizioni comunitarie ha la facoltà di risolverlo, ricercando un’interpretazione comunitariamente conforme della norma nazionale senza giungere alla disapplicazione della stessa. Il secondo aspetto di incidenza riflessa del diritto comunitario sul diritto penale è da rinvenirsi negli elementi normativi della fattispecie. Vi è, infatti, l’ipotesi che le norme extrapenali che integrano la fattispecie punitiva nazionale siano norme comunitarie, antecedenti o successive alla norma nazionale: in tal modo la normativa interna subisce un processo di influenza comunitaria in forza della definizione degli elementi normativi da parte della norma sovranazionale. La normativa comunitaria, sostituendosi o integrando la normativa extrapenale richiamata ai fini definitori può determinare una diversa estensione dell’incriminazione. La forma maggiormente incisiva di influenza è operata in forza dell’integrazione ad opera della fonte comunitaria che, a fronte della tecnica del rinvio, completa con elementi specializzanti il precetto nazionale. Nell’ambito degli effetti riflessi del diritto comunitario, l’intervento maggiormente incisivo sul diritto interno è esercitato dall’influenza disapplicatrice, promanante da un’incompatibilità a livello normativo tra diritto interno e diritto comunitario. In forza del principio di prevalenza dell’ordinamento comunitario sull’ordinamento interno, è ormai consolidato che le norme interne, e, dunque, anche le fattispecie penali, debbano essere disapplicate se in contrasto con gli atti comunitari, dotati dei requisiti di efficacia diretta e di diretta applicabilità. In presenza di due norme contemporaneamente applicabili ed in contrasto tra di loro, il giudice nazionale dovrà procedere alla disapplicazione della norma interna contrastante così operando una vera e propria modifica dell’ambito del penalmente rilevante. La disapplicazione produce, pertanto, il risultato di riplasmare e comprimere in maniera significativa gli ambiti del penalmente rilevante. Il contrasto della norma interna può derivare dall’incompatibilità con norme o principi, espliciti o impliciti, a carattere generale, con fonte nel diritto comunitario primario, sia con disposizioni più o meno specifiche, contenute in atti di diritto comunitario derivato, quali regolamenti e direttive chiare, precise, dettagliate e incondizionate. La disapplicazione può coinvolgere il precetto o la relativa sanzione e può essere di carattere totale, causando un’integrale inapplicabilità della fattispecie, o parziale, comportando l’incompatibilità solo di alcune fattispecie o soluzioni sanzionatorie. Ed ancora, la disapplicazione può produrre effetti riduttivi o espansivi del penalmente rilevante: nel primo caso la norma sovranazionale che riconosce un diritto, una facoltà legittima al cittadino, opera come esimente, riducendo l’area di applicazione della fattispecie sanzionatoria, diversa è l’ipotesi in cui l’influenza, ancora discussa su tal punto dell’ordinamento comunitario, comporti un’espansione dei comportamenti penalmente rilevanti. Più problematici risultano quelli che autorevole dottrina definisce “conflitti triadici” ove una norma nazionale in attuazione di un principio comunitario sia sostituita da una successiva norma nazionale più favorevole ma in contrasto con gli obblighi comunitari. Il contrasto tra la norma comunitaria e la norma nazionale sopravvenuta ha come effetto, in queste ipotesi, di provocare l’applicazione di un’altra norma nazionale e non la diretta applicazione della norma comunitaria, sprovvista di effetti diretti. Il terzo capitolo giunge infine al fulcro del problema trattando la materia ambientale come il fil rouge che consente di ripercorrere l’evoluzione del diritto penale europeo ed indagare sulle prospettive di un possibile intervento penale da parte degli organi comunitari. L’intervento europeo, proprio per la trasversalità della materia ambientale, si è manifestato con differenti intensità: a seconda dello strumento normativo prescelto è variata la discrezionalità lasciata agli Stati nell’attuazione delle previsioni comunitarie. La normativa europea ha, quindi, interessato anche il diritto penale nazionale, nell’ambito della costruzione della fattispecie ambientale, operando in chiave sanzionatoria di condotte definite altrove. La fonte sovranazionale, sia pure a mezzo del legislatore nazionale, contribuisce a delineare il nucleo di disvalore della fattispecie, in particolare quella ambientale eterointegrata da fonti di natura tecnicistica, e pertanto costantemente soggetta ai mutamenti normativi ed alle indicazioni delle Istituzioni comunitarie. Un tanto ha condotto ben presto ad affrontare numerosi problemi interpretativi, di compatibilità tra norme così ad evidenziare la costante incidenza degli effetti riflessi esercitati dal diritto comunitario sul diritto nazionale. Infine, di primario interesse, anche in un’ottica de iure condendo, sono gli effetti diretti, progressivamente più incisivi, che a partire dal perseguimento della finalità di armonizzazione dei sistemi penali con gli strumenti del terzo pilastro, hanno aperto un varco ad un sistema di tutela rafforzato a livello strettamente comunitario degli illeciti connessi alla protezione dell’ambiente. Si può legittimamente affermare che i più significativi passi per un’armonizzazione dei diritti penali nazionali, e per la creazione di un diritto penale europeo abbiano riguardato proprio la materia ambientale. La questione ambientale, quindi, è divenuta non solo punto cruciale della politica economica, ma ha segnato il dibattito istituzionale sulle competenze dei pilastri comunitari e sull’eventuale legittimazione al ricorso degli strumenti comunitari anche in campo penale. Nell’ambito degli effetti che l’ordinamento comunitario ha esercitato nel diritto interno in materia ambientale, deve aversi riguardo alla complicata evoluzione normativa e giurisprudenziale della definizione di rifiuto, fulcro della specifica disciplina di settore e di numerosissimi atti normativi che ad essa rinviano o che la presuppongono. Infatti, proprio in tema di rifiuti, vi è stata una delle prime concretizzazioni dell’esigenza di armonizzazione in materia ambientale, dettata dalla potenziale attitudine offensiva degli stessi, nei confronti dell’ambiente e della salute umana, in assenza di un apparato normativo che consentisse di disciplinarne la gestione e lo smaltimento finale. La delimitazione dei confini della nozione di rifiuto si rivela particolarmente determinante in quanto condiziona e determina l’operatività di tutta la normativa in materia, nonché l’efficacia della stessa, risultando nozione di riferimento dell’intero sistema giuridico di protezione ambientale. Il concetto di rifiuto concorre alla determinazione dell’illiceità penale delle condotte, delimitando, nel suo espandersi e comprimersi, i confini della protezione, in campo amministrativo e penale, dei beni ambientali. Accanto al meccanismo di influenza riflessa, è da ravvisare come in materia ambientale si sia sviluppata l’evoluzione di un possibile diritto penale europeo, e dunque di una esplicita influenza dell’ordinamento sovrannazionale nelle scelte di criminalizzazione nazionali. L’occasione di contrasto deve rinvenirsi nell’annullamento da parte della Corte di Giustizia della decisione quadro, adottata dal Consiglio il 27 gennaio 2003, sul presupposto che la Comunità ha un potere di armonizzazione delle legislazioni penali degli Stati membri in tutte le materie nelle quali esista già una normativa comunitaria di settore extrapenale: i provvedimenti in materia penale possono pertanto essere adottati in ambito comunitario ove strumentali ad assicurare una maggiore efficacia alle politiche comunitarie. La competenza penale e la possibilità di istituire un espresso obbligo diretto di criminalizzazione comunitaria, si spostano dal terzo al primo pilastro in quelle materie di evidente interesse comunitario, quali appunto la tutela ambientale. L’argomento ha portata rivoluzionaria nella misura in cui indirettamente apre il varco al riconoscimento di una competenza “generale” della Comunità in funzione del ravvicinamento delle legislazioni di carattere penale, laddove questo miri all’effettività del diritto comunitario, minacciato da gravi violazioni. La decisione riconosce il potere alle Istituzioni comunitarie, sottraendolo ai settori di cooperazione intergovernativa, di obbligare gli Stati ad introdurre sanzioni penali armonizzate, proporzionali, effettive e dissuasive in risposta alle violazioni gravi delle proprie disposizioni. Non solo, dunque, viene riconosciuto alla Comunità un potere di incriminazione attraverso direttive, ma è altresì legittimato un ampio ricorso agli strumenti normativi del diritto comunitario classico, con un corrispondente ed inevitabile declino degli ambiti di operatività del terzo pilastro, per l’armonizzazione delle norme penali interne agli ordinamenti nazionali nelle materie rientranti nelle competenze comunitarie, provocando una conseguente comunitarizzazione delle misure volte a fissare gli elementi minimi delle fattispecie incriminatrici e delle correlative sanzioni. Pochi anni dopo la Corte ha ridimensionato in modo significativo il dictum della precedente statuizione, negando alla Comunità il potere di definire la tipologia e la misura delle pene attraverso atti normativi vincolanti: alle direttive compete la facoltà di obbligare gli Stati a garantire uno standard di tutela penale in taluni settori, attraverso l’apprestamento di sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive, senza avere la facoltà di vincolare la scelta del legislatore nazionale in relazione alla species ed al quantum. La decisione, seppur di compromesso segna un punto di volta nel riconoscere l’incidenza effettiva del diritto comunitario sul diritto penale: il divieto di indicare le sanzioni è limitato alle direttive, lasciando invece alle decisioni quadro la possibilità di prescrivere il quantum delle sanzioni penali da adottare a livello nazionale per il perseguimento degli obiettivi comunitari, vincolando le scelte nazionali. Dal punto di vista degli obiettivi di criminalizzazione, non viene pertanto superata la frammentazione tra precetto e sanzione, permanendo, a causa della persistente resistenza degli Stati membri a detenere la potestà punitiva in materia penale, una divisione tra il momento precettivo, deferito alle istituzioni comunitarie, e quello sanzionatorio, di competenza nazionale. Le due statuizioni trovano la loro applicazione pratica, proprio nella direttiva 2008/99 sui reati ambientali risultando terreno di sintesi tra le spinte espansionistiche provenienti dalla Commissione e quelle conservatrici del Consiglio, nonché luogo di mediazione tra i diversi modelli di incriminazione degli ordinamenti nazionali, fornendo un minimo comune denominatore di tutela di fonte sovranazionale. Si è così configurato un sistema multilivello ove i legislatori nazionali sono condizionati nel loro potere discrezionale dalle indicazioni formalizzate dalle Istituzioni comunitarie. Dal punto di vista funzionale, l’obiettivo della direttiva è quello di ottenere che gli Stati membri introducano nel diritto penale disposizioni che possano garantire un adeguato livello di tutela ambientale. La direttiva presenta rilevanti elementi di novità, in primis appunto per gli obblighi formali di penalizzazione imposti, nell’ambito del primo pilastro . Il Trattato di Lisbona accoglie sotto alcuni aspetti l’evoluzione giurisprudenziale della Corte ma non ne sviluppa le problematiche in modo soddisfacente, deludendo le aspettative in merito al riconoscimento di una vera e propria potestà punitiva comunitaria. Il Trattato seleziona, come si è visto, tre ambiti di intervento per le direttive a contenuto penale per i fenomeni criminali tassativamente indicati al par. 1 dell’art. 83, per i fenomeni criminali diversi da quelli tassativamente elencati, per i quali occorre una decisione del Consiglio adottata all’unanimità e previa approvazione del Parlamento, ed in tutti i casi in cui la fissazione di norme minime su reati e pene risulti indispensabile per dare efficace attuazione alle politiche comunitarie, per i settori già oggetto di armonizzazione (art. 83 par. 2). L’ambiente, pur avendo avuto un ruolo nevralgico nell’evoluzione della competenza penale, e risultando oggetto di una incrementata tutela nel Trattato, non compare tra le materie tassativamente elencate, riscontrando un’evidente battuta d’arresto, deferendo inevitabilmente l’individuazione delle linee evolutive all’attività giurisprudenziale. Il quarto capitolo, infine, si ripropone di evidenziare le prospettive di un possibile penale europeo, unificato o quantomeno armonizzato, partendo dai pregressi tentativi di codificazione, quali il Corpus Juris, gli Europa delikte, il progetto alternativo, ed infine la Costituzione europea. I tentativi di armonizzazione e unificazione sopra citati hanno costituito banco di prova per un diritto penale europeo, seppur settoriale, ponendo, nell’esame dei pregi e dei limiti dei diversi progetti, le basi per un nuovo intervento sovrannazionale più mirato. La prospettiva che si deve prendere in considerazione al momento non riguarda solamente la possibile concretizzazione dei progetti qui delineati, quanto piuttosto l’esigenza che tale unificazione ed armonizzazione si spinga verso differenti ed ulteriori settori che progressivamente hanno acquisito una rilevanza comunitaria. I beni istituzionali della pubblica funzione europea, la moneta unica, gli interessi finanziari dell’Unione nonché l’ambiente possono già essere considerati, ad esempio, come un nucleo, condiviso, di interessi sovrannazionali per i quali sussistono in capo agli ordinamenti nazionali penetranti obblighi di tutela penale. Anche in ordine a tali beni si dovrebbero prospettare dei micro-sistemi di tutela penale ulteriore e sovraordinati che, proprio in ragione del carattere settoriale, pur rispettando le identità nazionali, si imporrebbero alla normativa nazionale, sostituendola o integrandola, nei settori di competenza. La finalità auspicata sarebbe quella di giungere ad una “mise en compatibilité” degli interventi nazionali con quelli sovrannazionali in determinati settori, diretta ad instaurare un “pluralisme juridique ordonnè” ed a garantire la coesistenza di una pluralità di norme di natura e valenza differenti, regolata da un sistema di criteri ordinatori ispirati alla flessibilità ed alla complessità che consentano di tradurre le inevitabili interferenze ed i reciproci rinvii da un ordinamento istituzionale all’altro. La politica criminale europea dovrebbe, dunque, risultare come un sistema misto e graduato su diversi livelli di incidenza, con forme di normazione sovrannazionale direttamente vincolante, per quei beni che risultino meritevoli e necessitanti una tutela penale esaustivamente definita a livello sovrannazionale ed, invece, forme di normazione armonizzatrice di diversa intensità sui sistemi nazionali, nel caso di beni di interesse comune o di beni sovrannazionali non necessitanti la predisposizione di una tutela accentrata e unificata a livello sovrannazionale. Sarebbe necessario, piuttosto, a tal fine far ricorso ad alcuni principi generali in materia penale che possano ispirare l’intero ordinamento sovrannazionale, chiamati ad orientare, vincolandoli, gli interventi europei di penalizzazione diretta e di armonizzazione, nonché le misure nazionali di tutela ed assicurare una coerenza complessiva della politica criminale europea. In tale prospettiva gioca un ruolo di prim’ordine la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione in quanto referente primario dei valori fondanti l’Unione e dunque, per ciò stesso, condivisi. La formalizzazione dei principi ivi contenuti, in particolare di quelli relativi alla materia penale potrebbe fornire la base per costituire una teoria generale dell’intervento penale, quale consacrazione e concretizzazione a livello sovrannazionale di quel patrimonio comune di ideali e tradizioni politiche, di rispetto delle libertà e di preminenza del diritto. La prospettiva più realistica, nel breve periodo è proprio quella di procedere ad un’unificazione ed un’armonizzazione riguardo a beni e interessi condivisi, lasciando un margine di discrezionalità al legislatore nazionale. Prendendo le mosse dal Trattato di Lisbona, non si può escludere, invece, come, accanto alle misure di armonizzazione fin ora attuate col tramite delle direttive, vi possa essere la prospettiva sul lungo periodo della creazione di un diritto penale di tipo federale, accanto ai codici penali nazionali, demandando alla Comunità la definizione di norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in alcune determinate materie in sfere di criminalità particolarmente grave. Allo stato, quindi, si può ritenere che vi sia stata un’opera visibile di armonizzazione, anche a livello normativo, evolutasi nella scelta degli strumenti del primo pilastro, maggiormente vincolanti, e nelle materie da sottoporre a tutela. Ne abbiamo l’esempio visibile in materia ambientale con tre direttive in settori differenti che hanno imposto norme minime, definizioni, fattispecie incriminatorie e obblighi di penalizzazione, proprio accogliendo i presupposti di una normativa comunitaria settoriale. Il riscontro a livello nazionale, che si attende in tempi brevi, dovrebbe portare ad una chiarificazione, seppur parziale, del diritto interno ambientale, introducendo modifiche in linea con gli standards europei e consentendo, anche a livello processuale “di usare efficaci metodi di indagine e di assistenza, all’interno di uno Stato membro o tra diversi Stati membri”. E’ indiscutibile come il diritto penale non sia più una materia riservata in modo esclusivo al legislatore di ciascuno Stato membro, e si stiano delineando dei campi di azione in cui il diritto europeo può concorrere alla effettiva configurazione del sistema penale nazionale.3064 3904 - PublicationI "public participation rights" nel diritto internazionale e comunitario dell'ambiente(Università degli studi di Trieste, 2009-04-24)
;Pisano, AngelaCastangia, IsabellaLa tesi esamina il tema dei diritti di partecipazione del pubblico (“public participation rights”) nel diritto internazionale e nell’ordinamento giuridico comunitario, con specifico riferimento al settore ambientale, ove gli stessi hanno incontrato un particolare sviluppo. Lo spunto per la ricerca è stato offerto dalla conclusione della Convenzione di Aarhus del 1998, sull’accesso all’informazione, sulla partecipazione del pubblico al processo decisionale e sull’accesso alla giustizia in materia ambientale, che rappresenta la più compiuta codificazione dei diritti di partecipazione a livello internazionale. La prima parte della ricerca è dedicata all'evoluzione dei public participation rights nel diritto internazionale dell'ambiente e, in particolare, all'analisi delle novità introdotte dalla Convenzione di Aarhus, la quale si è inserita nel processo di codificazione del diritto all’ambiente come diritto umano di carattere “procedurale”. Si tenta, quindi, di ricostruire le origini e le motivazioni di tale approccio e di verificare se in che misura l’ambiente possa ritenersi oggi tutelato, a livello internazionale, come oggetto di un diritto umano. La seconda parte si focalizza sull’analisi dell’impatto della Convenzione (che è stata conclusa dalla Comunità Europea e dagli Stati membri nella forma di accordo misto) sull’ordinamento giuridico comunitario, analisi che ha costituito, però, l'occasione per una riflessione più ampia sulla rispondenza dello stesso ai principi di democraticità ed apertura. A livello comunitario in questi anni il dibattito sulla democratizzazione del sistema istituzionale si è concentrato, più che sullo sviluppo di singoli diritti di partecipazione, sul complesso tema della governance. L’analisi ha quindi tentato di evidenziare il legame fra i principi della good governance e i diritti sanciti dalla convenzione di Aarhus, indicando in quale misura i diritti di partecipazione democratica fossero già garantiti, in base alle previsioni dei Trattati e del diritto derivato, così come interpretati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Vengono quindi analizzate le modifiche che l’attuazione della Convenzione di Aarhus ha reso necessarie nell’ordinamento comunitario. In primo luogo vengono evidenziati i problemi legati all’applicazione della Convenzione alle istituzioni comunitarie, disciplinata dal nuovo regolamento 1367/2006/CE. Inoltre, poiché nel diritto comunitario dell'ambiente i diritti di partecipazione erano già disciplinati da diversi atti di diritto derivato, la Comunità Europea ha predisposto un pacchetto normativo per il loro adattamento alle previsioni della Convenzione. Vengono, quindi, analizzate le direttive che già codificavano i diritti di partecipazione in materia ambientale, la loro congruità rispetto alle previsioni della Convenzione e le modifiche apportate dalla Comunità Europea per renderle coerenti con le previsioni internazionali. La ricerca prova, infine, a verificare, attraverso l’analisi delle elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali sul tema degli accordi misti (e, in particolare, della recente sentenza sul caso dell'impianto MOX di Sellafield) la coerenza di tale modalità di attuazione, basata sull’adozione di atti di diritto derivato, rispetto al principio di sussidiarietà, che forse avrebbe consigliato di affidare l’attuazione dell’accordo internazionale agli Stati membri.1375 7223