Scienze mediche
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- PublicationAccuratezza e correlazione istologica degli anticorpi anti actina nella diagnosi di malattia celiaca.(Università degli studi di Trieste, 2008-04-17)
;Fabbro, ElisaNot, TarcisioLa celiachia (CD) è un’enteropatia immuno-mediata scatenata dall’ingestione di glutine in soggetti geneticamente predisposti. La prevalenza di questa patologia varia tra 1/100 e 1/300; nella sua forma tipica si manifesta con diarrea, malassorbimento, e deficit di crescita, ma è ora noto che esistono molte forme atipiche, con eterogeneità di manifestazioni spesso extraintestinali, o addirittura forme asintomatiche che sfuggono alla diagnosi. Per la diagnosi abbiamo oggi a disposizione markers sierologici molto sensibili e specifici, ma in ogni caso la conferma di celiachia prevede l’esecuzione di una biopsia intestinale che dimostri le tipiche alterazioni istologiche. Recenti lavori hanno evidenziato che in una buona percentuale di soggetti con celiachia vengono prodotti, oltre agli anticorpi anti-Endomisio e anti-Tranglutaminasi, presenti nella quasi totalità dei pazienti, gli anticorpi anti-Actina (AAA) e dal momento che questi sembrano correlare strettamente con la severità della lesione intestinale sono stati proposti come markers sierologici di danno istologico La messa a punto di una metodica standardizzata in grado di dosarli potrebbe quindi risultare molto utile e potrebbe già nell’immediato futuro rivoluzionare la diagnostica della malattia celiaca in quanto una semplice indagine sierologica, non invasiva e di basso costo, che preveda il dosaggio degli anticorpi anti-Transglutaminasi (noto test ad elevata sensibilità e specificità) unitamente a quello degli anticorpi ani-Actina, potrebbe rappresentare una valida alternativa alla biopsia intestinale. In questo contesto si inserisce il progetto relativo al mio Dottorato di Ricerca. Lo studio si propone infatti di confermare i risultati precedentemente ottenuti e di mettere a punto un procedimento operativo semplice e ripetibile. In una prima fase il dosaggio degli anticorpi anti-Actina è stato eseguito mediante un test di immunofluorescenza indiretta su sieri opportunamente trattati.;si è notato, infatti, che un pretrattamento fisico (riscaldamento a 56°C per 45 minuti) o chimico (aggiunta di EDTA a una concentrazione 0,1mM) dei sieri inibisce una proteina, la Gelsolina, che, se presente, maschera il legame Actina-anticorpo rendendo il test poco sensibile. Da questo studio è emerso che la presenza degli anticorpi anti-Actina correlava con la severità della lesione intestinale. E’ stata poi valutata la validità del test mediante il calcolo statistico di sensibilità e specificità e tramite la misurazione della discordanza tra la lettura di più operatori.diversi . Il lavoro svolto ha purtroppo dimostrato una bassa sensibilità e specificità di questo test in particolare se confrontato con la metodica ELISA classica utilizzata per la ricerca degli anticorpi anti Transglutaminasi tessutale nei sieri dei pazienti celiaci. Lo screening di una libreria totale di paziente celiaco ha permesso di identificare alcuni cloni anti Actina positivi che producono un pattern d’immunofluorescenza del tutto identico a quello dei sieri AAA positivi trattati .Questo dimostra che gli anticorpi selezionati da librerie totali sono gli stessi di quelli presenti nel siero dei pazienti celiaci e che il trattamento chimico e fisico non altera il sito di legame antigenico ma va a inibire esclusivamente la proteina sierica che mascherando il sito di legame dell’antigene all’anticorpo rende il test poco sensibile. La disponibilità di questi cloni di anticorpi anti Actina selezionati da una libreria totale di mucosa intestinale di celiaco potrà far comprendere meglio il ruolo di questi autoanticorpi nella patogenesi del danno intestinale della malattia celiaca. Nella seconda parte di questo Dottorato è stata valuta la prevalenza degli anticorpi anti Actina anche in pazienti con Cardiomiopatia Dilatativi Idiopatica (CMPD) e nei loro famigliari di primo grado. Questa malattia ha un’eziopatogenesi per lo più sconosciuta. Probabilmente si tratta di una condizione a patogenesi eterogenea tuttavia almeno in una certa parte dei pazienti la Cardiomiopatia Dilatativa Idiopatica potrebbe essere un malattia autoimmune organo specifica in cui il processo distruttivo è ristretto all’ organo bersaglio e gli autoanticorpi riconoscono e reagiscono con lo specifico antigene Il dato interessante che emerge da questa tesi è che la positività agli AAA non è casuale ma è presente in gruppi di famiglie. Si può quindi ipotizzare che gli anticorpi anti-Actina siano un potenziale fattore patogenetico e non un’ epifenomeno dell’ infiammazione tessutale di fase acuta. Nel prossimo futuro saranno necessari studi prospettici per l’ identificazione dei meccanismi patogenetici alla base di questa associazione e per comprendere se una precoce identificazione degli anticorpi anti Actina tra i famigliari di soggetti con CMPD possa modificare la storia naturale di questa patologia gravata da una severa prognosi (Fabbro E et al,“Uselessness of anti-actin antibody in celiac disease screening” Clinica Chimica Acta 390; 2008 134–137)2845 13380 - PublicationAnalisi dei movimenti fetali come indicatore relazionale in gravidanze gemellari mono e bicoriali.(Università degli studi di Trieste, 2014-03-17)
;Di Lorenzo, GiovanniRicci, GiuseppeLo studio ecografico 4D dei movimenti fetali in gravidanze singole dimostra patterns cinematici con finalità d’azione a partire dalla 22a settimana di gestazione. Un successivo studio su gravidanze gemellari dimostra non solo l’anticipazione della pianificazione motoria dalla 14a settimana, ma anche che il movimento verso il co-gemello non è accidentale, suggerendo che la propensione all’azione socialmente orientata è presente prima della nascita. La presente ricerca è rivolta al confronto ecografico 4D dei movimenti fetali in gravidanze gemellari mono versus bicoriali fino alla 20a settimana (limite tecnico per osservare i movimenti presi in considerazione) e al successivo follow up dei profili di movimento delle stesse coppie di gemelli fino al sesto mese di vita. È stata inoltre valutata la nascita della genitorialità in base all’analisi delle rappresentazioni genitoriali durante e dopo la gravidanza. I partecipanti sono 20 feti: 10 gemelli monocoriali e 10 gemelli bicoriali, con stato clinico di buona salute e 10 madri sane. Lo studio è composto da 2 parti: 1) Osservazione di movimenti fetali videoregistrati secondo un campionamento a frequenze ripetute e fisse, ogni 15 giorni per un periodo di 30 minuti dalla 14a alla 20a settimana di gestazione e poi dopo la nascita fino al sesto mese di vita; 2) Interviste semi strutturate alla coppia con differenti test psicologici. Le videoregistrazioni hanno permesso di rilevare la frequenza dei movimenti dei feti verso se stessi, verso il co-gemello e verso l’esterno (parete uterina e cordone ombelicale). Diversamente, le interviste ed i test psicologici sono stati esaminati nei contenuti emotivi e relazionali dei futuri genitori ai fini di stabilire la qualità del modo di stare in relazione con i propri bambini e lo stile di attaccamento manifestato prima e dopo la nascita. Lo studio è stato finalizzato all’identificazione di eventuali differenze dei profili di movimento tra i co-gemelli in base alla corionicità al fine di fornire importanti informazioni nella comprensione dei fattori che in utero influenzano lo sviluppo dell’intenzionalità e della motricità finalizzata. Una risposta all’obiettivo principale dello studio è stata trovata dimostrando l’esistenza di una reale differenza d’interazione tra i co-gemelli mono e bi-coriali tra la 14a e la 20a settimana di gestazione. Inoltre, abbiamo dimostrato come la nascita della socializzazione in utero nasca già dalla 14a settimana, mostrando una maggior propensione al “movimento sociale” da parte delle gravidanze monocoriali, mantenendo un comportamento costante durante le settimane osservate. Non altrettanto fanno i gemelli bicoriali, questi ultimi, infatti, mostrano uno sviluppo costante del movimento sociale tra la 14a e le 20a settimana di gestazione sovrapponendosi ai fratelli monocoriali solo dalle 20 settimane, come se lo sviluppo di un piano motorio volto all’interazione sociale si sviluppi più tardivamente nei gemelli bicoriali. Sarà importante chiarire questi aspetti sullo sviluppo della socializzazione poiché i modelli sociali, anche pre-natali, potrebbero essere marcatori precoci della comparsa di disturbi dello sviluppo che riguardano la dimensione sociale del comportamento, come ad esempio i disturbi pervasivi dello sviluppo. Per tali motivi è importante continuare e approfondire questo filone integrandolo con studi di cinematica fetale, per imparare a conoscere meglio e a riconoscere precocemente tali marcatori.1087 5487 - PublicationAnalisi del registro delle miocarditi di Trieste: caratterizzazione virologico molecolare e corrispettivi clinici(Università degli studi di Trieste, 2010-04-22)
;Korcova, Renata ;Dobrina, AldoSinagra, GianfrancoLa miocardite è definita come un’infiammazione del miocardio, diagnosticata sulla base di una serie di criteri istologici, immunologici ed immunoistochimici. Nonostante la definizione, piuttosto chiara, ed i recenti progressi delle indagini molecolari ed immunoistochimiche, la storia naturale, la classificazione, la diagnosi ed il trattamento delle miocarditi continuano a creare forti controversie. L’introduzione della biopsia endomiocardica e di tecniche molecolari ha sicuramente contribuito a definire meglio le basi fisio-patologiche ed individuare gli aspetti istologici ed immunoistochimici espressione del processo infiammatorio ed autoimmune, che, a lungo termine, può condurre a cardiomiopatia dilatativa. L’evoluzione della biologia molecolare ha portato allo studio di parametri più sofisticati rispetto a quelli classici clinici e strumentali, anche nell’individuazione di fattori prognostici a medio e lungo termine. L’ ipotesi di inquadrare la persistenza del genoma virale tra i possibili criteri prognostici, legati ad un outcome avverso, rimanda, di fatto, alla necessità di capire al meglio la patogenesi dell’infezione virale. Infatti non risulta ancora chiaro in che modo la persistenza di genoma virale possa influire sulla funzione ventricolare: il genoma virale potrebbe essere causa di un’alterata espressione genica nei miocardiociti, e/o dell’attivazione di processi immunomediati. La terminologia “persistenza virale” è spesso utilizzata per indicare la presenza di sequenze di nucleotidi virali, ma è importante effettuare una distinzione tra RNA virale e virus infettante, dal momento che le due cose non sono equivalenti. Come strumento di stratificazione prognostica, inoltre, l’analisi genomica di campioni bioptici, tecnica innovativa ed in evoluzione, ha fornito fino ad oggi informazioni contraddittorie. I vari dati sulla persistenza di genoma virale devono essere, quindi, considerati con cautela, dal momento che il ruolo patogenetico della presenza di virus, latente o in replicazione attiva, non si esaurisce con la sua semplice individuazione. La biopsia endomiocardica rimane il gold-standard nella diagnosi di miocardite che permette, anche se in maniera non sistematica, di poter giungere ad una diagnosi di “certezza” della malattia, quando questa viene sospettata. Ovviamente le informazioni derivabili dai campioni di tessuto miocardico aumentano quanto più numerose sono le metodiche di indagine applicate. Alle tecniche istologiche tradizionali attualmente vengono affiancate molteplici tecniche immunoistochimiche (condotte con anticorpi specifici), ultrastrutturali e di biologia molecolare, che consentono una più approfondita analisi dei campioni bioptici. In questo modo è possibile basare la diagnosi di miocardite non solo sull’istologia, ma anche sulla biologia molecolare. Negli ultimi anni è cresciuto l’interesse per la dimostrazione di persistenza del genoma virale nei cardiomiociti di pazienti affetti da “cardiomiopatia infiammatoria”. Nonostante diversi studi abbiano dimostrato che la persistenza di virus in replicazione attiva si associ ad una maggior mortalità, l’utilità prognostica e la ricaduta pratica di queste indagini risulta ancora essere oggetto di discussione. Scopo della tesi. Scopo di questa tesi è stato quello di descrivere le caratteristiche clinico-strumentali di una popolazione di miocarditi attive biopticamente accertate, e di esaminare l’impatto della modalità di presentazione clinica sulla prognosi a lungo termine.Inoltre sono stati valutati la persistenza di genoma virale, in termini qualitativi e quantitativi, per i più comuni virus cardiotropi e il significato clinico-prognostico in una sottopopolazione di questi pazienti con miocardite, in confronto ad altri con cardiomiopatia primitiva ed un gruppo di controllo. Materiali e metodi. La ricerca del genoma virale all’interno dei cardiomiociti è stata eseguita su 59 pazienti con malattia del miocardio arruolati dal 1 gennaio 1991 al 31 giugno 2007: 16 pazienti con miocardite istologicamente accertata, 36 pazienti con cardiomiopatia dilatativa idiopatica appartenenti e 7 pazienti con cardiomiopatie primitive (6 con displasia aritmogena del ventricolo destro e 1 con cardiomiopatia restrittiva). Sono stati ricercati i genomi dei seguenti virus: Enterovirus, Adenovirus, Parvovirus B19, Herpes Simplex Virus -1 e -2, Epstein Barr Virus. Dalle biopsie endomiocardiche sono stati isolati gli acidi nucleici sia endogeni che virali, se eventualmente presenti, e l’efficienza dell’estrazione è stata valutata mediante PCR e Real Time PCR. Per quantificare del contenuto virale di ciascun campione positivo, si è deciso di procedere con la costruzione di plasmidi contenenti l’inserto da amplificare in modo da poter calcolare il numero di copie di ciascun campione e, dopo aver sottoposto ad amplificazione quantità scalari di ciascun plasmide, è stato possibile costruire delle curve di taratura in modo da estrapolare dalle stesse i valori quantitativi relativi a ciascun campione. Risultati. Degli 80 pazienti della nostra popolazione con diagnosi di miocardite attiva arruolati dal 1981 al 2006, il 70% era di sesso maschile, l’età media era di 37±16 anni e la frazione di eiezione media era di 37±17%. Dei 59 pazienti arruolati dal 1 gennaio 1991 al 31 giugno 2007, su cui è stata eseguita la ricerca di genoma virale, 16 (27%) presentavano diagnosi istologica di miocardite attiva (gruppo 1), 36 (61%) erano affetti da cardiomiopatia dilatativa idiopatica (gruppo 2), mentre i restanti 7 (12%) risultavano affetti da altre patologie primitive del miocardio (gruppo 3). Il tempo mediamente intercorso tra l’insorgenza dei sintomi e l’esecuzione della biopsia endomiocardica è stato di 6±14 mesi. Il 73% dei pazienti era di sesso maschile e l’età media della popolazione era di 3914 anni, i tre gruppi non si differenziavano in maniera significativa per l’età o il sesso alla diagnosi. Nei campioni di biopsia endomiocardica provenienti da questi pazienti non è stata individuata la presenza di genomi virali per quanto riguarda Enterovirus, HSV -1 e -2, EBV. Dei 59 pazienti, 23 (39%) risultarono positivi per Parvovirus B19, mentre un solo paziente, affetto da cardiomiopatia dilatativa, è risultato positivo per Adenovirus. Dei 23 pazienti positivi per Parvovirus B19, 4 (25%) appartenevano al gruppo 1, 17 (47%) pazienti al gruppo 2, mentre 2 (29%) al gruppo 3. La quantificazione del Parvovirus B19, nei pazienti con cardiomiopatia, ha dimostrato una quantità media di 8230 copie di genoma virale su 1000 cellule equivalenti, la quantità di genoma virale era particolarmente elevata soprattutto nei campioni di pazienti affetti da cardiomiopatia dilatativa. Per quanto riguarda il campione positivo per Adenovirus è importante sottolineare come la carica virale quantificata non è risultata molto elevata (4.76 ± 0.65 copie di genoma virale su 1000 cellule equivalenti) e che il paziente da cui fu prelevata la biopsia era affetto da cardiomiopatia dilatativa. Tra i 20 pazienti considerati come controlli, nessuno è risultato positivo a Enterovirus, Herpes simplex virus 1-2, Adenovirus ed Ebstein-Barr virus; 8 (40%) sono risultati positivi per Parvovirus B19. Discussione. Lo scopo di questo studio è stato quello di definire la caratterizazione virologico-molecolare delle miocarditi ed operare una sistematizzazione clinica evidenziando quali siano i corrispettivi clinici, le modalità di presentazione più frequenti e di descrivere l’evoluzione di questa malattia nel corso del follow-up. Numerose evidenze cliniche e sperimentali hanno sottolineato la capacità dei virus di invadere, persistere e replicare all’interno dei cardiomociti, dove possono favorire, a partenza da una miocardite acuta, lo sviluppo di un processo infiammatorio cronico alla base della successiva evoluzione verso quadri clinici di cardiomiopatia dilatativa. Di fatto però, il ruolo eziopatogenetico della persistenza del virus nel miocardio, evidenziata attraverso l’individuazione e l’amplificazione di sequenze nucleotidiche del genoma, non è chiaro e i dati riportati in letteratura sulle possibili implicazioni prognostiche e le conseguenti scelte terapeutiche, non sono univoci. Attualmente vi sono due maggiori ipotesi patogenetiche, per altro non mutuamente esclusive, di progressione del danno miocardico4 ed evoluzione clinica sfavorevole, a seguito di infezione virale del miocardio: 1) innesco di un processo di disreattività autoimmune; 2) persistenza del virus pur a seguito di un’adeguata risposta immunitaria da parte dell’ospite. Non risultano comunque ancora chiari i meccanismi attraverso cui si svilupperebbe la risposta immunitaria dell’ospite contro i patogeni virali e come potrebbe influire, rispetto a questi, la persistenza di genoma virale nel miocardio. A questo proposito è interessante il fatto (descritto da Kuhl et al) che le valutazioni immunoistochimiche ed istologiche, eseguite sui campioni bioptici di pazienti con disfunzione ventricolare, non abbiano evidenziato alcuna differenza significativa tra i pazienti con persistenza di genoma virale e quelli virus-negativi. La significativa prevalenza, riportata in letteratura, di genoma enterovirale nelle biopsie endomiocardiche, ha indotto a ritenere, per lungo tempo, che l’agente più frequentemente coinvolto nella miocardite virale fosse il Coxsackievirus B nell’adulto e l’Adenovirus nei bambini. I nostri dati contrastano con queste evidenze e risultano maggiomente in linea con studi più recenti, eseguiti con metodiche di biologia molecolare più accurate. Per quanto concerne la persistenza del genoma del Parvovirus B19, i dati in letteratura sono contrastanti: nello studio eseguito da Bowles et al nel 2003 il virus non è stato riscontrato in nessuna delle biopsie endomiocardiche effettuate, mentre in uno studio eseguito nel 2005 da Kuhl et al il 51% dei pazienti studiati è risultato positivo per Parvovirus B19 (in accordo con i nostri risultati), contro il 9% risultato positivo per Enterovirus, lo 0,8% positivo per Cytomegalovirus, il 2% per EBV e l’1,6% per Adenovirus. Non è chiaro se questa discrepanza sia da imputare a differenze geografiche, epidemiologiche o al differente profilo clinico dei pazienti considerati. Infatti Bowles et al hanno analizzato pazienti con diagnosi di miocardite acuta, mentre Kuhl et al hanno considerato pazienti con cardiomiopatia dilatativa idiopatica. D’altra parte la persistenza di genoma virale nei cardiomiociti di pazienti con cardiomiopatia dilatativa è molto variabile in letteratura (dallo 0 al 76%). Questa variabilità potrebbe essere spiegata sia dalle differenti tecniche utilizzate, sia dalla numerosità delle specie virali testate (che potrebbero aumentare la possibilità di errori), sia dai diversi tipi di campioni processati. Seppur con i limiti di un’esigua popolazione, nella nostra esperienza è evidente l’eterogeneità clinica ed eziopatogenetica dei pazienti in cui è stata ricercata la presenza di genoma virale, sia tra i pazienti con miocardite acuta sia tra quelli con cardiomiopatia dilatativa: le caratteristiche cliniche dei nostri pazienti all’arruolamento confermano come non sia possibile esaurire le implicazioni prognostiche e le strategie terapeutiche con una indagine virologico-molecolare. Nel nostro studio, in cui sono stati analizzati campioni endomiocardici provenienti da pazienti affetti sia da miocardite attiva, sia da cardiomiopatia dilatativa idiopatica, sia da altre patologie primitive del miocardio non è stata individuata la persistenza del genoma virale di virus cardiotropi quali Enterovirus, Human Herpes virus 1 e 2 , Epstein-Barr virus, Cytomegalovirus, mentre è stato individuato solo il Parvovirus B19 e in un caso l’Adenovirus. A fronte dell’eterogeneità clinica e strumentale dei pazienti analizzati, infatti, non sembrano esserci differenze per quanto riguarda la persistenza di genoma virale nei cardiomiociti dei gruppi di pazienti presi in esame; di fatto non abbiamo trovato persistenza di genoma per quel che riguarda i virus che più frequentemente vengono chiamati in causa nell’eziopatogenesi delle miocarditi e nella loro possibile evoluzione in cardiomiopatia dilatativa. Solo il Parvovirus B19 era presente in una quota sostanziale di pazienti, in linea con i dati di persistenza che si ritrovano in letteratura. I dati relativi a questo microrganismo evidenziano una persistenza del virus in tutti e tre i gruppi sottoposti a biopsia, anche se tendenzialmente maggiore nei campioni derivati da pazienti con cardiomiopatia dilatativa (che probabilmente solo in una quota parziale rappresentano l’evoluzione di un processo infiammatorio acuto), in cui la fase acuta, caratterizzata da una massiccia presenza virale, dovrebbe essere già terminata. Si è osservata inoltre una percentuale sostanzialmente sovrapponibile di persistenza del Parvovirus B19, sia per l’aspetto qualitativo che quantitativo, tra i pazienti affetti da patologie non primitive del miocardio e non imputabili ad un’eziologia virale. Questo porta a pensare che la persistenza del genoma virale rappresenti solo un epifenomeno della malattia (piuttosto che un fattore patogenetico) e che il parvovirus sia stato così frequentemente riscontrato a causa della sua estrema diffusione nella popolazione generale. Da queste osservazioni è possibile ipotizzare che il virus possa essere presente nel tessuto miocardico indipendentemente dall’eziologia della patologia in questione e che possa, quindi, non essere associato allo sviluppo della malattia. Questa ipotesi assume ancor più valore se si considera un recente studio da cui emerge come la presenza di una lesione nel muscolo cardiaco, sia anche associata a coronaropatia ischemica, aumenti la probabilità di riscontrare genoma virale. Questi dati, in linea con i nostri risultati, portano ad ipotizzare che il virus (soprattutto se molto frequente nella popolazione generale, come il parvovirus B19) semplicemente si possa localizzare più facilmente e rapidamente in un miocardio danneggiato severamente, senza determinare una successiva progressione della disfunzione ventricolare. Persistenza del genoma virale e prognosi. L’ipotesi di inquadrare la persistenza del genoma virale tra i possibili criteri prognostici, legati ad un outcome avverso, rimanda, quindi, alla necessità di capire al meglio la patogenesi dell’infezione virale. I risultati dei primi studi in merito suggeriscono che la presenza di disreattività autoimmune e la persistenza di genoma virale dovrebbero essere considerati come elementi dirimenti per scelte terapeutiche precise tra la terapia immunosoppressiva e quella anti-virale. Alcuni autori considerano la persistenza di genoma virale come una controindicazione alla terapia immunosoppressiva, dal momento che l’inibizione della risposta immune antivirale dell’ospite potrebbe favorire meccanismi di replicazione virale persistente, associati ad esacerbazione del danno miocardico. In un recente studio effettuato da Frustaci et al la persistenza virale e l’assenza di anticorpi anti-cuore, sono stati considerati predittori di non miglioramento clinico dopo sei mesi di terapia immunosoppressiva. Non sono emerse infatti differenze significative nei dati clinici, strumentali ed emodinamici all’arruolamento tra i pazienti responders e quelli non-responders alla terapia immunosoppressiva; l’unico dato significativo riguardava la differente prevalenza della persistenza del genoma virale nel miocardio. Emerge quindi la necessità di trial clinici prospettici e randomizzati per determinare se l’analisi molecolare possa realmente aiutare a predire la risposta terapeutica ad una strategia immunosoppressiva o antivirale specifica. I dati della nostra esperienza, dato l’esiguo numero di pazienti (peraltro eterogenei dal punto di vista clinico) e soprattutto la scarsa prevalenza di genoma virale nei cardiomiociti, non rende possibile l’esecuzione di un’analisi affidabile per l’identificazione l’eventuale ruolo prognostico della persistenza dei virus nelle miocarditi e nelle “cardiomiopatie infiammatorie”. Le numerose discrepanze dei dati presenti in letteratura, d’altra parte, rispecchiano una conoscenza ancora limitata del meccanismo eziopatogenetico, considerando l’estrema eterogeneità delle variabili implicate: entità della risposta immunitaria dell’ospite, agente patogeno coinvolto, meccanismi di danno cellulare (citopatico diretto o immunomediato), status di replicazione attiva o meno del virus, produzione di proteine virali oltre alla presenza di sequenze nucleotidiche. L’argomento resta dunque ancora controverso ed impone l’approfondimento degli studi relativi all’eziopatogenesi e l’esecuzione di studi prospettici controllati con follow-up rappresentativo. Conclusioni. Lo studio conferma che il polimorfismo clinico di presentazione della miocardite identifica pazienti con diversa storia naturale. La ricerca del genoma virale è risultata negativa, per i principali virus cardiotropi (tranne che per il Parvovirus B19), in pazienti con diverso tipo di cardiomiopatia primitiva, suggerendo una mancanza di importanza della persistenza virale nell’evoluzione delle miocarditi in cardiomiopatie dilatative; non si possono peraltro trarre conclusioni definitive in merito. Il parvovirus B19 è stato riscontrato in egual misura in pazienti con cardiomiopatia primitiva e in un gruppo di controlli affetti da cardiopatia secondaria, suggerendo che ciò possa derivare dall’alta prevalenza di questo virus nella popolazione generale e come forse, si correli come epifenomeno, piuttosto che come causa, ad un miocardio danneggiato. La nostra esperienza non consente di trarre conclusioni definitive sul ruolo prognostico della persistenza del genoma virale nè rispetto all’outcome a medio e lungo termine in pazienti con miocardite, nè rispetto al trattamento immunosoppressivo piuttosto che antivirale specifico. Tali quesiti andranno confermati con trial clinici di ampie proporzioni, e lungo follow-up prospettico. L’attenzione dovrebbe essere focalizzata su tre principali aspetti: in primo luogo non è chiaro se sia necessariamente l’infezione virale ad innescare il processo autoimmune, in caso contrario sarebbe possibile escludere l’autoimmunità come possibile causa di miocardite virale; laddove si dimostrasse l’esistenza di un processo autoimmune, la sua sola presenza non esaurirebbe il meccanismo eziopatogenetico nella sua complessità; inoltre, ammessa l’esistenza di un meccanismo di disreattività autoimmune, restano ancora da chiarire le modalità attraverso cui questo si verrebbe a scatenare (mimetismo molecolare, attivazione policlonale di linfociti autoreattivi, suscettibilità genetica determinata da particolari aplotipi del complesso HLA).3081 19960 - PublicationANALISI DELLA COMUNICAZIONE TRA PEDIATRA E MADRE ATTRAVERSO L'APPLICAZIONE DEL METODO F.A.C.S. DI P. EKMAN E W.V. FRIESEN(2007-07-25T06:40:37Z)
;GRECO, VANESSAKERMOL, ENZOABSTRACT In questo nostro lavoro abbiamo analizzato il rapporto pediatra – madre e bambino partendo dalla letteratura relativa a questo argomento, che ha avuto un particolare sviluppo negli anni successivi al 1960. L’originalità del nostro progetto consiste nell’aver utilizzato il sistema F.A.C.S – Facial Action Coding System - di P. Ekman e W. V. Friesen. Tale metodo consiste nella decodificazione delle espressioni emozionali del volto, quali sorpresa, paura, collera, disgusto, tristezza e felicità mediante le 44 unità d’azioni relative ai movimenti del volto e le 14 unità d’azione che rendono conto dei cambiamenti nella direzione dello sguardo e nell’orientamento della testa. L’applicazione del metodo F.A.C.S. ha permesso una codifica oggettiva delle emozioni e quindi dei parametri relativi alla relazione pediatra/madre. Sono stati esaminati 22 medici pediatri e 61 coppie genitore/bambino. I pediatri si dividevano in 8 pediatri maschi esperti e 8 pediatre femmine esperte; inoltre sono stati esaminati 6 pediatri specializzandi, di cui 4 femmine e 2 maschi. La metodologia applicata prevede l’uso di due videocamere che riprendevano contemporaneamente il volto del pediatra e quella del genitore/bambino. Le riprese avvenivano in 3 momenti della visita ambulatoriale: inizio, metà e conclusione. Dall’analisi dei filmati tramite il metodo F.A.C.S. risulta che tutti i pediatri hanno un ampio comportamento spaziale, un atteggiamento positivo e che l’emotività del loro volto è sempre presente. I pediatri specializzandi dimostrano maggiore perplessità/scetticismo rispetto ai pediatri esperti durante la visita. Nei pediatri specializzandi prevale la sorpresa (minore conoscenza della casistica rispetto ai pediatri esperti). I pediatri maschi dimostrano più perplessità nel corso della visita (in tutti i 3 momenti). Le pediatre femmine aprono e chiudono la visita col sorriso, mentre nel secondo momento prevale la sorpresa. I pediatri maschi partono e mantengono lo scetticismo/perplessità nel corso dell’intera visita. I pediatri maschi risultano meno socializzandi rispetto alle donne. Nel terzo momento prevale il sorriso sia nei pediatri esperti maschi/femmine sia nei pediatri specializzandi maschi/femmine. Da un punto di vista complessivo la difficoltà di comunicazione dei maschi può generare ansia/preoccupazione nei pazienti, mentre la bassa percentuale di perplessità da parte delle femmine genera maggiore rassicurazione durante la visita. In 40 casi su 61 è presente un solo genitore, mentre in 21 casi su 61 sono presenti entrambi i genitori. Tutti i genitori hanno utilizzati un ampio comportamento spaziale (l’avvicinarsi all’interlocutore, l’inclinazione del busto in avanti, l’ampia/scarsa o assenza di gesticolazione, l’irrigidimento del corpo, il ritrarre il busto all’indietro e il cambiare continuamente posizione). In 26 casi su 61 vi è stata un’ampia dimensione psicologica da parte dei genitori. L’emotività del volto dei genitori è sempre presente. La reazione emotiva dei genitori più frequente nel primo momento è il sorriso. I pediatri utilizzano prevalentemente tre emozioni nelle interazioni genitore/bambino durante le visite ambulatoriali. Le emozioni sono: sorriso, perplessità/scetticismo e sorpresa; a seconda del momento e della tipologia di pediatra queste si porranno in ordine diverso pur essendo costante il sorriso al primo e al terzo momento in tutte le variabili esaminate. Riguardo all’uso del sorriso si nota inoltre una prevalenza nelle pediatre femmine, perciò potremmo avanzare l’ipotesi che hanno migliori relazioni con i pazienti e facilitino la trasmissione di informazioni riguardanti le cure al bambino. Nei genitori vi è una più variegata serie di emozioni anche se prevale la reazione favorevole in chiusura di rapporto. Le emozioni in relazione ai due gruppi seguono un percorso omogeneo, cioè sorriso, perplessità, sorriso sia nei pediatri che nei genitori. Il genitore tendenzialmente (per circa 2/3) segue le emozioni espresse dal pediatra.1846 6987 - PublicationAnalysis of ageing and stability of bonded interface in dentistry(Università degli studi di Trieste, 2011-04-08)
;Marchesi, Giulio ;Breschi, LorenzoCadenaro, MilenaLa moderna odontoiatria conservativa si basa sul concetto di minima invasività, che comporta la rimozione del solo tessuto dentario cariato e la ricostruzione con un materiale che viene a sua volta direttamente legato al rimanente tessuto sano. E’ stato, inoltre, osservato che l’adesione riduce il microleakage a livello dell’interfaccia dente-restauro, requisito fondamentale sia per ridurre l’ingresso di fluidi orali e di batteri nella cavità, che possono portare allo formazione di carie secondarie. Inoltre i restauri adesivi presentano il vantaggio rispetto ai sistemi non adesivi di non necessitare di alcuna ritenzione, che si ottiene a spese della struttura dentaria sana. Il termine adesione si riferisce alle forze o energie tra atomi o molecole nella formazione e mantenimento dell’interfaccia tra due materiali. Ogni sistema adesivo dentale contiene un agente mordenzante, al fine di aumentare l’energia libera di superficie; un agente primer per aumentare la bagnabilità del sistema adesivo; un agente bonding, con la funzione di infiltrare e interdigitarsi micromeccanicamente con le porosità create precedentemente con la mordenzatura. Tale interdigitazione fu descritta per la prima volta da Nakabayashi et al. nel 1982 ed è comunemente indicata con il termine di “ibridizzazione” o formazione dello strato “ibrido”. Tra le tante classificazioni esistenti la più significativa è quella che tiene conto dell’ interazione con il substrato e distingue i sistemi adesivi in etch-and-rinse e self-etcthing e considera i passaggi necessari (step) al sistema per stabilire un legame con il substrato. La stabilità dell’interfaccia adesiva dipende dalla formazione di uno strato ibrido, compatto e omogeneo, durante l’impregnazione del substrato dentinale da parte dei monomeri adesivi. La longevità clinica dello strato ibrido dipende sia da fattori fisici come le forze occlusali, le ripetitive espansioni e contrazioni dovute ai cambiamenti di temperatura, che chimici: agenti acidi presenti nei fluidi dentinali, nella saliva, nel cibo, nelle bevande e nei prodotti di degradazione batterica. Poiché lo strato ibrido rappresenta un’entità complessa, in cui intereagiscono componenti biologiche (matrice dentinale collagenica e cristalli d’idrossiapatite residui) e non (monomeri resinosi e solventi), i fenomeni d’invecchiamento possono interessare ognuna delle componenti in maniera esclusiva oppure degradare in maniera sinergica sia la porzione resinosa che quella dentale. Lo strato ibrido può subire una degradazione secondo due modalità distinte, ossia attraverso la disorganizzazione delle fibre collagene oppure attraverso l’ idrolisi della resina negli spazi interfibrillari. L’idrolisi è un processo chimico che causa la rottura di legami covalenti della catena polimerica dovuta all’addizione di molecole d’acqua nei legami esteri. La degradazione delle resine è conseguente all’assorbimento di acqua, soprattutto nei sistemi semplificati. Dai risultati del capitolo 3 della tesi emerge come due differenti modalità di storaggio (in aria e acqua) e il tempo possano influenzare il grado di conversione e il modulo elastico di un sistema a tre passaggi etch-and-rinse e uno a due passaggi self-etch. Il modulo di elasticità per entrambi i sistemi adesivi decresce del 25-30% in acqua nelle prime 24 ore. Nel capitolo 4 è stata valutata l’ influenza del termociclaggio sulla cementazione di perni in fibra con diverse strategie adesive. Lo scopo del lavoro era quello di accelerare in vitro l’ invecchiamento del materiale per simulare un possibile comportamento clinico del materiale a lungo periodo. Si è visto in diversi lavori scientifici come 40000 cicli di termociclaggio corrispondano a circa 4 anni di invecchiamento clinico. Il termociclaggio ha portato ad un’ aumento del fenomeno del nanoleakage in tutti i sistemi adesivi utilizzati. In alternativa al termociclaggio è stato utilizzato lo storaggio in saliva artificiale per 6 mesi e un anno per analizzare il comportamento di cement self adhiesive. Nei capitoli 6, 7 e 8 si è stato valutato lo stress da polimerizzazione di diverse resine composite. La contrazione è un fenomeno inevitabile che avviene durante la polimerizzazione delle resine composite, che può portare a una rapida destabilizzazione del sistema adesivo causando la rottura del sigillo marginale con la conseguente possibilità di carie secondarie e di perdita del restauro. Differenti approcci sono stati utilizzati per minimizzare lo stress da polimerizzazione, come le tecniche incrementali, l’uso di materiali a bassa viscosità, tecniche di soft start di polimerizzazione e l’uso di nuovi tipi di monomero. I compositi flow hanno dimostrato avere uno stress simile alle resine composite convenzionali e il loro uso come strato intermedio non sembra portare a dei sostanziali vantaggi nel ridurre lo stress da polimerizzazione. Nel capitolo 8 siamo andati a valutare lo stress da polimerizzazione di una nuova resina a base siloranica e di una resina composita nanoriempita a bassa contrazione confrontate con tre resine composite convenzionali utilizzando due sistemi di misurazione. Soltanto la resina composita nanoriempita ha mostrato uno stress da polimerizzazione nettamente inferiore rispetto alle resine composite convenzionali. Studi recenti dimostrano come proteine endogene, denominate metalloproteinasi (MMP), siano coinvolte nella degradazione del collagene dello strato ibrido. Le MMP sono una classe di endopeptidasi zinco e calcio dipendenti, che durante la dentinogenesi sono intrappolate nella matrice dentinale. Il rilascio e la loro conseguente attivazione avviene durante le fasi di adesione. La degradazione collagenolitica dimostrata sia in vivo che in vitro può essere bloccata utilizzando inibitori specifici come la clorexidina. Nel capitolo 10 siamo è stato valutato quanto diverse percentuali (1-5%) di clorexidina diacetata disciolta in alcuni sistemi adesivi sperimentali possano influenzare il grado di conversione e nel modulo elastico. In questa sperimentazione è emerso che piccole percentuali di clorexidina non hanno effetti sul grado di conversione ma bensì hanno determinato una diminuizione del modulo elastico tra il 27-48% rispetto alle resine controllo senza clorexidina.1610 4011 - PublicationAnoressia nervosa in adolescenza: aspetti psicopatologici e dimensioni di personalità(Università degli studi di Trieste, 2008-04-17)
;Leccese, AntonioGandione, MarinaQuesto studio rappresenta un tentativo di esplorare, attraverso il ricorso a strumenti psicometrici, i tratti psicopatologici e di personalità in pazienti con disturbo della condotta alimentare in età evolutiva e di correlarli con l’evoluzione della malattia. I due gruppi diagnostici presi in considerazione sono l’Anoressia Nervosa di tipo Restrittivo e il Disturbo Alimentare non Altrimenti Specificato (NAS o ED-NOS) con caratteristiche restrittive.2763 76671 - PublicationApproccio proteomico allo studio dell'infertilità(Università degli studi di Trieste, 2012-04-02)
;Giacomini, ElisaRicci, GiuseppeQuesto progetto di dottorato ha due obiettivi principali: Confrontare l’espressione proteica di plasmi seminali di soggetti Normozoospermici (N) con quella di plasmi seminali di soggetti Oligo-Astenozoospermici (O/A) per identificare dei bio-marcatori di fertilità maschile. A tale scopo sono state utilizzate tecniche di proteomica quali elettroforesi bidimensionale e spettrometria di massa, che ci hanno permesso di analizzare i 20 campioni selezionati per l’analisi (10 appartenenti al gruppo N e 10 appartenenti al gruppo O/A). Eseguendo il confronto 6 proteine sono risultate espresse in maniera differente nei due gruppi di campioni. In particolare 4 risultano maggiormente espresse nei campioni di soggetti N e solo 2 risultano maggiormente espresse nei plasmi seminali di soggetti O/A. Delle 4 proteine espresse in quantità maggiore nei campioni di plasmi seminali di soggetti N, solo due sono state identificate con spettrometria di massa e successivo western blot: Epididymal secretory protein E1 (NPC2) e Galectin 3 binding protein (M2BP). Le altre 2 non sono state identificate per la massiccia presenza di cheratina che contaminava i campioni. Le 2 proteine espresse in quantità maggiore nei campioni di plasmi seminali O/A sono: Lipocalin-1 (LCN-1) e Prolactin inducible protein (PIP). Sono NPC2 e M2BP si possono considerare come dei bio-marcatori di fertilità maschile. Confrontare le proteine presenti in fluidi follicolari contenenti ovociti maturi (M2) con quelle presenti in fluidi follicolari contenenti ovociti immaturi (GV o M1) per trovare dei bio-marcatori di maturità ovocitaria. Il confronto è stato eseguito tra 6 campioni di fluidi contenenti ovociti M2 e 6 campioni di fluidi follicolari contenenti ovociti GV o M1. Le tecniche utilizzate sono state l’elettroforesi bidimensionale e la spettrometri di massa. Dopo aver eseguito l’elettroforesi bidimensionale le immagini dei gel ottenuti sono stati caricate sul programma Ludesi Redfin Solo per eseguire il confronto tra i due gruppi. Solo 5 spot e quindi presumibilmente solo 5 proteine risultano espresse in maniera diversa nei due gruppi e tutte sono maggiormente espresse nei fluidi follicolari contenenti ovociti M2. Per mancanza di tempo non è stato possibile eseguire la spettrometria di massa e quindi identificare questi probabili bio-marcatori di maturità ovocitaria.1159 3419 - PublicationL'attivazione corticale nel neonato associata alle esperienze del dolore e dell'analgesia non farmacologica: uno studio con la topografia ottica(Università degli studi di Trieste, 2010-03-22)
;Bembich, StefanoClarici, AndreaE’ oramai una conoscenza diffusa e condivisa che i neonati, anche quando nati prima del termine gestazionale, percepiscono il dolore e ne esibiscono i relativi comportamenti (pianto, espressione facciale, agitazione motoria), in associazione a uno stimolo che viene vissuto come doloroso anche da un adulto. Al fine di una migliore prevenzione e gestione del dolore del neonato ricoverato in un reparto di neonatologia, sono state proposte delle linee guida che prevedono anche l’adozione sistematica dell’analgesia, sia farmacologica che non, nel caso debbano essere eseguite procedure dolorose. Alcuni studi effettuati negli ultimi anni con la spettroscopia del vicino infrarosso (NIRS) hanno dimostrato che il neonato sottoposto a una stimolazione dolorosa presenta un’attivazione significativa nell’area somatosensoriale della corteccia cerebrale, ma sinora non è stato ancora verificato se l’utilizzo di un metodo analgesico abbia una qualche influenza sulla fisiologia corticale neonatale. Questa ricerca ha utilizzato la topografia ottica, uno strumento di neuroimmagine funzionale non invasivo e sicuro che utilizza la luce nel vicino infrarosso per rilevare e localizzare un’attivazione cerebrale sulla superficie corticale, per approfondire le conoscenze sul funzionamento della corteccia cerebrale del neonato nel corso di un’esperienza di dolore, mettendo anche a confronto diverse modalità di analgesia non farmacologica. Alla ricerca hanno partecipato 38 neonati sani o clinicamente stabili, di cui 20 nati a termine e 18 pretermine. L’attività corticale è stata monitorata nelle regioni parietale, temporale e frontale posteriore della corteccia cerebrale, nel corso dell’esecuzione del prelievo da tallone. Con tutti i neonati è stata utilizzata un’analgesia non farmacologica che poteva essere: l’allattamento al seno (solo neonati a termine), la somministrazione di una soluzione glucosata (sia neonati a termine che pretermine), la soluzione glucosata seguita dal succhiotto e il contenimento (solo neonati pretermine). In associazione a una stimolazione dolorosa nel neonato, si è ripetutamente riscontrata un’attivazione della corteccia cerebrale, bilateralmente, in un’area molto ristretta della corteccia sensori-motoria e compatibile con un’ipotesi di una sua organizzazione somatotopica presente già alla nascita. Tale organizzazione funzionale emerge già nel neonato pretermine, la cui età gestazionale media era di 32,21 settimane tra i nostri partecipanti. All’utilizzo di una soluzione glucosata, si è associato un effetto di ipoattivazione della corteccia cerebrale, mentre con l’allattamento al seno, che si è dimostrata l’analgesia non farmacologica più efficace con i neonati a termine, è stata riscontrata un’attivazione più estesa e includente aree più posteriori, compatibili con un’esperienza di saturazione multisensoriale associata all’allattamento, e la corteccia frontale dorsolaterale destra. Quest’ultima localizzazione corticale, che nell’adulto svolge un ruolo importante per l’iniziativa comportamentale, porta a ipotizzare che, nell’analgesia da allattamento al seno, il meccanismo implicato si baserebbe su un’interazione reciproca con la madre a cui il piccolo partecipa attivamente fin dall’inizio della vita, sulla base delle proprie esigenze di adattamento a situazioni anche impreviste.1723 13037 - PublicationAttivazione e deplezione selettiva di linfociti antigene-specifici(Università degli studi di Trieste, 2012-04-02)
;Piscianz, Elisa ;Rabusin, MarcoTommasini, AlbertoIl trapianto di cellule staminali emopoietiche (TSCE) consiste nell’infusione di cellule staminali di donatore in grado di ripopolare l’intero sistema emopoietico del ricevente. Con il TSCE, però, viene infusa anche una certa quota di linfociti maturi specifici contro vari antigeni. Questi sono capaci di dar origine ad una risposta immune “positiva” o “utile” che può proteggere il ricevente da infezioni e recidive, perché una volta infusi nel ricevente sono capaci di rispondere ai patogeni (Graft versus Infection) o agli antigeni tumorali (Graft versus Tumor). D’altra parte, però, linfociti specifici contro gli antigeni dell’ospite possono dar origine alla reazione di rigetto del “trapianto contro l’ospite” (Graft versus Host Disease, GvHD) in cui i linfociti del donatore riconoscono come non self gli antigeni tessutali del ricevente (alloantigeni). Recentemente diversi gruppi hanno studiato come migliorare l’esito del trapianto, mettendo a punto diversi protocolli per eliminare solo le cellule responsabili di GvHD, ma molto va ancora fatto per ottimizzare queste tecniche e far sì che non vengano persi anche i linfociti patogeno-specifici o regolatori. Questo lavoro ha voluto mettere a punto un metodo di deplezione basato sull’uso di piccole molecole in grado di interferire con il processo di attivazione e proliferazione dei linfociti in risposta allo stimolo allogenico. Per fare questo sono state selezionate diverse molecole: il metotrexate, che interferisce con il metabolismo di sintesi delle basi puriniche; il phenoxodiolo che altera il potenziale di membrana; il tasocitinib che blocca la via di trasduzione del segnale di JAK3; il bortezomib, un inibitore del proteosoma; l’acido 3-idrossiantranilico (3-HAA), che agisce consumando il GSH necessario durante il processo proliferativo e induce l’apoptosi per burst ossidativo, effetto che può essere aumentato dalla presenza di ioni di manganese. Inizialmente i farmaci sono stati testati sia su cellule non stimolate che su cellule attivate con PHA, per identificare il farmaco in grado di esercitare la massima azione tossica sulle cellule attivate ma non su quelle non stimolate. In questa fase, il 3-HAA (con o senza l’aggiunta di ioni manganese) e il bortezomib sono risultati i farmaci dotati di maggiore selettività e potenza. Nella fase successiva, è stata studiata l’azione di questi farmaci su linfociti sottoposti ad uno stimolo allogenico, costituito da linee linfoblastoidi trasformate con virus di Epstein Barr. Infine il 3-HAA in associazione con gli ioni di manganese è stato utilizzato per depletare i linfociti attivati in co-coltura con cellule dendritiche. Dopo la coltura primaria le cellule sono state restimolate con cellule dendritiche dello stesso donatore o di donatore diverso per verificarne la reattività residua. I risultati mostrano che tra i farmaci selezionati inizialmente, il 3-HAA, in associazione con MnCl2 mostra una sufficiente azione tossica selettivamente sulle cellule attivate, risparmiando le cellule non attivate. Il bortezomib che inizialmente aveva dato risultati interessanti, non ha mostrato negli esperimenti successivi un effetto ripetibile. Uno dei problemi emersi, che resta da valutare, è la relativa non-responsività alla restimolazione nelle cellule trattate con i farmaci, forse per la persistenza del farmaco o del suo effetto al loro interno. Il passo successivo sarà mettere a punto le tempistiche ottimali per verificare la reattività residua dopo la deplezione. In generale però, questi risultati mostrano che l’allodeplezione con i farmaci è una strada percorribile, anche se molto va ancora fatto per ottimizzare le tempistiche di somministrazione dei farmaci e sulla valutazione della reattività residua.1294 11150 - PublicationAttività microbicida dei neutrofili : i meccanismi cellullari e molecolari e loro disfunzioni(Università degli studi di Trieste, 2010-04-22)
;Defendi, Federica ;Stasia, Marie-Josè ;Dri, PietroDecleva, EvaIn questa tesi ci siamo proposti di riesaminare i meccanismi implicati nell’attività microbicida dei neutrofili, alla luce delle nuove ipotesi proposte recentemente, impiegando una metodica corretta di misura del killing microbico da noi recentemente messa a punto. Nel complesso, i risultati da noi ottenuti provano che l’attività NADPH ossidasica è indispensabile per il killing di certi microrganismi (quali S. aureus e C. albicans) ma non per altri (quali E. coli) che sono uccisi efficacemente anche in assenza di burst respiratorio. I flussi di ioni potassio e l’alcalinizzazione del pH intrafagosomale, indotti dall’attivazione del complesso ossidasi, non sono necessari al killing di S. aureus e C. albicans, il cui killing NADPH ossidasi-dipendente è mediato quasi esclsivamente dalla mieloperossidasi. Le correnti di ioni K+ sembrano responsabili dell’attività microbicida residua dei neutrofili MPO-deficienti, a lunghi tempi di incubazione. I meccanismi implicati nell’attività microbicida dei neutrofili sono stati studiati anche ricorrendo ad un modello sperimentale ampiamente utilizzato in letteratura per le ricerche sul funzionamento del complesso NADPH ossidasi: la linea cellulare PLB-985 differenziabile in neutrophils-like. In questo contesto, i risultati da noi ottenuti suggeriscono che la produzione di ROS da parte delle linea cellulare PLB-985 in risposta a stimoli particolati (microrganismi opsonizzati) è sensibilmente più debole rispetto ai PMN. Tale burst respiratorio è responsabile di un’attività microbicida, nei confronti di microrganismi sensibili ai meccanismi di killing ossigeno-dipendenti (S. aureus e C. albicans), paragonabile a quella dei PMN a tempi brevi di incubazione; prolungando i tempi di fagocitosi, il potere microbicida di queste cellule risulta invece abolito. Nei confronti di E. coli, battere sensibile ai processi di killing ossigeno-indipendenti, l’attività microbicida delle cellule PLB-985 risulta parzialmente difettosa se paragonata ai neutrofili La super-produzione di anioni superossido, evidenziata nelle cellule PLB-985 DloopNox4-Nox2 (cellule in cui la seconda ansa intracellulare di No2 é sostituita da quella dell’ossidasi omologa Nox4) in risposta a stimoli solubili e particolati, non è accompagnata da un’aumentata capacità microbicida di queste cellule nei confronti di S. aureus, C. albicans ed E. coli. Nelle cellule PLB-985 i processi microbicidi non ossidativi risultano compromessi, a causa della carenza parziale (MPO, elastasi, catepsina G, β-glucuronidasi, CD11b) o totale (lattoferrina, lisozima, MMP-8, MMP-9) degli enzimi e delle proteine granulari coinvolti nell’attività antimicrobica e a causa della loro difettosa esocitosi.. In particolare, i nostri risultati suggeriscono un difetto a livello della biogenesi dei granuli specifici e terziari. Il ridotto funzionamento del complesso enzimatico NADPH ossidasi è alla base di una rara malattia genetica, la malattia granulomatosa cronica. Parte di questo lavoro di tesi è stata dedicata alla caratterizzazione di un caso atipico di CGD, la forma X91-. I risultati ottenuti ci hanno permesso di dimostrare che la nuova mutazione da noi descritta nel promotore del gene CYBB (inserzione di una T nella posizione da -54T a -57T) é responsabile della ridotta associazione dei fattori di trascrizione ets con la regione promotrice, impedisce una normale espressione del gene nei neutrofili dei pazienti ed é correlata alla ridotta attività ossidasica misurata in tutta la popolazione di granulociti; l’espressione e l’attività funzionale della NADPH ossidasi appaiono invece normali negli eosinofili, suggerendo che l’espressione di gp91phox in queste cellule é regolata da fattori di trascrizione differenti da quelli operanti nei neutrofili. Infine, l’attività ossidasica residua (5-7% del normale) non é di per sé sufficiente a garantire un’attività di killing nei confronti di S. aureus e C. albicans e a proteggere il paziente contro le infezioni .1878 11878 - PublicationAumento di peso e sindrome metabolica nel disturbo bipolare(Università degli studi di Trieste, 2010-04-14)
;Salvi, VirginioDe Vanna, MaurizioI pazienti affetti da disturbo bipolare sono ad elevato rischio di sovrappeso ed obesità, soffrono con maggior frequenza di diabete mellito di tipo II e hanno più elevati tassi di morbilità e mortalità per malattie cardiovascolari rispetto alla popolazione generale. Vi sono attualmente tre ipotesi eziopatogenetiche per spiegare la stretta associazione esistente tra disturbo bipolare da un lato e aumento del peso e alterazioni metaboliche dall’altro. In primo luogo, i pazienti con disturbo bipolare assumono per lungo tempo terapie psicofarmacologiche, in particolare antipsicotici atipici e stabilizzatori dell’umore, che sono associate ad aumento di peso e allo sviluppo di dislipidemia e diabete. Inoltre il disturbo bipolare è spesso caratterizzato lungo il decorso dall’adozione di stili di vita dannosi quali ad esempio eccessivo introito calorico, scarsa attività fisica, fumo di tabacco e consumo di alcolici, fattori che possono incrementare il rischio cardiovascolare. Infine, recenti studi ipotizzano una diatesi comune probabilmente mediata da fattori genetici o da alterazioni dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene. Tuttavia gli studi pubblicati hanno messo l’accento quasi esclusivamente sulle terapie psicofarmacologiche, pertanto non e’ ben chiaro il ruolo di altri fattori causali nel determinare aumento di peso ed alterazioni metaboliche. Al fine di valutare l’impatto degli altri fattori descritti nel determinare aumentata prevalenza di sovrappeso e obesità, nel primo studio sperimentale sono stati reclutati pazienti affetti da disturbo bipolare mai trattati per il disturbo bipolare, ovvero i soggetti drug-naïve, confrontati con una popolazione di pazienti psichiatrici di controllo. Al termine dello studio abbiamo riscontrato un’elevata prevalenza di sovrappeso in giovani pazienti drug-naïve affetti da disturbo bipolare. Nei soggetti sovrappeso abbiamo riscontrato l’associazione con la polarità depressiva all’episodio indice. Oltre all’aumento di peso riveste sempre più interesse il concetto di Sindrome Metabolica, una condizione definita da una combinazione di fattori di rischio quali obesità, addominale, insulino-resistenza, dislipidemia e ipertensione, fortemente predittiva per morbilità e mortalità cardiovascolare. Alcuni studi hanno suggerito l’esistenza, nel disturbo bipolare, di un maggior rischio di sviluppare Sindrome Metabolica rispetto alla popolazione generale. Tuttavia mentre nella popolazione generale l’incidenza di sindrome metabolica aumenta linearmente con l’età, non è chiaro se il profilo di rischio sia lo stesso in pazienti con disturbo bipolare. Scopo del secondo studio sperimentale è stato valutare la prevalenza di Sindrome Metabolica in pazienti con disturbo bipolare stratificati per sesso ed età, e determinarne i correlati socio-demografici, clinici e legati agli stili di vita in questi pazienti. Al termine dello studio abbiamo riscontrato un’elevata prevalenza di Sindrome Metabolica nel campione, un profilo di rischio caratteristico del disturbo bipolare, con elevati tassi di prevalenza particolarmente nei giovani di sesso maschile, e l’associazione con una ridotta attività fisica. Poiché la Sindrome Metabolica si associa all’assenza di attività fisica, programmi volti alla modificazione degli stili di vita dovrebbero essere implementati al fine di prevenire la Sindrome Metabolica in questi pazienti.4604 8379 - PublicationBDNF as a biomarker in psychiatry(Università degli studi di Trieste, 2012-03-30)
;Carlino, DavideTongiorgi, EnricoBrain-derived neurotrophic factor (BDNF) is a key factor in learning and memory. Altered BDNF-signalling is thought to contribute to the pathogenesis of schizophrenia and major depression (SZ) especially in relation to cognitive deficits. However, analysis of serum BDNF as a potential biomarker in psychiatry has provided controversial data. We hypothesized that these confounding results might be due to a differential regulation of BDNF precursor pro-BDNF (32 KDa) and proteolytic products mature (mat-BDNF; 14 KDa), and truncated-BDNF (28 KDa). Because of these discrepancies, we decided to perform a systematic review and a meta-analysis of studies measuring serum concentrations of BDNF to elucidate whether or not this neurotrophin is abnormally produced in patients with schizophrenia. Additionally, we were interested in identifying factors that might contribute to the different findings in literature, as to improve the design of future investigations in this field. In the second part of thesis, we investigated the serum abundance of these BDNF isoforms and its relationship with cognitive impairment in schizophrenia. Schizophrenia was diagnosed with PANSS test. Abbreviated cognitive assessment included tests for attention, perceptualmotor skills, processing speed and memory. Using an ELISA assay, we found a slight reduction in serum BDNF levels in SZ patients (n ¼ 40) with respect to healthy controls (HC, n = 40; p = 0.018).Western-blot analysis revealed increased serum pro-BDNF and mat-BDNF and reduced truncated-BDNF (p < 0.001) in SZ with respect to HC. Patients with an increase in pro-BDNF (n = 15/40) or mat-BDNF (n = 9/40) higher than the HC mean + 2 Standard Deviations (SD) also had >2SD reduction of truncated-BDNF (n = 27/40). Reduced truncated-BDNF correlated significantly with higher positive and lower negative PANNS scores and a worst performance in all cognitive assays but not with antipsychotic type. Measurement of serum truncated-BDNF abundance predicted for high cognitive deficits with sensitivity ¼ 67.5%, specificity ¼ 97.5%, Negative Predictive Value = 75% and Positive Predictive Value = 96.4%. These results suggest deficiency in pro-BDNF processing as a possible biological mechanism underlying schizophrenia with cognitive impairment. Finally, future perspectives on the use of proBDNF as a novel biomarker for psychiatric disorders will be discussed.1131 2267 - PublicationLe bevande alcoliche: dalla definizione dei bisogni le indicazioni per la realizzazione di un ospedale promotore di salute(Università degli studi di Trieste, 2015-03-02)
;Leon, Luca ;Decorti, GiulianaModonutti, Giovanni BattistaDiverse fonti autorevoli concordano che una parte rilevante dei decessi registrati nella popolazione generale e fra i giovani adulti siano riconducibili allo stile di vita agito - all’alimentazione, all’attività fisica, al fumo di tabacco ed alle bevande alcoliche - e da tempo le Istituzioni socio-sanitarie consapevoli del problema stanno promuovendo azioni di prevenzione e promozione della salute finalizzate alla riduzione del rischio ad essi correlato. Tuttavia, l’interpretazione di queste azioni di prevenzione e promozione della salute sono molteplici, frammentarie, poco verificate e verificabili ed a volte discordanti con la conseguenza che è difficoltoso riconoscere chiaramente le ricadute in termini di efficacia, efficienza e trasferibilità degli interventi proposti. Infatti, il più delle volte, contravvenendo alle indicazioni proposte dal Piano Nazionale della Prevenzione, risulta deficitaria, talvolta poco affidabile, l’analisi della situazione sulla quale si vuole intervenire con la conseguenza che: - la scelta degli interventi da mettere in atto viene lasciata all’interpretazione dei singoli operatori afferenti alle diverse istituzioni o strutture; - non viene resa possibile, qualora prevista, una corretta valutazione della efficacia degli interventi. Infine, le contraddizioni - culturali, professionali, di competenza…– condizionano la comunicazione e le relazioni tra gli operatori medici e non medici attori dell’intervento - medici, infermieri, assistenti sociali, educatori, insegnanti, psicologi…- ed i destinatari dell’azione - popolazione generale, in età pediatrica, adolescenti, gravide, genitori….- con il risultato che la mancata condivisione di saperi, comportamenti e atteggiamenti può, di fatto, limitare pesantemente l’efficacia dell’azione preventiva e di promozione della salute. Fra gli stili di vita l’uso delle bevande alcoliche viene riconosciuto da più parti15,16 come il più diffuso dei fattori di rischio evitabili per la salute, coinvolge la stragrande maggioranza della popolazione generale17 , una parte della quale consuma alcolici quotidianamente e il loro consumo “non eccessivo”, decisamente sottovalutato e confuso, è accettato e condiviso. A tal proposito questo studio si propone di descrivere, a partire dalla letteratura di riferimento, l’impatto delle bevande alcoliche sulla salute della popolazione italiana, le evidenze in merito ai modelli di consumo alcolico ed i rischi ad esso correlati, le politiche di contrasto e le buone pratiche messe in atto al fine di dar risposta a questo bisogno di salute. Così come consiglia il Piano Nazionale per la Prevenzione la ricerca sperimentale ha come obiettivo la definizione dei bisogni in merito alle abitudini alcoliche delle donne in gravidanza, della popolazione giovanile nell’arco di un ventennio (1989 -2013) e dei futuri operatori della salute in modo da definire le possibili linee di intervento attuabili nel contesto dell’ospedale promotore di salute. Vale la pena di puntualizzare che i programmi di prevenzione e promozione della salute si caratterizzano per un’iniziazione precoce, un’azione continua e monitorata nel tempo e supportata da conoscenze scientifiche aggiornate. Pertanto la scelta di coinvolgere nella ricerca le donne in gravidanza è motivata dal fatto che già dalla programmazione di una genitorialità responsabile genitori e famiglia devono rendersi conto, in maniera critica e responsabile, che il loro stile di vita condizionerà quello del nascituro e che uno stile di vita scorretto è un rischio sia per loro che per i figli. Per quanto riguarda gli adolescenti questi risentono dei comportamenti degli adulti significativi e sono i possibili utenti di un intervento di promozione della salute. Si può pertanto ipotizzare che la valutazione dei bisogni di questa popolazione consenta di definire l’eventualità di un intervento di prevenzione e promozione della salute mirato a correggere conoscenze comportamenti, abitudini ed atteggiamenti scorretti e/o mantenere e potenziare uno stile di vita più favorevole alla salute. In fine, avendo chiaro che i futuri operatori della salute, nell’ambito dell’esercizio della loro professione, saranno chiamati a programmare ed attuare interventi di prevenzione e promozione della salute è richiesto loro, per il fatto che ricoprono un ruolo educativo, di possedere competenze – sapere - coerenti con i loro comportamenti – saper fare e saper essere -. La ricerca su questa particolare popolazione - futuri operatori della salute - darà risposte in merito al loro back ground culturale, ai comportamenti ed agli atteggiamenti nei confronti delle bevande alcoliche e fornirà indicazioni sulle specifiche competenze e le eventuali criticità presenti al termine del percorso di formazione. Queste informazioni costituiranno il patrimonio culturale di base da spendere al fine di intervenire in maniera mirata sulla programmazione didattica dei Corsi di Laurea per rispondere ai bisogni culturali evidenziati. Lo studio vuole descrivere le caratteristiche delle popolazioni contattate - gravide, adolescenti, futuri promotori della salute -, i bisogni rilevati in merito alle bevande alcoliche e la correlazione tra le abitudini alcoliche delle popolazioni coinvolte e quelle del contesto famigliare di provenienza. Tutto ciò per comprendere le eventuali azioni di promozione della salute che si potrebbero proporre per rispondere in maniera efficace e verificabile nell’ambito di un ospedale promotore di salute.879 757 - PublicationBiostatistical tools in neurosciences(Università degli studi di Trieste, 2012-04-17)
;Borelli, Massimo ;Battaglini, Piero PaoloLucangelo, UmbertoIn the present Ph.D. thesis main attention is focused in searching effective methods to improve the coupling of mechanical ventilators to critical care patients breath requirements, exploiting in a statistical framework the neural respiratory drive information. The first Chapter is devoted to offer an outlook, within the neuroscience perspective, on some relevant aspects of mechanical ventilation. Chapter starts recalling the neuroanatomy of human respiration, both in normal lung function and in respiratory disease condition. Consequently, the conventional mechanical ventilation methodology is briefly recalled, presenting also the risks associated to it, posing a particular accent on dyssynchronies which affect the correct interaction between the patient and the ventilator. The current technology of neural control of mechanical ventilation (NAVA) is therefore outlined, together with a review of the technical steps which have characterized its realization. Chapter ends stating the main aim of our Ph.D. research project about the possibility to exploit the random effects modelling in detecting ventilatory dyssynchronies. The second Chapter provides a complete description of the mixed-effects model capabilities in analysing neuroscience experiments, both in neurobiology and in cognitive/psychological sectors. The repeated measures and the longitudinal design experimental schemes are considered; current approaches in literature are discussed as well. The theory of the linear mixed model is illustrated by means of datasets of increasing complexity; the analysis is performed by means of the open source statistical package R. Datasets are mainly drawn from some of our co-authored papers. The third Chapter deals with the frailty models, inherent to random effects within time-to-event experimentations: after a brief recall on survival analysis, both theory and a worked example of frailty model are presented. In the fourth Chapter the limitations in applying mixed model techniques to the digital signal analysis are discussed, focusing also on some limitations still present in the available softwares. The result of our research, i.e. the Analyzer library written by means of Rcode, is presented in details and it is outlined how to import a NAVA Servo Tracker dataset into R, how to plot and how to summarize dataset information. Our Analyzer library represents the core of a machine learning software acting in the state-of-art Neuroscience-informed learning research field. A mixed model technique in analysing the NAVA signals is discussed and compared with an unpublished algorithm able to detect a widespread dyssynchrony known as 'ineffective expiratory effort' with an optimal reliability in terms of sensitivity and specificity. The algorithm is supported also by a mathematical proof, completely discussed in an Appendix of the thesis. The volume ends drawing some conclusions and prompting the path of further researches.1022 1476 - PublicationBreast Cancer Biomarkers: from Identification to Application to FFPE tissues(Università degli studi di Trieste, 2013-04-22)
;Pracella, Danae ;Bonin, SerenaStanta, GiorgioBackground: Breast carcinoma (BC) is the most common form of malignancy in women and the leading cause of cancer-related mortality among females internationally. BC includes a series of heterogeneous tumours with a great variability at histological level, biological level and clinical evolution. Because its complexity, BC treatment recommendations are continually changing with the new advances in this field. However there are still a significant number of patients with similar features that show distinct outcome. In order to detect the existing molecular differences and address patients to more personalized treatment, there is a need to find out new cancer biomarkers. Aim: The main goal of my PhD project is to investigate on the possibility of combining traditional clinical and pathological features with new candidate biomarkers for the prognostication of breast cancer. The first part concerns the prognostic role of molecular classification of primary tumours, according to luminal A, luminal B, HER-2+ and basal-like subtypes. In the second part, the prognostic value of nine candidate genes was investigated at mRNA level. The genes of interest belong to the RB pathway (CDK2, RB1), the RAS pathway (HER-2, PI3K, AKT1, AKT2, AKT3, RAF1) and cellular differentiation mechanism (CK8). Methods: This retrospective study comprises 305 BC patients, both lymph node negative (LN-) and lymph node positive (LN+). The molecular classification of primary tumours was performed by means of immunohistochemistry (IHC), using seven surrogate markers: ER, PR, HER-2, Ki67, CK8 and CK5/6, plus vimentin. Results of molecular classification were analysed with respect to morphologic and pathological features, and outcome. Moreover, the molecular characterization was also performed in a set of loco-regional metastatic lymph nodes, to compare the phenotype of primary tumour cells with their matched metastatic cells colonizing regional nodes. To the second purpose, gene’s expression was investigated in the entire cohort of primary tumours by means of real-time PCR, using the TaqMan chemistry. The expression of the nine genes was investigated in connection with the clinical-pathological factors, molecular classification and BC specific patient’s survival. Results: Regarding molecular classification of primary tumours, luminal A, luminal B, HER-2+ and basal-like accounted for 46%, 34%, 8% and 12% respectively. Luminal A tumours were mainly LN-, well differentiated and stage I, while luminal B and HER2+ showed higher tumour grade, nodal metastases as well as higher proliferation status and stage. Luminal A exhibited better survival in comparison to the other subtypes (p<0.001). HER2+ and basal-like showed a poorer outcome. Despite of the longer survival of patients with luminal tumours, they are the only one that underwent long-term recurrences. The molecular classification at the level of loco-regional metastasis, revealed that HER-2, Ki67, CK8 and vimentin positivity was significantly decreased with respect primary tumour, whereas CK5/6 positivity was increased. No significant differences for ER and PR positivity between primary and metastatic lesions were found. Regarding gene’s expression, we found a significant different distribution for all genes, except RAF-1, among LN- and LN+ groups. We also found specific pattern of genes’ expression among molecular classes for: CDK2, HER-2, PI3K, AKT2, AKT3 and CK8. Survival analysis revealed a significant and independent role on patient’s survival for one gene in luminal A tumours. Conclusions: We believe that the use of the traditional biomarkers ER, PR, HER-2 and Ki67 is essential for BC characterisation and prognostication in association with clinical pathological features. Nevertheless, we identified new molecular markers that could better distribute patients into more homogeneous subgroups of BC.1159 888 - PublicationCause delle morti materne per malattia ipertensiva della gravidanza nell'Ospedale generale materno infantile del Kilamba Kiaxi(Università degli studi di Trieste, 2009-04-15)
;Tchivandja, Quirino ;D'ottavio, GiuseppinaGuaschino, SecondoFoi um estudo retrospectivo, descritivo que baseou-se na análise de 494 mortes maternasdas grávidas ocorridas nas diferentes Províncias de Angola, no período de cinco anos(2001-2005), com o diagnóstico de doença hipertensiva gravídica, baseado nos dadosestatísticos recolhidos na Direcção Nacional de Saúde Publica, Departamento da Saúde Reprodutiva do Ministério da Saúde e de 228 falecidas no mesmo período na MaternidadeLucrécia Paim em Luanda, comparada com outras patologias.Durante o período em estudo, Luanda foi a província onde ocorreram mais óbitos 335(67,8%) muitos deles ocorreram em 2001. Houve uma redução de mortalidade por esta patologia de 2001 até 2005, tendo se registado uma diminuição de 78 óbitos em 2003.A mortalidade por doença hipertensiva gravídica correspondeu (19,5%). Para as outras causas, a hemorragia foi a maior causa de mortalidade com 610 óbitos (24%).1183 7298 - PublicationCell biomechanics and metastatic spreading: a study on human breast cancer cells(Università degli studi di Trieste, 2012-03-29)
;Tavano, Federica ;Cojoc, Danut AdrianBonin, SerenaDespite the intensive research of the past decades in oncology, cancer invasion and metastasis still represent the most important problem for treatment and the most common cause of death in cancer patients. Metastasis refers to the spread of malignant cells from a primary tumour to distant sites of the body and the adaptation of these cancer cells to a new and different tissue microenvironment. Usually, millions of cells can be released by a tumour into the circulation every day, but only a tiny minority of these cells are able to reach and colonize a distant organs: the utter inefficiency of the metastatic process implies that cells might strongly need biomechanical alterations that allow them to invade and colonize different tissues. The hypothesis that cellular biomechanics may play a significant role in tumour genesis and cancer invasion, gains every day more and more support: therefore characterizing these properties in connection with the membrane and cytoskeleton organization could be very important for understanding better the migration mechanisms and to develop new diagnostics and therapeutics tools. The goal of our study was the mechanical characterization of cell lines chosen as model of cancer progression using different biophysical techniques and the correlation of the mechanical properties with possible alterations of the cytoskeleton structure and plasma membrane composition. We used a custom built Optical Tweezers to extract the local viscoelastic properties of the cell plasma membrane, an Atomic Force Microscopy (AFM) to locally measure cell elasticity of cells, and a Microfluidic Optical Stretcher to measure the deformability of cells as whole bodies. We investigated then the actin organization of the cytoskeleton by STimulated Depletion and Emission (STED) and confocal microscopy. The lipid composition of cells was analysed by MALDI-mass spectroscopy in order to correlate the mechanical alterations of cells with alteration at the cytoskeleton and plasma membrane level. The cell lines analyzed derive from breast tissue and represent a model of human epithelial cells towards malignancy. In particular, two cell lines -MDA-MB-231 and MCF-7- provided by American Type Culture Collection (ATCC) were originally derived from breast cancers patients with different level of cancer aggressiveness. Cells were chosen according to the nowadays accepted classification of breast cancer based on gene expression pattern and proteomic expression, which divide breast cancers in subtypes that differ in terms of risk factor, distribution, prognosis, therapeutic treatment responsiveness, clinical outcomes and survival. The third cell line, HBL-100, is an immortalized but non-neoplastic cell line derived from the milk of a nursing mother with no evidence of breast lesions, representing a earlier stage of the cell transformation. A pulling membrane tether approach by means of Optical Tweezers has been chosen since it allows an accurate quantitative characterization of local viscoelastic properties of plasma membranes. Bovine Serum Albumine (BSA) coated silica beads were used to bind the plasma membrane and grab membrane tethers of several microns measuring the force exerted on the bead. By fitting with the Kelvin body model our force-elongation curves obtained by experimental data we extracted the parameters of interest: tether stiffness, membrane bending rigidity, and tether viscosity. We observed that lower values of tether stiffness and membrane bending rigidity corresponded to cells associated to a higher aggressive behaviour, while viscosity showed an inverse tendency. We also probed elasticity of the cells using by indentation experiments with AFM. We used a bead probe attached to the cantilever and measured the Young Modulus. The results obtained could not clearly discriminate the three cell types in terms of elasticity. Cell deformability was further investigated by means of Microfluidic Optical Stretcher. Cells in suspension were trapped by two counter propagating laser beams of low intensity from two optical fibers. Adjusting the intensity of the laser light, the forces acting on the cell surface increased, leading to a measurable elongation of the cell body along the laser beam axis. With MOS we were able to discriminate between cancer and control cells lines, while differences between the two cancer cell lines were not significant. However a trend could be observed: lower aggressive tumour cells were more resistant to deformation compared to the higher aggressive tumour cells. We investigated the cells cytoskeleton structure by STED and confocal microscopy confirming that malignancy involves cytoskeleton structure alterations. Differences in the organization. of the actin filaments and in the presence of actin drifts were observed. We peformed also a preliminary analysis of the cell lipid composition by MALDI MASS spectroscopy. We could observe that highly aggressive cells with softer membranes presented alterations at the level of Phosphatidylethanolamines (PEs) and Phosphatidylinositoles (PIs). The work of this thesis is partially published in the article “Custom Built Optical Tweezers for locally probing the viscoelastic properties of cancer cells” in the International Journal of Optomechatronics (June 2011). A second article including the comparative results of the biomechanical analysis on the breast cell lines is in preparation.2197 1779 - PublicationCellule Staminali di Glioblastoma: Terapia Oncolitica con Vettori Erpetici Ingegnerizzati(Università degli studi di Trieste, 2014-04-11)
;Sgubin, Donatella ;Leanza, GiampieroMartuza, Robert L.Il Glioblastoma (GBM), nonostante i migliori standard terapeutici, rimane una patologia a prognosi infausta. L’ipotesi delle Glioma Stem-like Cells (GSCs) prevede che, nella massa tumorale, sia presente una popolazione di cellule resistenti alla chemio e radioterapia e che tali cellule siano quindi le possibili responsabili della recidiva di malattia. Le GSCs, che possiedono caratteristiche comuni alle cellule staminali fisiologicamente presenti nel cervello adulto, sono cellule a lenta crescita, capaci di self-renewal, esprimono marker di staminalità, sono multipotenti e sono tumorigeniche quando vengono impiantate in vivo in modelli murini, formando lesioni istologicamente identiche a quelle originarie. Il relativo fallimento delle terapie ad oggi in uso ha portato a studiare nuove strategie dirette verso le GSCs e non soltanto verso le cellule a rapida divisione. Le terapie con virus oncolitici rappresentano, in questi termini, un approccio promettente. L’Herpes Simplex Virus di tipo 1 (HSV-1) è uno dei vettori più studiati e, nelle sue forme mutate, risulta sicuro ed efficace in vitro e in vivo. Questo studio dimostra come G47!, forma multimutata dell’HSV-1, sia in grado di infettare, replicarsi e uccidere le GSCs derivanti da linee primarie di GBM in vitro e in vivo sia in normossia, che in ipossia, condizione che, oltre ad essere comune in questo tumore, arricchisce la popolazione cellulare con caratteristiche stem-like. In questo progetto si descrive inoltre una nuova forma mutata di G47! denominata G47!Us11fluc, in cui il virus esprime luciferasi come gene late del ciclo di replicazione virale, offrendo una stima precisa del virus yield, nonchè un metodo di visualizzazione in tempo reale, con sistemi a bioluminescenza, della replicazione virale in vivo.1568 8709 - PublicationCharacterization of cancer behaviour after laser biostimulation at cellular and molecular level(Università degli studi di Trieste, 2015-03-26)
;Ottaviani, Giulia ;Biasotto, MatteoZacchigna, SerenaThe main aim of this project is to provide an answer to the following issues: - on the one hand the definition of the cellular and molecular mechanisms of action of the laser therapy and its interaction with tissues - on the other hand the safety of laser therapy and is potential consequences on cancer behaviour We created a mouse model of oral carcinogenesis to assess potential differences in tumour angiogenesis in tissues treated with laser therapy compared to the control ones, by using both histological analysis and injection of Nano FluoSpheres®. A chemical carcinogen (4-NQO) dissolved in their drinking water was administered to C57BL/6 female mice (n = 50), 8-week old, since this compound is able to induce the formation of multiple oral tumours. Among these, 25 mice underwent to 4 session of laser therapy on consecutive days employing the HPLT-1 protocol, while the remaining mice were used as controls. During the 21st week, 15 animals per group were sacrificed to perform an accurate histological analysis of their tongue, while 10 were subjected to a quantitative assessment of angiogenesis through a 3D reconstruction of the tumour vascular network after the in vivo perfusion with Nano FluoSpheres®. Any increase concerning neither the number/extension of dysplastic and neoplastic areas nor tumour angiogenesis was registered in the treated group. Moreover, treated animals showed a tendency to border and to isolate tumour areas. The laser seemed to normalize tumour vessels, promoting their covering by smooth muscle cells, thus reducing ectasia and vascular permeability, as assessed by reduced Nano FluoSpheres® leakiness. The histological analysis performed on the oral carcinogenesis mice model was compared to the images of the same tumours acquired by Narrow Band Imaging. Three raters experienced in the use of this technology analyzed the images, classifying all visible lesions according to different pathological grades; the obtained results were than compared with the histological analysis, used as reference standard. The statistical analysis revealed both high sensitivity (96%) and specificity (99%) for this technology. Supported by other studies, the Narrow Band Imaging is expected to hold great potential for the clinical evaluation of tumour angiogenesis, as well as for the early detection of potentially malignant lesions of the oral cavity. The important clinical outcome in term of wound healing and our interest in the analysis of cell behaviour after laser therapy were the starting point for the evaluation of the effect of laser therapy on different cell lines: Human Skin Fibroblasts, Human Umbilical Vein Endothelial Cells, Human Coronary Artery Smooth Muscle Cells, Neonatal Rat Ventricular Myocytes, Human Bone Osteosarcoma Epithelial Cells and Mouse B16F10 Melanoma Cells. We set different powers, energies and wavelengths, and we performed the evaluations at different experimental times (6, 24, 48 and 96 hours after the irradiation). In general, laser irradiation resulted in an increase of both cell metabolism (ATPlite) and proliferation (cell count, AlamarBlu, BrdU incorporation), albeit with different timing and intensity in the various cell lines. Consistent with published results, we observed a clear increase in cancer cell metabolism upon laser irradiation; to evaluate the cancer behaviour in vivo, the same melanoma cells were implanted in C57BL/6 female mice (n = 16), 6-week old, at the dorsal subcutaneous level. As soon as the masses were visible to the naked eye (approximately on day 10), mice were homogeneously divided into 4 groups according to tumour size: 3 groups were subjected to different laser protocols (LPLT-6; MPLT-13 and HPLT-7) for 4 consecutive days (days 11 to 14), while the fourth group was used as control. On day 15, all animals were euthanized to measure the tumour volume and weight. A deep histological analysis on tumour invasion and cancer immune response (CD1a, CD4, CD8, CD25, CD68 kp1 and Melan-A) was performed, as well as the analysis of the expression levels of cytokines involved in the immune system activation (TNFα, IFNα and IFNγ). Laser therapy did not foster tumour growth or invasiveness (CD68 kp1 and Melan-A), but rather seemed to contain its extension. Moreover, in the laser groups, tumour infiltration by immune cells was much more higher compared to the control ones (CD4+, CD8+, CD25+ cells), consistent with the increased expression of IFNγ. Of notice, CD1a positive dendritic cells were particularly abundant in the dermis in the control group, while they migrated to "wrap" the tumour in laser groups. Based on these results, we applied the same laser protocols on primary mouse bone marrow dendritic cells, with and without lipopolysaccharide stimulation. These cells did not enhance cell metabolism upon laser treatment, but reduced TNFα and increased IFNγ expression. Finally, CD-1 female mice (n = 30), age 6-7 weeks old, were used to assess the expression of different cytokines (Collagen I, Collagen III, Collagen IV, FSP1, IL-2, IL-6, IL-10, IFNα, IFNβ, IFNγ, MMP-9, PDGFβ, TGFβ, TNFα) after the laser therapy at the dorsal level with and without the presence of a skin wound. The analysis confirmed an increase in the IFNγ expression; a similar trend was registered concerning IL-2, IL-6, IFNα, IFNβ, Collagen I, Collagen III, MMP-9, PDGFβ expression in the laser treated mice compared to controls. From both in vitro and in vivo analysis we can state that the laser therapy is effective in stimulating cell metabolism and proliferation, and in boosting a potent immune response in vivo. We can therefore foresee that the treatment of cutaneous and mucosal lesions in oncological patients can be safely performed even in potentially dysplastic or neoplastic areas.850 603 - PublicationIl colloquio nel counselling medico delle gravidanze gemellari(Università degli studi di Trieste, 2014-03-17)
;Cavagna, ElsaGhilardi, AlbertoINTRODUZIONE La gravidanza gemellare è da sempre argomento di grande fascino, mistero, ma anche preoccupazione per le numerose problematiche materne e fetali che comporta. Infatti, nonostante i progressi della medicina, essa continua a presentare un maggior rischio rispetto alle gravidanze singole a tutte le epoche gestazionali, una maggiore incidenza di morbilità e mortalità perinatale, di patologie gravidiche e di complicanze al parto. Nonostante il grande interesse verso il “fenomeno gemelli”, la letteratura sull’argomento non è particolarmente ricca e questo deficit d’informazione costituisce un aspetto problematico per le famiglie, che talvolta rischiano di far prevalere sugli aspetti positivi del “mettere al mondo una coppia”, gli aspetti di stress e di fatica. Uno strumento fondamentale in grado da un lato di arginare il senso di smarrimento delle coppie in attesa di gemelli e dall’altro, di incrementare il loro livello di conoscenza, è rappresentato da un’adeguata formazione ed informazione rispetto a tutti gli aspetti connessi alla gemellarità. Numerosi contributi scientifici dimostrano, infatti come una buona comunicazione centrata sul paziente, caratterizzata da chiarezza e completezza delle informazioni, e da uno stile relazionale accogliente, contribuisca a mantenere l’ansia entro livelli contenuti e favorisca la compliance delle pazienti ai vari trattamenti. Il management della gravidanza gemellare rappresenta quindi un argomento molto controverso della moderna ostetricia e il momento del counseling medico si contraddistingue come un aspetto cruciale del percorso dell’intera gravidanza. Tra i motivi della necessità di una gestione specialistica accurata e personalizzata vi è anche il costante incremento delle gravidanze gemellari frutto spesso di metodiche di fecondazione assistita che contraddistinguono la genitorialità come risultato di una scelta consapevole ma che allo stesso tempo vede i futuri genitori costretti a prendere decisioni impegnative che riguardano il ricorso a metodiche invasive per intervenire sulle varie complicanze che, come accennato in precedenza, possono presentarsi a qualsiasi epoca gestazionale. LA RICERCA Nell’ideare e nel realizzare la ricerca, si è cercato di mettere in luce la complessità della comunicazione medico-paziente come un aspetto che contribuisce alla creazione di una delle relazioni sociali più complicate poiché riguarda il rapporto tra individui che si trovano in posizioni non paritarie, è connotata emotivamente e richiede una stretta collaborazione tra gli attori coinvolti (Ong et al.,1995). Oggetto principale di questo studio è la “Pragmatica della comunicazione medico-paziente”, ovvero degli effetti che la comunicazione esercita sul comportamento dei pazienti, in uno specifico ambito: il colloquio medico nel counselling delle gravidanze gemellari. Presupposto fondamentale in questa concezione è l’idea che la relazione tra medico e paziente sia costruita attraverso la loro interazione e attraverso la comunicazione che hanno luogo in un contesto che è “matrice dei significati” e contribuisce a dare forma e senso alla comunicazione. La ricerca di una modalità comunicativa sempre più efficace ed attenta alle esigenze dei pazienti in questo ambito così particolare e carico anche di profondi aspetti emotivi, nasce dalla sensibilità dei medici dell’ambulatorio delle gravidanze gemellari che accettano la sfida dell’apprendimento di una nuova modalità di comunicare, per migliorare sempre di più il rapporto medico-paziente. In particolare il lavoro si è focalizzato sul modello della medicina “Patient centred” (Moja, Vegni, 2000) che sottolinea l’importanza degli aspetti della comunicazione e della relazione all’interno della consultazione clinica e più in generale, nei percorsi di cura. Numerosi lavori sulla medicina centrata sul paziente si focalizzano sul raggiungimento di una comunicazione efficace (Stein, 2005), poiché è ormai stabilito chiaramente che specifici comportamenti comunicativi dei medici sono associati ad un incremento dello stato di salute dei pazienti, all’aderenza al trattamento e alla loro soddisfazione. L’influenza delle modalità comunicative e comportamentali dei medici sui pazienti è un punto centrale di questo lavoro in cui si è cercato di mettere a confronto gli effetti di due modalità comunicative su due gruppi di coppie in attesa di gemelli. Lo studio ipotizza che una pertinente formazione dei medici alla comunicazione centrata sul paziente produca, rispetto a un gruppo di controllo, un cambiamento nel livello d'ansia, una maggiore soddisfazione della coppia al termine delle visite ed una migliore memorizzazione delle informazioni ricevute. Si sono presi in considerazione questi indicatori, in quanto le ricerche in letteratura riportano un alto livello d'ansia, una scarsa soddisfazione e un'inadeguata memorizzazione delle informazioni dopo i colloqui con i medici; questi indicatori a breve termine sono variabili attraverso le quali può essere definita e valutata l'efficacia della comunicazione tra medico e paziente. La connessione tra comunicazione e aderenza ai trattamenti, tra comunicazione e soddisfazione dei pazienti, e l’analisi degli stili comunicativi del medico, sono alcuni dei temi che sono stati al centro dell’attenzione degli studi condotti in quest’ambito poiché è sempre più chiaramente dimostrato che le variazioni nei processi di comunicazione influenzano in modo rilevante proprio gli atteggiamenti e i comportamenti del paziente (la sua soddisfazione circa la visita medica, l’attenersi alle prescrizioni del medico e la riduzione delle sue preoccupazioni) (si vedano ad esempio Ong et al., 1995; Brédart et al., 2005). La vasta letteratura specialistica mette in evidenza che migliorare la comunicazione tra medico e paziente ha un impatto favorevole sulla soddisfazione dei pazienti circa la visita, il trattamento e la relazione stessa con il medico (Bredart et al., 2005; McDonagh et al., 2004; Eide et al., 2003; Ong et al., 2000a). ARTICOLAZIONE DELLA RICERCA FASE 1: OSSERVAZIONE DELL’INTERAZIONE COMUNICATIVA TRA MEDICO E PAZIENTE IN UN SETTING NON MODIFICATO. Lo studio si compone di più fasi. Nella prima fase sono stati osservati per tre sessioni nell’arco di due mesi i sette medici che si occupano del counselling delle gravidanze gemellari con l’ausilio della scheda Osce, “Objective Structured Clinical Examination” (OSCE-esame clinico strutturato Harden 1975), che analizza tutte le parti salienti della comunicazione medico-paziente. La presenza dell’osservatore era stata introdotta dalla responsabile dell’Unità Operativa spiegando che era in corso una ricerca sui gemelli. L’osservatore era presente durante il couselling e non veniva percepito come elemento di disturbo né per i medici, né per le coppie. Contemporaneamente è stata verificata l’autopercezione delle proprie competenze comunicative, nel gruppo dei medici coinvolti nello studio, attraverso un questionario “Percs” The Program to Enhance Relational and Communication Skills (PERCS). L’osservazione dello “stato dell’arte” della comunicazione è stata condotta con un campione di controllo di 35 coppie in attesa di gemelli, durante la prima visita ecografica a cui è stata somministrata una serie di strumenti di valutazione che verranno discussi nel paragrafo relativo agli strumenti. Come accennato in precedenza, ogni medico è stato osservato in tre sessioni separate, a distanza di tempo, compatibilmente con i turni di ambulatorio. Per “sessione” si intende l’intera mattinata dedicata all’ambulatorio delle gravidanze gemellari, e quindi anche 7-8 colloqui per mattinata. Si è stabilito un numero di tre osservazioni per cercare di ridurre quanto più possibile il bias dell’osservatore e ogni colloquio di ogni sessione era codificato con la griglia Osce. L’utilizzo di questa checklist ha permesso l’individuazione di alcune aree critiche (identificate con un numero elevato di presenza di “comportamenti mancanti”) e la predisposizione di un percorso di formazione mirata al comparto medico che compensasse tali aree critiche e il cui obiettivo era verificare se un setting modificato, ovvero un nuovo modo di condurre il counselling, producesse effettivamente delle differenze statisticamente significative nel livello di ansia, nella soddisfazione della coppia verso il colloquio e nella qualità del ricordo. Per le sue caratteristiche peculiari, il modello di “medicina centrata sul paziente” (Moja e Vegni, 2000) è il modello che si è deciso di introdurre, con la speranza di verificare gli eventuali cambiamenti prodotti sugli indicatori che sono stati ritenuti importanti nella gestione ottimale delle gravidanze gemellari. FASE 2 : IL POST FORMAZIONE A formazione completata, tutte le osservazioni della fase precedente sono state ripetute con le stesse modalità, partendo dall’osservazione dei medici attraverso la griglia Osce, proseguendo con una nuova verifica della loro autopercezione delle competenze comunicative e terminando con il reclutamento di altre 35 coppie durante la visita del primo trimestre. La natura dello studio, il suo carattere descrittivo, e gli obiettivi di ricerca hanno comportato, dal punto di vista metodologico, la scelta di metodi di ricerca sia di natura qualitativa, più adatti a rilevare e a descrivere i processi comunicativi, sia quantitativi, rispondenti alla necessità di misurare i risultati del processo. IL CAMPIONE Più in particolare, la ricerca prevede l'utilizzo di due condizioni di osservazione e valutazione: nella prima fase pre-formazione sono state osservate 35 coppie di genitori in attesa di gemelli, e nella fase successiva alla formazione, un analogo gruppo sperimentale, con le stesse caratteristiche del primo. Le prime 35 coppie di genitori hanno ricevuto un colloquio informativo in un setting non modificato (corrispondente allo studio di come avvengono abitualmente i colloqui). Al contrario, il gruppo sperimentale, formato da 35 coppie di genitori in attesa di gemelli ha ricevuto lo stesso colloquio in un setting modificato dalla formazione dei medici verso un modello di visita “centrata sul paziente”. Particolare cura è stata dedicata nella selezione del secondo campione in modo da ottenere due gruppi quanto più omogenei per età, livello di scolarità e tipo di gravidanza (indotta o spontanea) . La ricerca prevede quindi tre gruppi di soggetti: 1. Il gruppo dei medici che si occupano del counselling delle gravidanze gemellari; 2. Il gruppo di genitori reclutati prima della formazione dei medici; 3. Il gruppo dei genitori reclutati dopo la formazione dei medici. GLI STRUMENTI DI VALUTAZIONE Per valutare l'esito del colloquio , gli strumenti individuati sono: • STAY-Y (C.D. Spielberger): per la misurazione dello stato d'ansia prima e dopo il colloquio • HCCQ “Health Care Communication Questionaire” (P. Gremigni, M. Sommaruga): per la valutazione della soddisfazione dei genitori rispetto al colloquio appena terminato • “Scala dello stile di coping” (A.L. Comunian): per l'individuazione dello stile di coping dei genitori • Questionario per il ricordo: da compilare entro due settimane dopo il colloquio Per i medici, sono stati utilizzati i seguenti strumenti. • GRIGLIA OSCE: scheda di osservazione della consultazione medico/paziente e valutazione delle abilità comunicative • Questionario PERCS (Program to Enhance Relational and Communication Skills): per verificare le convinzioni di autoefficacia comunicative dei medici ANALISI STATISTICHE Al fine di valutare l’eventuale differenza tra i gruppi, sono stati applicati test parametrici (t test) e non parametrici (Mann Whitney), in funzione della distribuzione dei dati. Si è considerato un valore di p<.01quale indicatore di significatività statistica. Per valutare l’eventuale presenza di associazioni tra le variabili (ansia di stato post colloquio e soddisfazione verso il colloquio; ansia di stato post colloquio e stili di coping) è stato calcolato il coefficiente di Pearson, ad un livello di significatività di 0.05 e 0.01. L’analisi statistica dei dati è stata effettuata con il programma SPSS versione 18.0 per Windows. PRINCIPALI CONCLUSIONI Per verificare come i medici che si occupano del counselling delle gravidanze gemellari gestiscono la conversazione clinica, la relazione con le coppie che afferiscono all’ambulatorio, vi è stata una fase preliminare di osservazione di ogni medico da parte di un osservatore esterno che, con l’uso di un’articolata check-list guida di osservazione, ha segnato tutti i comportamenti che il medico mette in atto durante le varie fasi del colloquio. In particolare questo strumento di osservazione divide ogni consultazione clinica nei suoi momenti salienti: l’inizio della sessione, la raccolta delle informazioni, la costruzione del rapporto e la chiusura della sessione. Le osservazioni svolte ai medici prima che essi ricevessero la formazione hanno messo in luce uno stile comunicativo molto chiaro, orientato alla risoluzione del problema. Le osservazioni dei medici prima della formazione evidenziano anche che essi usano un comportamento verbale appropriato, mantanendo una posizione di neutralità anche davanti a prese di posizione forti dei pazienti. Ciò che invece nella fase pre-formazione risultava essere molto meno frequente erano le parti maggiormente connesse agli aspetti emotivi del counselling. Con la formazione vi sono state delle leggere modifiche come dimostra l’incremento delle frequenze registrate per alcuni item della checklist. Da quanto osservato emerge che lo stile comunicativo prevalente dei medici che si occupano del counselling delle gravidanze gemellari è orientato al problema: si tratta cioè di una comunicazione strumentale (Ong.et. al, 1995) attraverso la quale i medici forniscono informazioni utilizzando un linguaggio chiaro, specialistico ma comunque accessibile ai pazienti. Numerosi studi mettono in evidenza che la quantità ed il dettaglio delle informazioni fornite durante le visite, migliorano sia il ricordo che la soddisfazione dei pazienti (Ong.et.al, 1999). La ricerca in oggetto è strutturata come un’osservazione a più livelli, in diversi momenti; la verifica dell’efficacia della formazione, o meglio, la verifica degli eventuali cambiamenti prodotti dalla formazione è stata effettuata sia attraverso questionari di autovalutazione dei medici, sia con osservazioni dirette con l’ausilio di apposite checklist, che attraverso la misurazione di outcome accuratamente selezionati come il livello di ansia di stato dei pazienti dopo il colloquio medico e la loro soddisfazione rispetto al counselling ricevuto. Uno degli obiettivi centrali dello studio era verificare se la formazione al comparto medico avesse prodotto dei cambiamenti nello stato d’animo dei pazienti, se cioè il loro livello di ansia dopo il colloquio medico, fosse diverso nei due gruppi di pazienti testati. Dall’osservazione dei dati che abbiamo elaborato è stato possibile osservare che in entrambi i gruppi di genitori in attesa di gemelli, sia le mamme che i papà sono caratterizzati da un’ansia di tratto molto bassa, addirittura inferiore al livello medio della popolazione di riferimento, il che sta ad indicare che queste persone, generalmente non dovrebbero presentare disturbi di tipo ansioso nella loro quotidianità. Tuttavia, il livello medio di ansia (di stato) di tutti i soggetti testati nel momento immediatamente precedente il counselling, aumenta, in particolare nelle coppie che hanno una gravidanza gemellare indotta. Questo dato conferma quanto affermato dalla letteratura che descrive il colloquio medico come un evento stressante, caratterizzato da una disparità di livello tra medico e paziente. Le donne, sia del gruppo di controllo che del gruppo sperimentale, mostrano un livello di ansia più elevato rispetto agli uomini di entrambi i gruppi. Il dato veramente sorprendente deriva dalla misurazione del livello dell’ansia di stato immediatamente dopo il colloquio. Tutti i soggetti, infatti, erano stati invitati a compilare lo Stai-Y anche dopo la visita medica, unitamente agli altri questionari utilizzati per la valutazione della soddisfazione dei pazienti verso il colloquio medico e per l’identificazione dello stile di coping utilizzato dalle coppie in un momento emotivamente cosi importante. Osservando i dati relativi al gruppo delle mamme, si è potuto evidenziare che il livello medio di ansia misurato subito dopo il colloquio, si è significativamente ridotto, attestandosi addirittura sotto il livello medio di ansia della popolazione generale. Questo trend è stato rilevato sia per le mamme del gruppo di controllo, quelle cioè che hanno ricevuto il counselling da medici non formati, che per le mamme che hanno ricevuto il counselling dai medici formati. Il medesimo trend si è verificato nei gruppi dei padri: sia i futuri papà del gruppo di controllo che quelli del gruppo sperimentale, vivono una significativa diminuzione del livello medio dell’ansia di stato dopo aver ricevuto il counselling. Un altro importante obiettivo, suggerito dallo studio della letteratura era verificare se vi potesse essere una correlazione tra il livello dell’ansia dei pazienti subito dopo il colloquio e la soddisfazione verso il colloquio stesso. I dati che abbiamo analizzato mostrano come nel gruppo delle mamme che ricevono il colloquio dai medici non formati, il livello di ansia correli negativamente sia con dimensione “problem solving “ che con la dimensione “respect”, nonché alla “non verbal immediacy”. Queste tre dimensioni fanno riferimento rispettivamente alla capacità del medico di mettere in atto comportamenti orientati alla risoluzione dei problemi, alla loro competenza nel fornire informazioni chiare ed appropriate che consentono ai pazienti di prendere decisioni importanti in maniera consapevole ed autonoma e al comportamento affiliativo mostrato dal medico che riesce ad avere un dialogo chiaro ma non distanziante da un punto di vista psicologico. la modalità del “colloquio strumentale”, caratteristica del gruppo dei medici non formati, è in grado di assolvere a ben due importanti funzioni: in primo luogo, non solo contiene, ma addirittura riduce sensibilmente il livello di ansia percepita dai pazienti. In secondo luogo, tali pazienti, sentendosi rassicurati dalle informazioni ricevute e dalla modalità comunicativa, esprimono la loro soddisfazione verso il colloquio stesso. Per quanto riguarda le mamme del gruppo sperimentale, ovvero del gruppo che riceve il counselling dai medici formati, l’analisi dei dati non ha rilevato delle significatività statistiche nelle correlazioni tra il livello dell’ansia e la soddisfazione verso il colloquio, espresso attraverso il testi HCCQ. Ciò nonostante, dobbiamo però ricordare che anche l’ansia di stato misurata nel gruppo sperimentale delle mamme, si riduce in maniera significativa e quindi un effetto terapeutico è comunque raggiunto. L’ipotesi relativa alla verifica di una eventuale correlazione tra il livello d’ansia e l’utilizzo di determinate strategie di coping da parte dei pazienti, ha evidenziato come le mamme del primo gruppo, quelle che hanno ricevuto il counselling dai medici non formati, usino strategie di coping sia razionali che relazionali per tener sotto controllo lo stress del momento. Attraverso le strategie di coping relazionale le mamme usano le proprie skill di socializzazione per ridurre lo stress, così come succede anche per le strategie di coping razionale. Nel gruppo delle mamme che ricevono il counselling dai medici formati, è maggiormente diffuso un coping di tipo difensivo per tener sotto controllo il livello di stress generato dalla situazione. La sensibilità dei padri che ricevono il colloquio dai medici non formati orienta la loro preferenza verso il fattore della “Non verbal Immediacy” che risulta essere l’aspetto maggiormente coinvolto nel contenimento della loro ansia. Tale dimensione fa specifico riferimento all’atteggiamento empatico del medico che si dimostra in grado di gestire questa relazione così complessa. Contemporaneamente questo gruppo di pazienti utilizza strategie di coping di tipo difensivo nella direzione della gestione dell’emotività, probabilmente escludendo dal proprio orizzonte cognitivo ciò che è ritenuto troppo pericoloso e inaccettabile. Nel gruppo dei papà che ricevono il counselling dei medici formati sul modello “Patient centred”, l’aspetto che viene ritenuto più importante risulta essere la dimensione del “Problem solving” che fa riferimento all’abilità dei medici di gestire efficacemente una comunicazione complessa. Se si riconsidera quanto era emerso dalle osservazioni dei colloqui attraverso la griglia Osce, la perizia dei medici nella gestione degli aspetti tecnici e clinici era ineccepibile in entrambi i gruppi. Sembra quindi che l’aspetto della comunicazione strumentale correli significativamente con la soddisfazione di questi pazienti, come peraltro suggerisce una parte degli studi ai quali si è fatto più volte riferimento (Ong et al.,1995). L’interesse verso un modello ed uno stile comunicativo che mettesse il paziente al centro dell’attenzione del clinico deriva ancora una volta dallo studio della letteratura che evidenzia come la patient-centredness sia significativamente correlata alla compliance ai trattamenti nonché alla comprensione e memorizzazione delle informazioni. Questo aspetto è particolarmente importante in comunicazioni in cui possono esservi aspetti forieri di stress che potrebbe interferire con la memorizzazione ed il ricordo delle informazioni ascoltate (Ong et al., 1995). L’insufficiente memorizzazione può comportare a sua volta nei pazienti la percezione di disporre di una quantità insufficiente di informazioni, percezione che può peggiorare ulteriormente i vissuti di incertezza e di ansia. Gli studi indicano che è soprattutto la quantità di informazioni mediche fornite ad essere correlata al ricordo, mentre l’atteggiamento “affettivo” del medico risulta più debolmente collegato al ricordo (Ong et al.,2000). Attraverso un questionario di dieci domande che facevano riferimento al contenuto del counselling, si è tentato di esplorare il ricordo delle pazienti ad una settimana circa dalla visita. Purtroppo solo un numero molto limitato di pazienti sia del primo che del secondo gruppo hanno risposto al nostro questionario; ciò che abbiamo potuto verificare è che non vi sono differenze significative nella qualità del ricordo tra i gruppi, ad eccezione della domanda che faceva riferimento al ricordo del nome del medico che aveva condotto il colloquio; coerentemente da quanto evidenziato dalla griglia Osce, le pazienti del primo gruppo non ricordano il nome del medico, poiché prima della formazione, nessun dottore si presentava per nome. Risposte errate in entrambi i gruppi riguardano il significato clinico di esami di screening proposti durante il counselling e la gestione di alcune complicanze, come le infezioni batteriche, argomenti ampiamente discussi durante il colloquio. Emerge quindi che sebbene la comunicazione sia gestita in maniera ottimale, alcuni aspetti importanti non vengono adeguatamente memorizzati, forse a causa dell’elevato livello di ansia provato prima del colloquio o per l’elevato numero di informazioni trasmesse. Non è quindi lo stile comunicativo ad essere ostacolo alla memorizzazione e comprensione delle informazione, ma lo stato d’animo nel qui ed ora delle pazienti. A tal proposito ci è sembrata una strategia efficace quella di dedicare ai genitori in attesa di gemelli una pubblicazione dal titolo “Arrivano i gemelli: tutto quello che ti può essere utile sapere sulla gravidanza gemellare”, che viene consegnata ad ogni coppia in occasione del counselling del primo trimestre. Ultimamente l’Unione Europea sta puntando alla dissemination delle informazioni e alla Health Literacy che potrebbe essere letteralmente tradotta come “Istruzione o alfabetizzazione alla salute”. Tuttavia l’Organizzazione Mondiale della Sanità, definendo il ruolo della Health Literacy, fa riferimento a “competenze sociali e cognitive che determinano la motivazione e l’abilità degli individui di ottenere accesso, comprendere e usare l’informazione in modo da promuovere e mantenere un buono stato di salute”. Un prezioso aspetto della Health Literacy riguarda la possibilità di migliorare l’accesso delle persone all’informazione sulla salute e la loro capacità di usarla con efficacia, per cui la Health Literacy è una forma cruciale di empowerment. Proprio in quest’ottica si è sviluppata l’idea di scrivere un compendio informativo cartaceo da consegnare a tutte le coppie che si rivolgono all’ambulatorio delle gravidanze gemellari per la consulenza del primo trimestre. Questo opuscolo è quindi in linea con un nuovo trend europeo che sposta gli investimenti sul piano della salute, dalla pubblicazione scientifica alla formazione della popolazione generale e alla sua crescita culturale e conoscitiva sui temi della salute. L’opuscolo è frutto della collaborazione di ginecologi, genetisti, neonatologi, psicologhe ed ostetriche che si sono impegnati per aiutare le coppie in attesa di gemelli a meglio comprendere la loro esperienza di genitori di gemelli e rispondere ai loro bisogni. La brochure non intende sostituire la comunicazione con i medici; essa rappresenta invece uno strumento chiaro che può essere utilizzato dalla coppia ogni volta che sorge un dubbio, non si ricorda un’informazione, si desidera approfondire un aspetto della gravidanza gemellare. La pubblicazione contiene informazioni riguardo ai vari tipi di gravidanza gemellare, a come viene fatta la diagnosi e quali sono i principali rischi dei diversi tipi di gravidanza. Viene descritta la sindrome della Trasfusione feto fetale e le modalità di intervento attuate presso gli Spedali Civili di Brescia. Vi è un capitolo dedicato alla gestione del parto e alla descrizione del reparto di Terapia intensiva neonatale, all’interno della guida vi sono anche fotografie e disegni per aumentare al massimo la chiarezza di quanto trattato. Una sezione è dedicata ai corretti stili di vita per avere una buona gravidanza e, considerando il profondo impatto emotivo della gemellarità, sono stati trattati anche alcuni importanti aspetti psicologici della relazione tra genitori e gemelli. Alla luce di questo ampio lavoro di “osservazione sistemica” possiamo concludere ribadendo ancora una volta come la comunicazione tra medico e paziente abbia un ruolo fondamentale all’interno del processo di cura e sia lo strumento principale attraverso cui si costruiscono le singole relazioni .1235 5329