Opere d'arte d'Ateneo
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- Publication281p510 Temni OtokHmeljak, MatjažL’opera in esame è giunta nelle collezioni dell’ateneo grazie a una donazione dell’artista dopo che nella sala atti della facoltà di economia era stata allestita tra il 15 marzo e il 20 luglio del 2007 una sua personale dal titolo Matjaž Hmeljak Proposta 51. In quell’occasione Hmeljak, allora docente di Fondamenti di informatica ed Elementi di grafica digitale alla Facoltà di Ingegneria dell’Università di Trieste, aveva presentato una serie di elaborazioni algoritmiche stampate con procedimento digitale su supporti rigidi, rinunciando alle potenzialità visive dell’immagine video ma allo stesso tempo rendendole immediatamente fruibili. Hmeljak infatti aveva iniziato a dedicarsi all’arte intorno al 1970 collaborando con Edward Zajec, uno dei pionieri della computer-art in Italia, e realizzando progetti che sfruttavano le funzioni algoritmiche dei processori per ottenere rappresentazioni grafiche. Dopo aver concluso intorno al 1984 questo percorso, l’artista ha iniziato a lavorare alla scrittura di programmi per la creazione di strutture visive per arrivare progressivamente all’animazione delle immagini stesse. Per quanto tutta la sua produzione sia frutto di algoritmi elaborati al computer, rimane evidente che ogni sua creazione derivi da una serie di ‘errori’ indotti dall’operatore e sia frutto di una selezione finale che spetta a lui e a lui soltanto. Hmeljak è diventato così uno degli interpreti più significativi di un orientamento dell’arte digitale che si può definire con buona approssimazione espressionismo geometrico astratto. Per questo suo procedere Matjaž Hmeljak può essere definito algorista, colui cioè che utilizza gli algoritmi generati da un elaboratore elettronico per creare le proprie opere. Dal punto di vista strettamente linguistico si tratta di una crasi tra algoritmo e artista, ma è anche una sintesi tra le capacità operative della macchina e quelle dell’uomo, oppure tra due sistemi possibili, entrambi con infinite possibilità. Algorista è lo stesso appellativo che molti studiosi, anche se con accezione diversa, attribuiscono al matematico pisano Leonardo Fibonacci: la sequenza numerica che porta il suo nome, dove ogni elemento è uguale alla somma dei due precedenti, aveva affascinato Mario Merz tanto da dedicarle installazioni che risalgono all’inizio degli anni settanta: gli stessi anni in cui Hmeljak si affacciava sul palcoscenico dell’arte digitale. Sembrerebbe paradossale pensare che un’operazione algebrica possa avere una qualche valenza artistica ma basta spostare il fuoco sulla musica e sulla sua continua interazione con i processi matematici per comprendere subito come sia possibile una tale commistione. Il risultato, per quanto riguarda l’opera in esame, è un caleidoscopio cromatico che può effettivamente ricordare l’isola suggerita dal titolo, un’isola che cambia natura a seconda della paletta di colori che viene proposta dall’elaboratore, diventando via via Otok (Island), Otok Otroških Sanj (Child Dream’s Island), o Temni Otok (Dark Island), variando progressivamente anche la matrice numerica che contraddistingue ogni suo “progetto”. Dare una forma grafica al libero fluire di dati è forse il principale punto di partenza dell’arte di Hmeljak: “più che di un processo di manipolazione del segnale elettronico, si tratta della progettazione e della creazione di nuove strutture visive, in buona sostanza, della restituzione ottica di flussi di energia piegati e ricondotti alla propria interna musicalità. Si disegna così un’inquieta parabola delle relazioni interne tra percezione e sogno, una coscienza che è altro dalla nostra. Ambiguità spaziale e senso di instabilità si coniugano nel procedere verso quella che potremmo definire una razionalità allargata e moltiplicata, un confronto tra la nostra interiorità e il caotico dispiegarsi di forme piegato alle esigenze del processore, uomo o macchina che sia” (De Grassi 2007).
145 81 - PublicationAllegoria del fascismo e della lotta alle sanzioniMoschi, MarioIl gigantesco altorilievo era stato commissionato, senza concorso, allo scultore fiorentino Mario Moschi, che già aveva collaborato con Raffaello Fagnoni a Firenze negli anni precedenti (cfr. Fernetti 2010, p. 50) eseguendo dei bassorilievi alla Scuola di applicazioni aeronautiche di Firenze. Come è stato rilevato, il generale riferimento pergameneo evocato per l’intero complesso edilizio del nuovo ateneo Triestino vale anche per i due grandi rilievi, previsti sin dai primi schizzi: essi “non appaiono elementi estranei all’architettura ma parte integrante di essa, come dell’altare ricordato lo era il fregio raffigurante una gigantomachia” (cfr. Sirigatti 1997, p. 270). Nel caso specifico poi il riferimento era anche tematico, visto che si trattava anche qui di rappresentare una lotta immane contro forze oscure, come si poteva dedurre dall’enfatica descrizione della scultura che si leggeva sulle colonne de “Il Piccolo” il giorno dopo l’inaugurazione, avvenuta nel marzo del 1943 dopo tre anni di lavori e forzatamente sottotono a causa delle ristrettezze belliche: “da una parte l’immane drago tricipite che si rizza saettando le lingue forcute, dall’altra un mostruoso serpente che avvolge e minaccia di stritolare nelle sue spire la bellezza e il vigore della giovane vita italiana e nel centro il Duce debella gli orribili mostri”, isolata e con l’aria un po’ smarrita, tra i due gruppi si legge la figura dell’Italia con il canonico copricapo turrito, attonita di fronte agli accadimenti che la circondano. Il tutto era stato realizzato attingendo a un ampio repertorio di citazioni: dal masaccesco Adamo cacciato dal Paradiso, evocato nella figura all’estrema destra, al più trito repertorio dell’iconografia di regime, compreso un improbabile duce nudo a cavallo. Alcuni disegni dell’archivio Fagnoni di recente pubblicati (Fernetti 2010, pp. 53, 55), consentono anche di chiarire, almeno in parte, l’iter compositivo. In una prima fase, a leggere le didascalie dei fogli, i due rilievi dovevano rappresentare rispettivamente le “opere di guerra” e le “opere di pace”, dove le prime avevano come soggetto una carica di figure paludate all’antica con labari e bandiere, guidate da un cavaliere con la spada sguainata e da una slanciata Fama in volo e da una sorta di angelo sterminatore. Di questa prima idea, che pareva calcata da una danza macabra medievale, è poi sopravvissuto solo il cavaliere e una delle figure femminili ‘volanti’, entrambi però inseriti in un contesto molto più statico, dove l’impeto guerriero era stemperato nei due episodi principali: la lotta del condottiero contro il grande dragone alato da una parte, e dall’altra il “mostruoso serpente” che avvolge con le sue spire una figura femminile dai lunghi capelli (quindi non il fascismo come pure è stato scritto) con in mano un ramoscello d’ulivo e nell’altra una fiaccola e un fascio littorio, identificabile piuttosto come l’Italia Fascista aggredita dall’Idra delle sanzioni. Il bozzetto definitivo dell’altorilievo (Sirigatti 1997, p. 270), pressoché identico alla redazione finale, mostra, com’è ovvio, una maggiore morbidezza nei trapassi chiaroscurali, in parte avviliti da una trasposizione fin troppo meccanica da parte degli scalpellini incaricati. Vista la particolare tematica e quanto questa poteva evocare, non è un caso che il rilievo sia stato per molto tempo ‘dimenticato’ dalla storiografia specializzata in quanto solo in minima parte ‘emendato’ (nel volto del duce opportunamente scalpellato) e pochissimo riprodotto, mentre maggiore enfasi sarà data al rilievo gemello, realizzato diversi anni più tardi e di certo più ‘politicamente corretto’.
463 485 - PublicationAnello degli ArgonautiMascherini, MarcelloPer la città di Trieste il completamento del corpo centrale dell’Università per mano di Umberto Nordio e Vittorio Frandoli ha nel dopoguerra una valenza particolare: l’edificio doveva infatti interpretare “la necessità che la cultura italiana di Trieste avesse una palese affermazione ai confini della patria, incorporandosi in un’opera che dominasse per mole e proporzioni tutto il panorama, che si ergesse quale pilone d’ingresso della città sulla via proveniente dal confine” (FAGNONI, NORDIO 1950, p. 5). Per la decorazione del soffitto dell’aula Magna Nordio sceglierà un lavoro di Marcello Mascherini pensato per il soffitto della veranda di prima classe della ristrutturata nave Conte Biancamano, oggi ricomposta al Museo della Scienza e della tecnica di Milano, il grande anello in gesso che raccontava con una sequenza di bassorilievi il mito di Giasone. Narrando del viaggio degli Argonauti lo scultore faceva emergere “il sentimento della separazione e dell’incertezza sul proprio destino, che trova nel mito di fondazione dei propri territori una possibile origine comune tra popoli diversi, capace di unire invece che dividere. Ma nell’ultimo episodio […] Giasone muore schiacciato dalla carena della sua stessa nave mentre dormiva, conferendo all’opera un ulteriore significato simbolico. Può Trieste evitare di rimanere travolta dalla storia? Può Trieste trovare una catarsi nel sacrificio dei suoi territori per ritornare all’Italia? Il Biancamano risorto dalle ceneri della guerra, come una nuova Argo in viaggio per impadronirsi del Vello d’oro, parte per la conquista dell’italianità della città giuliana” (M. Mucci, Architettura e ricostruzione nel periodo del Governo Militare Alleato, in La città delle forme architettura e arti applicate a Trieste 1945-1957, catalogo della mostra di Trieste a cura di S. Caputo, M. Masau Dan, Trieste 2004, p. 121). Significati che giocoforza tornavano amplificati anche nel secondo esemplare della gigantesca opera, destinato appunto a quella sede universitaria che si ergeva ora a difesa di un patrimonio culturale minacciato dopo essere stata concepita nell’anteguerra come sprezzante bandiera di un malinteso senso di italianità (M. De Sabbata, Università, in Trieste 1918-1954 guida all’architettura, a cura di P. Nicoloso, F. Rovello, Trieste, Mgs Press, 2005, pp. 227-234). Al di là di ogni lettura ‘politica’ del rilievo, l’Anello degli Argonauti costituisce un episodio importante nel percorso stilistico di Mascherini: “a partire da esso l’artista si orienta verso quella sintesi puristica dei corpi che caratterizzerà la sua produzione degli anni cinquanta. Gli arti allungati, tenderanno ad assottigliarsi alle estremità, piedi e mani appariranno sottodimensionati, in un processo di consapevole allontanamento dalla pesante eredità stilistica novecentista […] La tipologia così particolare dell’opera (un rilievo circolare sospeso al muro, visto dal basso, con una spiccata vocazione narrativa) ne ha certamente condizionato lo stile. Ma un ruolo non meno importante per le peculiari scelte di sintesi formale lo ebbero i modelli iconografici che Mascherini fece suoi” (Pezzetta 2007, p. 182). Si trattava in primis del Picasso di Guernica, e quindi, vista la tematica affrontata, una vasta gamma di fonti archeologiche già messe puntualmente in luce da Emanuela Pezzetta, tutti materiali che risultarono preziosi per lo sviluppo del linguaggio dell’artista, che proprio negli anni cinquanta conobbe il suo momento migliore.
276 122 - PublicationArcangelo Messagero(1962)Mascherini, MarcelloScultura a soggetto sacro ma collocata a guardia di un luogo laico per eccellenza come il Centro Internazionale di Fisica Teorica, è il colossale Arcangelo Messaggero del 1962, con il quale Mascherini aveva nel gennaio 1974 vinto un concorso bandito dal prestigioso istituto triestino volto all’acquisizione di significative opere d’arte (Appella 2004, p. 197). ‘Difficile’ e complesso, il bronzo aveva fatto parte di quel lotto di immagini, “scabre e petrose […] simboli inquietanti del pietrificarsi della più esaltata vitalità” presentate alla sala personale allestita alla XXXI Biennale veneziana del 1962 (Salvini 1962, p. 58). A differenza del ben più leggibile Arcangelo Gabriele, che lo precede di solo un anno, sin dalla sua apparizione colpiva nell’opera in esame lo slancio sfarfallante e l’iconografia bizzarra, con “l’avveniristica51 testa di antenne esposta sull’ala, ma il suo essere d’albero, di fusto, seguito nei suoi incavi, nei suoi aggetti e persino nei suoi mancamenti, è forse uno degli esempi più didascalicamente vittoriosi tra materia e significato, fra il cercare, il trovare, e lo scegliere e l’aggiungere per modellato, propri nel dominio dell’autore” (Gatto 1969, p. 32). Si trattava di uno dei documenti visivi più importanti dell’inizio di una stagione del tutto nuova per lo scultore triestino: “Di là dal rinnovamento formale, di là dalla novità del tono poetico, rimane ferma l’esigenza profonda di Mascherini di proiettare la realtà sullo schermo del mito: il mito, adesso, della forza primigenia della natura” (Salvini 1962, p. 59); una forza che l’artista cercherà sul campo, calcando con la plastilina le tormentate superfici delle rocce carsiche esposte al vento: “nelle mie opere ricalco le materie vere, dominate da me non casualmente e nelle quali imprigiono la mia volontà […] il modellato non è più espressione di eroismo, di grazie e di bellezza, bensì ricerca, angoscia, per la quale metto nella mia opera un senso drammatico. In particolare l’opera comprende in sé tutti i dubbi di cui è permeata la nostra attualità” (intervista del settembre 1968 in Appella 2004, p. 184).Scultura a soggetto sacro ma collocata a guardia di un luogo laico per eccellenza come il Centro Internazionale di Fisica Teorica, è il colossale Arcangelo Messaggero del 1962, con il quale Mascherini aveva nel gennaio 1974 vinto un concorso bandito dal prestigioso istituto triestino volto all’acquisizione di significative opere d’arte (Appella 2004, p. 197). ‘Difficile’ e complesso, il bronzo aveva fatto parte di quel lotto di immagini, “scabre e petrose […] simboli inquietanti del pietrificarsi della più esaltata vitalità” presentate alla sala personale allestita alla XXXI Biennale veneziana del 1962 (Salvini 1962, p. 58). A differenza del ben più leggibile Arcangelo Gabriele, che lo precede di solo un anno, sin dalla sua apparizione colpiva nell’opera in esame lo slancio sfarfallante e l’iconografia bizzarra, con “l’avveniristica51 testa di antenne esposta sull’ala, ma il suo essere d’albero, di fusto, seguito nei suoi incavi, nei suoi aggetti e persino nei suoi mancamenti, è forse uno degli esempi più didascalicamente vittoriosi tra materia e significato, fra il cercare, il trovare, e lo scegliere e l’aggiungere per modellato, propri nel dominio dell’autore” (Gatto 1969, p. 32). Si trattava di uno dei documenti visivi più importanti dell’inizio di una stagione del tutto nuova per lo scultore triestino: “Di là dal rinnovamento formale, di là dalla novità del tono poetico, rimane ferma l’esigenza profonda di Mascherini di proiettare la realtà sullo schermo del mito: il mito, adesso, della forza primigenia della natura” (Salvini 1962, p. 59); una forza che l’artista cercherà sul campo, calcando con la plastilina le tormentate superfici delle rocce carsiche esposte al vento: “nelle mie opere ricalco le materie vere, dominate da me non casualmente e nelle quali imprigiono la mia volontà […] il modellato non è più espressione di eroismo, di grazie e di bellezza, bensì ricerca, angoscia, per la quale metto nella mia opera un senso drammatico. In particolare l’opera comprende in sé tutti i dubbi di cui è permeata la nostra attualità” (intervista del settembre 1968 in Appella 2004, p. 184).Scultura a soggetto sacro ma collocata a guardia di un luogo laico per eccellenza come il Centro Internazionale di Fisica Teorica, è il colossale Arcangelo Messaggero del 1962, con il quale Mascherini aveva nel gennaio 1974 vinto un concorso bandito dal prestigioso istituto triestino volto all’acquisizione di significative opere d’arte (Appella 2004, p. 197). ‘Difficile’ e complesso, il bronzo aveva fatto parte di quel lotto di immagini, “scabre e petrose […] simboli inquietanti del pietrificarsi della più esaltata vitalità” presentate alla sala personale allestita alla XXXI Biennale veneziana del 1962 (Salvini 1962, p. 58). A differenza del ben più leggibile Arcangelo Gabriele, che lo precede di solo un anno, sin dalla sua apparizione colpiva nell’opera in esame lo slancio sfarfallante e l’iconografia bizzarra, con “l’avveniristica51 testa di antenne esposta sull’ala, ma il suo essere d’albero, di fusto, seguito nei suoi incavi, nei suoi aggetti e persino nei suoi mancamenti, è forse uno degli esempi più didascalicamente vittoriosi tra materia e significato, fra il cercare, il trovare, e lo scegliere e l’aggiungere per modellato, propri nel dominio dell’autore” (Gatto 1969, p. 32). Si trattava di uno dei documenti visivi più importanti dell’inizio di una stagione del tutto nuova per lo scultore triestino: “Di là dal rinnovamento formale, di là dalla novità del tono poetico, rimane ferma l’esigenza profonda di Mascherini di proiettare la realtà sullo schermo del mito: il mito, adesso, della forza primigenia della natura” (Salvini 1962, p. 59); una forza che l’artista cercherà sul campo, calcando con la plastilina le tormentate superfici delle rocce carsiche esposte al vento: “nelle mie opere ricalco le materie vere, dominate da me non casualmente e nelle quali imprigiono la mia volontà […] il modellato non è più espressione di eroismo, di grazie e di bellezza, bensì ricerca, angoscia, per la quale metto nella mia opera un senso drammatico. In particolare l’opera comprende in sé tutti i dubbi di cui è permeata la nostra attualità” (intervista del settembre 1968 in Appella 2004, p. 184).Scultura a soggetto sacro ma collocata a guardia di un luogo laico per eccellenza come il Centro Internazionale di Fisica Teorica, è il colossale Arcangelo Messaggero del 1962, con il quale Mascherini aveva nel gennaio 1974 vinto un concorso bandito dal prestigioso istituto triestino volto all’acquisizione di significative opere d’arte (Appella 2004, p. 197). ‘Difficile’ e complesso, il bronzo aveva fatto parte di quel lotto di immagini, “scabre e petrose […] simboli inquietanti del pietrificarsi della più esaltata vitalità” presentate alla sala personale allestita alla XXXI Biennale veneziana del 1962 (Salvini 1962, p. 58). A differenza del ben più leggibile Arcangelo Gabriele, che lo precede di solo un anno, sin dalla sua apparizione colpiva nell’opera in esame lo slancio sfarfallante e l’iconografia bizzarra, con “l’avveniristica51 testa di antenne esposta sull’ala, ma il suo essere d’albero, di fusto, seguito nei suoi incavi, nei suoi aggetti e persino nei suoi mancamenti, è forse uno degli esempi più didascalicamente vittoriosi tra materia e significato, fra il cercare, il trovare, e lo scegliere e l’aggiungere per modellato, propri nel dominio dell’autore” (Gatto 1969, p. 32). Si trattava di uno dei documenti visivi più importanti dell’inizio di una stagione del tutto nuova per lo scultore triestino: “Di là dal rinnovamento formale, di là dalla novità del tono poetico, rimane ferma l’esigenza profonda di Mascherini di proiettare la realtà sullo schermo del mito: il mito, adesso, della forza primigenia della natura” (Salvini 1962, p. 59); una forza che l’artista cercherà sul campo, calcando con la plastilina le tormentate superfici delle rocce carsiche esposte al vento: “nelle mie opere ricalco le materie vere, dominate da me non casualmente e nelle quali imprigiono la mia volontà […] il modellato non è più espressione di eroismo, di grazie e di bellezza, bensì ricerca, angoscia, per la quale metto nella mia opera un senso drammatico. In particolare l’opera comprende in sé tutti i dubbi di cui è permeata la nostra attualità” (intervista del settembre 1968 in Appella 2004, p. 184).Scultura a soggetto sacro ma collocata a guardia di un luogo laico per eccellenza come il Centro Internazionale di Fisica Teorica, è il colossale Arcangelo Messaggero del 1962, con il quale Mascherini aveva nel gennaio 1974 vinto un concorso bandito dal prestigioso istituto triestino volto all’acquisizione di significative opere d’arte (Appella 2004, p. 197). ‘Difficile’ e complesso, il bronzo aveva fatto parte di quel lotto di immagini, “scabre e petrose […] simboli inquietanti del pietrificarsi della più esaltata vitalità” presentate alla sala personale allestita alla XXXI Biennale veneziana del 1962 (Salvini 1962, p. 58). A differenza del ben più leggibile Arcangelo Gabriele, che lo precede di solo un anno, sin dalla sua apparizione colpiva nell’opera in esame lo slancio sfarfallante e l’iconografia bizzarra, con “l’avveniristica51 testa di antenne esposta sull’ala, ma il suo essere d’albero, di fusto, seguito nei suoi incavi, nei suoi aggetti e persino nei suoi mancamenti, è forse uno degli esempi più didascalicamente vittoriosi tra materia e significato, fra il cercare, il trovare, e lo scegliere e l’aggiungere per modellato, propri nel dominio dell’autore” (Gatto 1969, p. 32). Si trattava di uno dei documenti visivi più importanti dell’inizio di una stagione del tutto nuova per lo scultore triestino: “Di là dal rinnovamento formale, di là dalla novità del tono poetico, rimane ferma l’esigenza profonda di Mascherini di proiettare la realtà sullo schermo del mito: il mito, adesso, della forza primigenia della natura” (Salvini 1962, p. 59); una forza che l’artista cercherà sul campo, calcando con la plastilina le tormentate superfici delle rocce carsiche esposte al vento: “nelle mie opere ricalco le materie vere, dominate da me non casualmente e nelle quali imprigiono la mia volontà […] il modellato non è più espressione di eroismo, di grazie e di bellezza, bensì ricerca, angoscia, per la quale metto nella mia opera un senso drammatico. In particolare l’opera comprende in sé tutti i dubbi di cui è permeata la nostra attualità” (intervista del settembre 1968 in Appella 2004, p. 184).Scultura a soggetto sacro ma collocata a guardia di un luogo laico per eccellenza come il Centro Internazionale di Fisica Teorica, è il colossale Arcangelo Messaggero del 1962, con il quale Mascherini aveva nel gennaio 1974 vinto un concorso bandito dal prestigioso istituto triestino volto all’acquisizione di significative opere d’arte (Appella 2004, p. 197). ‘Difficile’ e complesso, il bronzo aveva fatto parte di quel lotto di immagini, “scabre e petrose […] simboli inquietanti del pietrificarsi della più esaltata vitalità” presentate alla sala personale allestita alla XXXI Biennale veneziana del 1962 (Salvini 1962, p. 58). A differenza del ben più leggibile Arcangelo Gabriele, che lo precede di solo un anno, sin dalla sua apparizione colpiva nell’opera in esame lo slancio sfarfallante e l’iconografia bizzarra, con “l’avveniristica51 testa di antenne esposta sull’ala, ma il suo essere d’albero, di fusto, seguito nei suoi incavi, nei suoi aggetti e persino nei suoi mancamenti, è forse uno degli esempi più didascalicamente vittoriosi tra materia e significato, fra il cercare, il trovare, e lo scegliere e l’aggiungere per modellato, propri nel dominio dell’autore” (Gatto 1969, p. 32). Si trattava di uno dei documenti visivi più importanti dell’inizio di una stagione del tutto nuova per lo scultore triestino: “Di là dal rinnovamento formale, di là dalla novità del tono poetico, rimane ferma l’esigenza profonda di Mascherini di proiettare la realtà sullo schermo del mito: il mito, adesso, della forza primigenia della natura” (Salvini 1962, p. 59); una forza che l’artista cercherà sul campo, calcando con la plastilina le tormentate superfici delle rocce carsiche esposte al vento: “nelle mie opere ricalco le materie vere, dominate da me non casualmente e nelle quali imprigiono la mia volontà […] il modellato non è più espressione di eroismo, di grazie e di bellezza, bensì ricerca, angoscia, per la quale metto nella mia opera un senso drammatico. In particolare l’opera comprende in sé tutti i dubbi di cui è permeata la nostra attualità” (intervista del settembre 1968 in Appella 2004, p. 184).
139 77 - PublicationBusto di Carlo Brunner(1910)Mayer, GiovanniIl busto è posto su di un alto piedistallo con il nome dell’effigiato e la data “MCMX” in un angolo dell’atrio dell’edificio di via Manzoni 16, che oggi ospita la sezione di Morfologia umana e biomolecolare del dipartimento di scienze della vita dell’ateneo, un tempo sede della Clinica della società degli amici dell’infanzia intitolata proprio a Carlo Brunner, uno dei fondatori dell’istituzione. Caratterizzato dalle folte e pronunciate basette, il ritratto di Brunner rientra nelle scelte ‘veristiche’ della produzione ritrattistica matura di Giovanni Mayer, all’epoca della realizzazione di certo lo scultore più in vista del panorama artistico triestino. Pur rimanendo nell’ambito delle immagini celebrative, il ritratto di Brunner mostra una marcata caratterizzazione psicologica, evidenziata dalla torsione della testa, dall’ampia fronte appena segnata dalle rughe, dalle labbra strette e dallo sguardo acuto che spazia lontano; mentre la lettura quasi lenticolare dei dettagli del volto lascia spazio a un trattamento ben più corsivo e ‘impressionistico’ delle vesti, a partire dallo svolazzante papillon, in linea con quel moderato ‘rodinismo’ cui Mayer sembra a tratti indulgere in questo torno d’anni. Un eloquente termine di confronto, anche per la particolare forma delle basette, è offerto dal coevo busto di Felice Machlig realizzato dallo stesso Mayer per l’atrio dell’ITIS (cfr. F. Salvador, Giovanni Mayer – Giovanni Marin. La scultura triestina tra Verismo ed Eccletismo, “Archeografo Triestino”, s. IV, LXII (CXI) 2002, p. 60).
124 74 - PublicationBusto di Italo Svevo(1927)Rovan, RuggeroIl bronzo dell’Università degli Studi di Trieste deriva dal bozzetto originale in gesso (oggi alla Gipsoteca del Museo Revoltella), realizzato nell’estate del 1927 e plasmato dal vero in circa una decina di sedute nello studio di Rovan (già studio di Eugenio Scomparini, oggi demolito), in via Crispi 62. Da una testimonianza dello stesso scultore sappiamo che fu proprio quest’ultimo a richiedere a Svevo di posare per lui “come un bravo modello” e di poter conservare il manufatto presso l’atelier triestino (dove rimase fino alla sua morte). Rovan scelse di ritrarre lo scrittore a torso nudo, di eroica memoria; tale preferenza venne esplicitata dall’artista in corso d’opera, e fu dettata, a suo dire, dalla volontà di “evitare disarmonie tra le sue [del soggetto] solide strutture e il misero modellato del nostro vestire”. Svevo venne pertanto rappresentato in un busto tagliato appena al di sotto delle spalle: nella parte inferiore alcun dettaglio rinvia all’età piuttosto avanzata dell’effigiato, l’anatomia è trattata attraverso un fare per larghi piani, che suggerisce la struttura ossea dello scrittore. Il volto, al contrario, presenta una cura del dettaglio sottile e meditata: lo scultore non esitò a riprodurre nel bronzo i segni del tempo e le tracce di quell’ ”umano travaglio” che aveva caratterizzato l’esperienza terrena del romanziere; la posizione della testa, leggermente ruotata verso sinistra, aiuta a spezzare una posa altrimenti eccessivamente rigida e innaturale. La versione bronzea qui studiata venne fusa dopo quella in gesso su iniziativa di Svevo, che desiderava averne presso di sé una versione: se prestiamo fede, infatti, a quanto affermato da Rovan stesso, lo scrittore ebbe modo di apprezzare il risultato scultoreo già in corso d’opera, quando volle ricompensare il suo autore con una piccola somma di denaro (£ 2000), a suo dire “non conforme a quello che in altri momenti avrebbe potuto fare”. A distanza di qualche tempo, il romanziere confessò all’artista di riconoscersi perfettamente nel ritratto (“più lo guardo e più mi ci ritrovo”), e in una copia del romanzo Senilità offerta a Rovan in segno di amicizia scelse di firmarsi attraverso una curiosa metonimia “il suo busto”. La replica in metallo, databile tra la seconda metà del 1927 e il 1928, anno della morte di Svevo, rimase nello studio di quest’ultimo, al secondo piano di Villa Veneziani, “su un mobile di fronte alla sua scrivania” per diversi anni. Non ci è dato conoscere con esattezza le sorti della scultura dopo il settembre 1928: essa si salvò dai bombardamenti del 20 febbraio del 1945 che distrussero interamente la dimora sveviana e risulta trovarsi nelle collezioni di Ruggero Rovan nel 1954, prima di essere donata all’Università di Trieste. Con molta probabilità il bronzo venne restituito allo scultore già nel 1943. Lo scultore triestino, in qualità di nuovo proprietario e consapevole del valore storico e umano del manufatto, prestò ripetutamente il bronzo in occasione di diverse esposizioni locali e regionali: nel 1948 alla “Mostra d’arte moderna”, tenutasi a Gorizia a Palazzo Attems alla fine dell’estate; tra il 1952 e il 1953 alle ben più importanti rassegne “Mostra d’arte figurativa degli artisti triestini”, organizzata al Padiglione delle Nazioni alla Fiera di Trieste, e alla “Prima Mostra Nazionale artisti giuliani e dalmati”, allestita a Venezia, in autunno. È significativo notare che il busto venne sempre scelto per figurare all’interno di una selezione limitatissima di pezzi, a dimostrazione di come esso rappresentasse, agli occhi dei contemporanei, una delle opere cardine della tarda produzione di Rovan. Il ritratto sveviano venne ulteriormente rivalutato alla metà degli anni Cinquanta, quando il Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste lanciò una pubblica sottoscrizione per offrirgli una collocazione degna della notorietà del suo effigiato. Grazie alle generose elargizioni pervenute alla segreteria del CCA nel corso del 1954, l’ente poté contattare lo scultore Rovan per richiedere l’acquisto del bronzo di Italo Svevo alla cifra complessiva di £ 395.000, dilazionate in quattro rate. Il Circolo si faceva portatore di un’iniziativa culturale di grande importanza, che si sarebbe conclusa con l’atto di donazione in favore della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Trieste, avvenuto il 18 dicembre 1954 nell’Aula Magna di Palazzo Dubbane, sito in via dell’Università 7. Anche in questa occasione, la critica non poté far a meno di notare l’eccellenza della resa ritrattistica del bronzo, “l’unico oggi esistente modellato dal vero” e la capacità dimostrata da Rovan di lasciar trapelare nel bronzo la profondità di pensiero e […] l’umano travaglio”, propri di tutta l’opera e la vita sveviane. Il degrado dell’edificio storico obbligò alla fine del secolo ad un repentino trasferimento dell’opera, accolta nell’ufficio personale del Magnifico Rettore. Nel 2006 la Facoltà di Lettere e Filosofia ha rivendicato il busto che ha quindi fatto ritorno all’istituzione alla quale era stato donato nel 1954 e ha potuto godere di uno spazio appositamente pensato in suo onore: la sala atti “Arduino Agnelli” nella sede di Androna campo Marzio accoglie oggi le discussioni e le proclamazioni di tesi di laurea, pertanto essa assurge a luogo espositivo ideale affinché l’opera di Rovan possa continuare ad essere “guida ed esempio” anche per le generazioni a venire.Il bronzo dell’Università degli Studi di Trieste deriva dal bozzetto originale in gesso (oggi alla Gipsoteca del Museo Revoltella), realizzato nell’estate del 1927 e plasmato dal vero in circa una decina di sedute nello studio di Rovan (già studio di Eugenio Scomparini, oggi demolito), in via Crispi 62. Da una testimonianza dello stesso scultore sappiamo che fu proprio quest’ultimo a richiedere a Svevo di posare per lui “come un bravo modello” e di poter conservare il manufatto presso l’atelier triestino (dove rimase fino alla sua morte). Rovan scelse di ritrarre lo scrittore a torso nudo, di eroica memoria; tale preferenza venne esplicitata dall’artista in corso d’opera, e fu dettata, a suo dire, dalla volontà di “evitare disarmonie tra le sue [del soggetto] solide strutture e il misero modellato del nostro vestire”. Svevo venne pertanto rappresentato in un busto tagliato appena al di sotto delle spalle: nella parte inferiore alcun dettaglio rinvia all’età piuttosto avanzata dell’effigiato, l’anatomia è trattata attraverso un fare per larghi piani, che suggerisce la struttura ossea dello scrittore. Il volto, al contrario, presenta una cura del dettaglio sottile e meditata: lo scultore non esitò a riprodurre nel bronzo i segni del tempo e le tracce di quell’ ”umano travaglio” che aveva caratterizzato l’esperienza terrena del romanziere; la posizione della testa, leggermente ruotata verso sinistra, aiuta a spezzare una posa altrimenti eccessivamente rigida e innaturale. La versione bronzea qui studiata venne fusa dopo quella in gesso su iniziativa di Svevo, che desiderava averne presso di sé una versione: se prestiamo fede, infatti, a quanto affermato da Rovan stesso, lo scrittore ebbe modo di apprezzare il risultato scultoreo già in corso d’opera, quando volle ricompensare il suo autore con una piccola somma di denaro (£ 2000), a suo dire “non conforme a quello che in altri momenti avrebbe potuto fare”. A distanza di qualche tempo, il romanziere confessò all’artista di riconoscersi perfettamente nel ritratto (“più lo guardo e più mi ci ritrovo”), e in una copia del romanzo Senilità offerta a Rovan in segno di amicizia scelse di firmarsi attraverso una curiosa metonimia “il suo busto”. La replica in metallo, databile tra la seconda metà del 1927 e il 1928, anno della morte di Svevo, rimase nello studio di quest’ultimo, al secondo piano di Villa Veneziani, “su un mobile di fronte alla sua scrivania” per diversi anni. Non ci è dato conoscere con esattezza le sorti della scultura dopo il settembre 1928: essa si salvò dai bombardamenti del 20 febbraio del 1945 che distrussero interamente la dimora sveviana e risulta trovarsi nelle collezioni di Ruggero Rovan nel 1954, prima di essere donata all’Università di Trieste. Con molta probabilità il bronzo venne restituito allo scultore già nel 1943. Lo scultore triestino, in qualità di nuovo proprietario e consapevole del valore storico e umano del manufatto, prestò ripetutamente il bronzo in occasione di diverse esposizioni locali e regionali: nel 1948 alla “Mostra d’arte moderna”, tenutasi a Gorizia a Palazzo Attems alla fine dell’estate; tra il 1952 e il 1953 alle ben più importanti rassegne “Mostra d’arte figurativa degli artisti triestini”, organizzata al Padiglione delle Nazioni alla Fiera di Trieste, e alla “Prima Mostra Nazionale artisti giuliani e dalmati”, allestita a Venezia, in autunno. È significativo notare che il busto venne sempre scelto per figurare all’interno di una selezione limitatissima di pezzi, a dimostrazione di come esso rappresentasse, agli occhi dei contemporanei, una delle opere cardine della tarda produzione di Rovan. Il ritratto sveviano venne ulteriormente rivalutato alla metà degli anni Cinquanta, quando il Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste lanciò una pubblica sottoscrizione per offrirgli una collocazione degna della notorietà del suo effigiato. Grazie alle generose elargizioni pervenute alla segreteria del CCA nel corso del 1954, l’ente poté contattare lo scultore Rovan per richiedere l’acquisto del bronzo di Italo Svevo alla cifra complessiva di £ 395.000, dilazionate in quattro rate. Il Circolo si faceva portatore di un’iniziativa culturale di grande importanza, che si sarebbe conclusa con l’atto di donazione in favore della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Trieste, avvenuto il 18 dicembre 1954 nell’Aula Magna di Palazzo Dubbane, sito in via dell’Università 7. Anche in questa occasione, la critica non poté far a meno di notare l’eccellenza della resa ritrattistica del bronzo, “l’unico oggi esistente modellato dal vero” e la capacità dimostrata da Rovan di lasciar trapelare nel bronzo la profondità di pensiero e […] l’umano travaglio”, propri di tutta l’opera e la vita sveviane. Il degrado dell’edificio storico obbligò alla fine del secolo ad un repentino trasferimento dell’opera, accolta nell’ufficio personale del Magnifico Rettore. Nel 2006 la Facoltà di Lettere e Filosofia ha rivendicato il busto che ha quindi fatto ritorno all’istituzione alla quale era stato donato nel 1954 e ha potuto godere di uno spazio appositamente pensato in suo onore: la sala atti “Arduino Agnelli” nella sede di Androna campo Marzio accoglie oggi le discussioni e le proclamazioni di tesi di laurea, pertanto essa assurge a luogo espositivo ideale affinché l’opera di Rovan possa continuare ad essere “guida ed esempio” anche per le generazioni a venire.Il bronzo dell’Università degli Studi di Trieste deriva dal bozzetto originale in gesso (oggi alla Gipsoteca del Museo Revoltella), realizzato nell’estate del 1927 e plasmato dal vero in circa una decina di sedute nello studio di Rovan (già studio di Eugenio Scomparini, oggi demolito), in via Crispi 62. Da una testimonianza dello stesso scultore sappiamo che fu proprio quest’ultimo a richiedere a Svevo di posare per lui “come un bravo modello” e di poter conservare il manufatto presso l’atelier triestino (dove rimase fino alla sua morte). Rovan scelse di ritrarre lo scrittore a torso nudo, di eroica memoria; tale preferenza venne esplicitata dall’artista in corso d’opera, e fu dettata, a suo dire, dalla volontà di “evitare disarmonie tra le sue [del soggetto] solide strutture e il misero modellato del nostro vestire”. Svevo venne pertanto rappresentato in un busto tagliato appena al di sotto delle spalle: nella parte inferiore alcun dettaglio rinvia all’età piuttosto avanzata dell’effigiato, l’anatomia è trattata attraverso un fare per larghi piani, che suggerisce la struttura ossea dello scrittore. Il volto, al contrario, presenta una cura del dettaglio sottile e meditata: lo scultore non esitò a riprodurre nel bronzo i segni del tempo e le tracce di quell’ ”umano travaglio” che aveva caratterizzato l’esperienza terrena del romanziere; la posizione della testa, leggermente ruotata verso sinistra, aiuta a spezzare una posa altrimenti eccessivamente rigida e innaturale. La versione bronzea qui studiata venne fusa dopo quella in gesso su iniziativa di Svevo, che desiderava averne presso di sé una versione: se prestiamo fede, infatti, a quanto affermato da Rovan stesso, lo scrittore ebbe modo di apprezzare il risultato scultoreo già in corso d’opera, quando volle ricompensare il suo autore con una piccola somma di denaro (£ 2000), a suo dire “non conforme a quello che in altri momenti avrebbe potuto fare”. A distanza di qualche tempo, il romanziere confessò all’artista di riconoscersi perfettamente nel ritratto (“più lo guardo e più mi ci ritrovo”), e in una copia del romanzo Senilità offerta a Rovan in segno di amicizia scelse di firmarsi attraverso una curiosa metonimia “il suo busto”. La replica in metallo, databile tra la seconda metà del 1927 e il 1928, anno della morte di Svevo, rimase nello studio di quest’ultimo, al secondo piano di Villa Veneziani, “su un mobile di fronte alla sua scrivania” per diversi anni. Non ci è dato conoscere con esattezza le sorti della scultura dopo il settembre 1928: essa si salvò dai bombardamenti del 20 febbraio del 1945 che distrussero interamente la dimora sveviana e risulta trovarsi nelle collezioni di Ruggero Rovan nel 1954, prima di essere donata all’Università di Trieste. Con molta probabilità il bronzo venne restituito allo scultore già nel 1943. Lo scultore triestino, in qualità di nuovo proprietario e consapevole del valore storico e umano del manufatto, prestò ripetutamente il bronzo in occasione di diverse esposizioni locali e regionali: nel 1948 alla “Mostra d’arte moderna”, tenutasi a Gorizia a Palazzo Attems alla fine dell’estate; tra il 1952 e il 1953 alle ben più importanti rassegne “Mostra d’arte figurativa degli artisti triestini”, organizzata al Padiglione delle Nazioni alla Fiera di Trieste, e alla “Prima Mostra Nazionale artisti giuliani e dalmati”, allestita a Venezia, in autunno. È significativo notare che il busto venne sempre scelto per figurare all’interno di una selezione limitatissima di pezzi, a dimostrazione di come esso rappresentasse, agli occhi dei contemporanei, una delle opere cardine della tarda produzione di Rovan. Il ritratto sveviano venne ulteriormente rivalutato alla metà degli anni Cinquanta, quando il Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste lanciò una pubblica sottoscrizione per offrirgli una collocazione degna della notorietà del suo effigiato. Grazie alle generose elargizioni pervenute alla segreteria del CCA nel corso del 1954, l’ente poté contattare lo scultore Rovan per richiedere l’acquisto del bronzo di Italo Svevo alla cifra complessiva di £ 395.000, dilazionate in quattro rate. Il Circolo si faceva portatore di un’iniziativa culturale di grande importanza, che si sarebbe conclusa con l’atto di donazione in favore della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Trieste, avvenuto il 18 dicembre 1954 nell’Aula Magna di Palazzo Dubbane, sito in via dell’Università 7. Anche in questa occasione, la critica non poté far a meno di notare l’eccellenza della resa ritrattistica del bronzo, “l’unico oggi esistente modellato dal vero” e la capacità dimostrata da Rovan di lasciar trapelare nel bronzo la profondità di pensiero e […] l’umano travaglio”, propri di tutta l’opera e la vita sveviane. Il degrado dell’edificio storico obbligò alla fine del secolo ad un repentino trasferimento dell’opera, accolta nell’ufficio personale del Magnifico Rettore. Nel 2006 la Facoltà di Lettere e Filosofia ha rivendicato il busto che ha quindi fatto ritorno all’istituzione alla quale era stato donato nel 1954 e ha potuto godere di uno spazio appositamente pensato in suo onore: la sala atti “Arduino Agnelli” nella sede di Androna campo Marzio accoglie oggi le discussioni e le proclamazioni di tesi di laurea, pertanto essa assurge a luogo espositivo ideale affinché l’opera di Rovan possa continuare ad essere “guida ed esempio” anche per le generazioni a venire.Il bronzo dell’Università degli Studi i Trieste deriva dal bozzetto originale in gesso (oggi alla Gipsoteca del Museo Revoltella), realizzato nell’estate del 1927 e plasmato dal vero in circa una decina di sedute nello studio di Rovan (già studio di Eugenio Scomparini, oggi demolito), in via Crispi 62. Da una testimonianza dello stesso scultore sappiamo che fu proprio quest’ultimo a richiedere a Svevo di posare per lui “come un bravo modello” e di poter conservare il manufatto presso l’atelier triestino (dove rimase fino alla sua morte). Rovan scelse di ritrarre lo scrittore a torso nudo, di eroica memoria; tale preferenza venne esplicitata dall’artista in corso d’opera, e fu dettata, a suo dire, dalla volontà di “evitare disarmonie tra le sue [del soggetto] solide strutture e il misero modellato del nostro vestire”. Svevo venne pertanto rappresentato in un busto tagliato appena al di sotto delle spalle: nella parte inferiore alcun dettaglio rinvia all’età piuttosto avanzata dell’effigiato, l’anatomia è trattata attraverso un fare per larghi piani, che suggerisce la struttura ossea dello scrittore. Il volto, al contrario, presenta una cura del dettaglio sottile e meditata: lo scultore non esitò a riprodurre nel bronzo i segni del tempo e le tracce di quell’ ”umano travaglio” che aveva caratterizzato l’esperienza terrena del romanziere; la posizione della testa, leggermente ruotata verso sinistra, aiuta a spezzare una posa altrimenti eccessivamente rigida e innaturale. La versione bronzea qui studiata venne fusa dopo quella in gesso su iniziativa di Svevo, che desiderava averne presso di sé una versione: se prestiamo fede, infatti, a quanto affermato da Rovan stesso, lo scrittore ebbe modo di apprezzare il risultato scultoreo già in corso d’opera, quando volle ricompensare il suo autore con una piccola somma di denaro (£ 2000), a suo dire “non conforme a quello che in altri momenti avrebbe potuto fare”. A distanza di qualche tempo, il romanziere confessò all’artista di riconoscersi perfettamente nel ritratto (“più lo guardo e più mi ci ritrovo”), e in una copia del romanzo Senilità offerta a Rovan in segno di amicizia scelse di firmarsi attraverso una curiosa metonimia “il suo busto”. La replica in metallo, databile tra la seconda metà del 1927 e il 1928, anno della morte di Svevo, rimase nello studio di quest’ultimo, al secondo piano di Villa Veneziani, “su un mobile di fronte alla sua scrivania” per diversi anni. Non ci è dato conoscere con esattezza le sorti della scultura dopo il settembre 1928: essa si salvò dai bombardamenti del 20 febbraio del 1945 che distrussero interamente la dimora sveviana e risulta trovarsi nelle collezioni di Ruggero Rovan nel 1954, prima di essere donata all’Università di Trieste. Con molta probabilità il bronzo venne restituito allo scultore già nel 1943. Lo scultore triestino, in qualità di nuovo proprietario e consapevole del valore storico e umano del manufatto, prestò ripetutamente il bronzo in occasione di diverse esposizioni locali e regionali: nel 1948 alla “Mostra d’arte moderna”, tenutasi a Gorizia a Palazzo Attems alla fine dell’estate; tra il 1952 e il 1953 alle ben più importanti rassegne “Mostra d’arte figurativa degli artisti triestini”, organizzata al Padiglione delle Nazioni alla Fiera di Trieste, e alla “Prima Mostra Nazionale artisti giuliani e dalmati”, allestita a Venezia, in autunno. È significativo notare che il busto venne sempre scelto per figurare all’interno di una selezione limitatissima di pezzi, a dimostrazione di come esso rappresentasse, agli occhi dei contemporanei, una delle opere cardine della tarda produzione di Rovan. Il ritratto sveviano venne ulteriormente rivalutato alla metà degli anni Cinquanta, quando il Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste lanciò una pubblica sottoscrizione per offrirgli una collocazione degna della notorietà del suo effigiato. Grazie alle generose elargizioni pervenute alla segreteria del CCA nel corso del 1954, l’ente poté contattare lo scultore Rovan per richiedere l’acquisto del bronzo di Italo Svevo alla cifra complessiva di £ 395.000, dilazionate in quattro rate. Il Circolo si faceva portatore di un’iniziativa culturale di grande importanza, che si sarebbe conclusa con l’atto di donazione in favore della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Trieste, avvenuto il 18 dicembre 1954 nell’Aula Magna di Palazzo Dubbane, sito in via dell’Università 7. Anche in questa occasione, la critica non poté far a meno di notare l’eccellenza della resa ritrattistica del bronzo, “l’unico oggi esistente modellato dal vero” e la capacità dimostrata da Rovan di lasciar trapelare nel bronzo la profondità di pensiero e […] l’umano travaglio”, propri di tutta l’opera e la vita sveviane. Il degrado dell’edificio storico obbligò alla fine del secolo ad un repentino trasferimento dell’opera, accolta nell’ufficio personale del Magnifico Rettore. Nel 2006 la Facoltà di Lettere e Filosofia ha rivendicato il busto che ha quindi fatto ritorno all’istituzione alla quale era stato donato nel 1954 e ha potuto godere di uno spazio appositamente pensato in suo onore: la sala atti “Arduino Agnelli” nella sede di Androna campo Marzio accoglie oggi le discussioni e le proclamazioni di tesi di laurea, pertanto essa assurge a luogo espositivo ideale affinché l’opera di Rovan possa continuare ad essere “guida ed esempio” anche per le generazioni a venire.
219 121 - PublicationBusto di Pasquale Revoltella(1870)Magni, PietroIl busto di Pietro Magni è probabilmente il più efficace tra i molti ritratti, pittorici e scultorei, di Pasquale Revoltella: con quest’immagine lo scultore dava ancora una volta prova della sua capacità di compendiare efficacemente la tradizionale ritrattistica borghese con quel naturalismo che alla metà del secolo caratterizzava con molta efficacia la nuova scuola milanese, destinata di lì a pochi anni a monopolizzare la scena italiana. Si tratta con tutta evidenza di una replica autografa del busto-ritratto realizzato dallo scultore nel 1859, in occasione della solenne apertura del nuovo palazzo voluto dall’imprenditore, per il quale lo scultore aveva realizzato e realizzerà alcune delle sue prove più convincenti, come la Ninfa Aurisina e l’Allegoria del taglio dell’Istmo di Suez. Il modello in gesso del ritratto, lo stesso utilizzato anche per scolpire l’opera in esame, sarà acquistato dal Museo Revoltella nel 1883, dopo essere stato presentato nel 1870, l’anno successivo alla morte dell’imprenditore-barone, alla prima mostra triestina della Società di Belle Arti (cfr. M. De Grassi, Committenti di Pietro Magni a Trieste, “Arte in Friuli Arte a Trieste”, 20, 2000, pp. 166-168). Con tutta probabilità l’esemplare in esame, del tutto identico alla redazione del Museo, anche nella scelta di una marmo di primissima qualità, era destinato alla Scuola commerciale che Revoltella intendeva far sorgere a Trieste e che idealmente costituisce il primo nucleo di quella che alcuni decenni più tardi diventerà la Regia Università degli Studi Economici e Commerciali di Trieste (cfr. G. Cervani, Pasquale Revoltella, il ‘fondatore’, in L’Università di Trieste. Settant’anni di storia 1924-1994, Trieste, Editoriale Libraria, 1997, pp. 55- 64). Il busto campeggia infatti nelle foto dello studio del primo Rettore, Giulio Morpurgo, alla fine degli anni venti nell’allora sede dell’ateneo, sita in palazzo Dubbane, al civico 7 di quella che diventerà via dell’Università. Al momento della costruzione del nuovo complesso, il busto verrà traslato nella nuova Facoltà di Economia e Commercio, dove tutt’ora è conservato.
143 120 - PublicationBusto di Ugo MorinRusso, TeodoroIl busto, tagliato sopra le spalle, raffigura il matematico Ugo Morin (Trieste 1901-1968), primo preside della Facoltà di Scienze dell’Università di Trieste ed era stato realizzato poco dopo la sua morte per iniziativa della Facoltà stessa, che provvederà a collocarlo nell’allora Istituto di Matematica. Attualmente è collocato nell’aula a lui dedicata al III piano dell’edificio H2. L’autore del busto, il brindisino ma naturalizzato triestino sin dalla fine degli anni venti Teodoro Russo, declina con onesto mestiere il suo convenzionale naturalismo, che lo aveva portato, soprattutto nel secondo dopoguerra, a eseguire un cospicuo numero di opere d’occasione per committenti pubblici del territorio giuliano.
195 74 - PublicationCanto dell'animaFamà, AldoIl dipinto è stato donato all’ateneo triestino dall’artista dopo la mostra personale allestita dall’artista nella sala atti della facoltà di economia tra il 13 ottobre 2006 e il 26 gennaio 2007, la prima di una serie di esposizioni che hanno visto nella sede accademica numerosi artisti, tutti presenti con loro lavori nelle collezioni dell’ateneo. L’opera in esame, firmata è datata 2001, è tra le più rappresentative degli ultimi anni del percorso dell’artista triestino, che ha progressivamente ridotto gli elementi formali dei suoi dipinti per approdare a una efficacissima sintesi visiva e a una “grande pulizia formale nella quale le campiture di colore puro fanno da piano di raccolta per colori altrettanto puri ai quali l’artista si affida in contrappunto reso possibile dall’accostamento di toni caldi e freddi alternati in perfetto equilibrio” (Martelli, L’essenziale e poetica astrazione di Aldo Famà, “Trieste Arte & Cultura”, IV, 9, ottobre 2001, p. 16). Una convergenza che trova puntuale riscontro in Canto dell’anima, frutto come di consueto di una lunga elaborazione formale e materiale. Apparentemente fredda e rigorosa, la pittura di Famà è infatti la risultante di un processo che vive di intuizioni successive, prima rapidamente schizzate, poi strutturate dal punto di vista cromatico, quindi ancora provate in scala ridotta su piccole tele, e infine proposte nel grande formato. Nei dipinti di questi anni gli inserti in rilievo che punteggiano le composizioni diventano costanti imprescindibili: nell’opera in esame sono costituiti da sezioni di cerchio realizzate con lo stesso colore a olio utilizzato normalmente, che viene steso a spatola, ripreso e lavorato a più riprese prima che si secchi. Queste aree vengono quindi incise e screziate da altre e contrastanti tinte. Le campiture geometriche di colore puro che le circondano vengono quindi opacizzate con metodiche tamponature di diluente fino a raggiungere l’equilibrio voluto. In questo apparentemente gratuito accanimento c’è senz’altro mestiere, applicazione e studio ma c’è anche e soprattutto sensibilità, sentimento e ricerca di interne armonie. In questo modo Famà individua un sistema di segni che gli consente di ricomporre i tasselli di un itinerario poetico che trova origine nei tratti di penna con cui immagina le sue tele e si sedimenta progressivamente con la pazienza certosina con cui studia, progetta e realizza, alimentando nel frattempo impressioni che ci vengono restituite con puntualità nei titoli dei suoi lavori: un’elaborazione che gli costa quasi altrettanta fatica.
116 60 - PublicationCase dei minatoriSpacal, LojzeL’opera è stata esposta all’antologica di grafica allestita al Museo Revoltella nel gennaio del 1968, nello stesso anno, un’incisione dello stesso soggetto era presente alla collettiva di artisti giuliani allestita al palazzo delle Esposizioni di Roma (Rassegna di arti figurative e di architettura della Venezia Giulia e della Venezia Tridentina, catalogo della mostra di Roma, Palazzo delle Esposizioni giugno-luglio 1968, Roma, De Luca, 1968, p. 40) Era quello, come ricorda Rodolfo Pallucchini, “il periodo in cui Spacal si provava a fare delle matrici lignee un oggetto tra la pittura e la scultura. Ebbi così la fortuna di entrare nel laboratorio magico in cui viveva e lavorava. Aveva riunito con grande amore i materiali per la sua trasfigurazione poetica e magica a un tempo: relitti di imbarcazioni, reliquie di cancellate, cioè legni corrosi dalle onde marine, dal sole e dalle intemperie, oggetti dove il tempo ha lasciato una traccia inesorabile […] Arricchiva insomma ogni visualizzazione di un alone di fantasia infinitesimale, in una sempre più dosata architettura anteriore […] risolta in un linguaggio di autentica poesia” (Il cammino di Spacal, in Luigi Spacal opera grafica 1936-1967, a cura di G. Montenero, Milano, Vanni Scheiwiller, 1968, pp. 4-5). Alla Galleria del castello di Stanjel si conserva Le case dei minatori in Istria (1967, mm 620x870), pressoché identica nella composizione ma tirata con colori diversi (blu al posto del rosso con l’aggiunta di una campitura in giallo) e un minuto tratteggio nella parte superiore, qui lasciata in bianco (cfr. Galleria L. Spacal. Katalog stalne Spacalove Razstave v Gradu Štanjel Castello di Stanjel. Catalogo della mostra permanente do Spacal nel castello di Štanjel, Trieste, Stella, 1988, n. 75).
192 93 - PublicationCirî gnòt (Cercare ciò che non può trovare)Valentinuz, EnzoL’opera si offre come una sintesi – tanto dal punto di vista formale che contenutistico – della poetica dell’artista che, in tutti i suoi lavori, intesse delle favole stimolate dall’osservazione delle quotidiane difficoltà della vita. Servendosi di leggeri pannelli rivestiti da spessi strati di intonaco sovrapposto, Valentinuz incide la superficie fino a far emergere il colore voluto servendosi di linee sinuose e scoppiettanti da cui discende una calibrata alternanza cromatica di forme. L’apparente astrattismo che ne deriva si trasforma, ad un’attenta analisi, nella ricerca dei protagonisti (umani o animali) di una sorta di danza di figure che si rincorrono contribuendo alla definizione e all’approfondimento del messaggio contenuto nel titolo dell’opera. Forme che si inseriscono l’una nell’altra e che vanno a comporre profili di maggiori dimensioni si possono dunque riconoscere in un gioco enigmistico infinito che, nel caso specifico, allude metaforicamente all’umana paura di fronte al futuro, all’impossibilità di riparare una volta intrapresa una strada, alla necessità della determinazione e della sicurezza in ogni azione. Nella vita come nell’arte ogni sbaglio si paga: impossibile, infatti, modificare l’opera una volta tolta la materia. Allievo di Cesare Mocchiutti all’Istituto d’arte di Gorizia “Max Fabiani”, dopo essersi diplomato in decorazione pittorica murale Valentinuz frequenta l’Accademia di Venezia (senza concluderla) sotto la guida di Bruno Saetti e Carmelo Zotti. Abbandonata la pittura all’inizio degli anni Settanta dopo alcuni significativi successi in concorsi di livello nazionale, si riavvicina all’arte attorno al 2004 riprendendo il proprio percorso nel medesimo punto in cui l’aveva interrotto. L’artista decide infatti di recuperare gli insegnamenti dei suoi maestri e, nel contempo, di cimentarsi in modo attuale con tecniche di sapore antico come la pittura murale e il graffito. Messa a punto una miscela di malta, pigmenti colorati e colle, Valentinuz elabora dei pannelli che gli permettono di raccontarsi e raccontare la vita di ognuno con uno sguardo disincantato e obiettivo senza per questo risultare eccessivamente spietato o pessimista: un equilibrio raggiunto grazie alla complicità dei colori vivaci che l’artista accosta secondo gradazioni armoniose. Donata all’Università degli Studi di Trieste a seguito della sua personale, Cirî gnòt è dunque un esempio della più recente produzione dell’autore che alterna una fitta attività espositiva in personali, collettive ed ex tempore alla definizione di una nuova fase di ricerca avente come fulcro le pietre, frammenti del vicino Carso che possono – anche in questo caso – permettere la narrazione di una storia universale costellata di una miriade di vicende particolari.
116 54 - PublicationCorpi vaganti vacantiCervi Kervischer, PaoloIl dipinto, composto di due tele accostate, è stato donato all’ateneo in occasione della mostra personale dell’artista allestita nella sala atti della sede dell’allora facoltà di Lettere e Filosofia, oggi Dipartimento di Studi Umanistici. Le tele erano state in precedenza esposte al Teatro Stabile Sloveno del capoluogo giuliano in occasione di una rassegna intitolata proprio Corpi vaganti vacanti. Il presupposto dialettico cui si rifà la composizione, un corpo evanescente nella parte alta e un provocante nudo femminile in basso, è quanto mai eloquente nel fissare le polarità di ogni possibile argomentazione: “il corpo e la ragione, il loro incontrarsi e scontrarsi reciproco e infinito, sono infatti i termini di confronto di oltre un secolo di attività artistica in quell’area mitteleuropea di cui Trieste è parte fondante e imprescindibile. Le sagome incerte di queste tele si muovono su questo orizzonte: il corpo nero, maschile, negato e inconoscibile se non nei suoi indefiniti contorni, è anche la memoria volutamente oscurata di quei momenti, il simbolo della negazione di un’appartenenza storica e culturale, oltre naturalmente a rappresentare, in chiave psicoanalitica, la supremazia dell’inconscio e tutto ciò che vi è sotteso. Il corpo nudo femminile, esibito, provocante, grondante di colore, ripaga invece – o meglio, tenta di ripagare – i debiti di una tradizione troppo a lungo dimenticata, si riappropria di qualcosa che è suo e lo è sempre stato, alludendo ancora una volta alla multipolarità delle proprie fonti pittoriche: da Tiziano a Vedova, da Klimt a Kokoschka” (De Grassi 2007). Freudianamente l’eros è l’occasione, la spinta di questa parte dell’operare artistico di Paolo Cervi Kervischer: un eros oscurato, alluso, allegoria dell’esistenza individuale in una società cha fa dell’individualismo un precetto fondante ma nel contempo ne disarticola i presupposti fino a negarli, mistificandone i contenuti. Nella pittura di Paolo Cervi Kervischer si sovrappongono così registri stilistici solo apparentemente contraddittori, in bilico come sono tra la sensualità del tonalismo veneto e la concitazione espressionistica di molta della cultura figurativa austriaca a partire da Schiele e Kokoschka: i corpi diventano così i corpi e i volti di un intero secolo di pittura e non solo. Paolo Cervi Kervischer racconta infatti della memoria storico-artistica troppo spesso tradita della sua città, e a questa tradizione l’artista prova da sempre a riallacciarsi, superando di slancio un secolo di oblio e recuperandone le radici profonde.
148 57 - PublicationCrocifisso(1954)Negrisin, GiuseppeLa presenza di quest’opera nelle collezioni dell’Università degli Studi di Trieste si deve probabilmente alla lungimiranza del professor Pio Montesi, direttore del dipartimento di Ingegneria Civile dal 1957 al 1975, che con la collaborazione di Antonio Guacci, si è più volte speso per incrementare le collezioni artistiche dell’istituzione da lui diretta, concentrandosi soprattutto sugli artisti cittadini. Il Crocifisso appartiene alla prima fase della produzione di Negrisin, che a queste date comincia progressivamente ad affrancarsi dalla lezione mascheriniana per raggiungere quella cifra stilistica più meditata e personale che lo porterà alla ribalta internazionale verso la fine del decennio. Sin dalle proposte iconografiche e specie nella scelta di sostituire la croce con un motivo a racemi stilizzati, si evidenzia la matrice neoromanica di questa realizzazione, in buona parte legata ai rilievi del portale della chiesa veronese di San Zeno. Una formula che trova un contraltare in un altro esemplare di piccolo Crocifisso montato su di una tavola rustica, questa volta non datato ma presente (e riprodotto in catalogo) alla Mostra Nazionale d’Arte Sacra allestita alla Stazione marittima di Trieste nel luglio 1956, che pare una meditata variazione sullo stesso tema. “Le opere dell’arte negra, le testimonianze dell’espressività primitiva giocano sull’ispirazione di Negrisin il ruolo di suggeritori per la realizzazione di molteplici varianti, dentro una sintesi di volta in volta sempre diversa” (E. Santese, Giuseppe Negrisin, in Giuseppe Negrisin 1930-1987, catalogo della mostra di Muggia, Museo d’arte moderna “Ugo Carà” 7 dicembre 2007 – 12 gennaio 2008, a cura di B. Negrisin Cociani, Trieste, Stella Grafica Edizioni, 2007, p. 17).
107 69 - PublicationDedalo e Icaro(1964)Mascherini, MarcelloScultura a soggetto sacro ma collocata a guardia di un luogo laico per eccellenza come il Centro Internazionale di Fisica Teorica, è il colossale Arcangelo Messaggero del 1962, con il quale Mascherini aveva nel gennaio 1974 vinto un concorso bandito dal prestigioso istituto triestino volto all’acquisizione di significative opere d’arte (Appella 2004, p. 197). ‘Difficile’ e complesso, il bronzo aveva fatto parte di quel lotto di immagini, “scabre e petrose […] simboli inquietanti del pietrificarsi della più esaltata vitalità” presentate alla sala personale allestita alla XXXI Biennale veneziana del 1962 (Salvini 1962, p. 58). A differenza del ben più leggibile Arcangelo Gabriele, che lo precede di solo un anno, sin dalla sua apparizione colpiva nell’opera in esame lo slancio sfarfallante e l’iconografia bizzarra, con “l’avveniristica51 testa di antenne esposta sull’ala, ma il suo essere d’albero, di fusto, seguito nei suoi incavi, nei suoi aggetti e persino nei suoi mancamenti, è forse uno degli esempi più didascalicamente vittoriosi tra materia e significato, fra il cercare, il trovare, e lo scegliere e l’aggiungere per modellato, propri nel dominio dell’autore” (Gatto 1969, p. 32). Si trattava di uno dei documenti visivi più importanti dell’inizio di una stagione del tutto nuova per lo scultore triestino: “Di là dal rinnovamento formale, di là dalla novità del tono poetico, rimane ferma l’esigenza profonda di Mascherini di proiettare la realtà sullo schermo del mito: il mito, adesso, della forza primigenia della natura” (Salvini 1962, p. 59); una forza che l’artista cercherà sul campo, calcando con la plastilina le tormentate superfici delle rocce carsiche esposte al vento: “nelle mie opere ricalco le materie vere, dominate da me non casualmente e nelle quali imprigiono la mia volontà […] il modellato non è più espressione di eroismo, di grazie e di bellezza, bensì ricerca, angoscia, per la quale metto nella mia opera un senso drammatico. In particolare l’opera comprende in sé tutti i dubbi di cui è permeata la nostra attualità” (intervista del settembre 1968 in Appella 2004, p. 184).
207 100 - PublicationDreamy Bule; Pacific Light, Red seaStrathdee, BarbaraSi tratta di due tele di identiche dimensioni, Dreamy Blue e Red Sea, pensate intorno al 1977 en pendant con il titolo complessivo di Pacific Light, e quindi donate dall’artista al Centro Internazionale di Fisica Teorica. Operatrice delle arti visive e pittrice, Barbara Strathdee, originaria di Wellington in Nuova Zelanda, a partire dal 1966 vive per numerosi anni a Trieste, prima di far ritorno alla sua terra d’origine. Si è formata in Nuova Zelanda e a Londra, studiando arte. Dopo aver seguito i corsi della Sommerakademie di Salisburgo diretti da Oskar Kokoschka, a Trieste frequenta la Scuola Libera della Figura del Civico Museo Revoltella, diretta da Nino Perizi. Con il pittore Augusto Cernigoj la Strathdee apprende le tecniche dell’incisione, perfezionate successivamente ad Urbino. È stata illustratrice di libri per bambini. L’artista ha preso parte, in varie parti del mondo, a qualificate rassegne collettive e performance. Ha presentato, inoltre, mostre personali a Ferrara, Trieste, Venezia, Londra, Roma, Bologna, Wellington, Auckland, Christchurch, Udine, Hamilton, Frosinone, Milano. Da iniziali esperienze nella figurazione espressionistica, il suo linguaggio si è evoluto verso le più attuali tendenze dell’arte figurativa, assimilando ogni tecnica che fosse consona alle sue esigenze espressive. Sue opere sono collocate presso il Museo e alla Victoria University di Wellington in Nuova Zelanda.
140 110 - PublicationElementi tecnologici (Elemento bionico 2)Velussi, AdrianoIl dipinto si configura come un momento della riflessione sul rapporto fra la natura e l’uomo, tema con cui l’artista si confronta sin dagli esordi della carriera. Mantenendosi fedele a una maniera astratta, che trova il suo legame con il reale nelle scelte cromatiche compiute, Velussi si è infatti costantemente interrogato sugli esiti della corsa al progresso osservandola con un pessimismo diffuso riscattato, negli ultimi cicli pittorici realizzati, dalla speranza di una rinnovata, futura armonia. Autodidatta, il pittore goriziano ha subito individuato in Max Ernst e Giorgio De Chirico i propri riferimenti ideali giungendo alla creazione dei “manichini meccanici” dopo aver attraversato una fase di arte materica e fortemente sperimentale, caratterizzata da inserzioni di legno e metalliche all’interno di tele contraddistinte da una potente gestualità. Artificiali evoluzioni e adattamenti dell’essere umano a un mondo che lui stesso ha contribuito a modificare, questi automi esprimono la dicotomia fra la naturale missione dell’uomo alla preservazione dell’ambiente in cui vive e la sua ansia di nuovo, un contrasto che pare inevitabilmente destinato a spezzare il legame con quella che originariamente e leopardianamente si presentava come una madre benigna. Al di là dell’astrattismo di fondo e della trasfigurazione che subisce, con il suo corredo di negatività l’uomo rimane comunque al centro dell’opera e della riflessione dell’autore offrendosi all’osservatore come un assemblaggio di pezzi di ricambio che gli permettono di sopravvivere nel caotico sottofondo da lui stesso plasmato. Come in altre tele del medesimo ciclo, in Elementi tecnologici la luminosità diffusa che si irradia dal denso agglomerato centrale simboleggia la fiducia in un riscatto capace di sanare il delicato equilibrio con la realtà. Donata all’Università degli Studi di Trieste a seguito della personale del 2008, l’opera sintetizza le qualità della pittura di Velussi, costruita su una gestualità potente e un cromatismo capace di ipnotizzare l’osservatore. L’intensa attività espositiva dell’artista, membro di diverse Accademie e Associazioni Culturali, si è articolata in una fitta serie di mostre collettive e individuali.
144 96 - PublicationForme – spazioCernigoj, AugustL’opera è stata acquisita agli inizi degli anni settanta in occasione dell’apertura del Centro di Fisica Teorica di Miramare, come ricorda anche il talloncino apposto sul verso dallo stesso artista. Tra i molteplici campi dell’inesausta ricerca di Cernigoj su tecniche e materiali, un ruolo tutt’altro che secondario spetta proprio alla tarsia lignea, sperimentata per la prima volta all’inizio degli anni trenta in alcuni pannelli decorativi per la motonave Victoria e più volte riprodotti sulle pagine dei giornali specializzati (cfr. S. Vatta, Le gallerie galleggianti. Cernigoj decoratore, in Augusto Cernigoj (1898-1985). La poetica del mutamento, catalogo della mostra di Trieste, Civico Museo Revoltella 19 dicembre 1998 – 28 febbraio 1999, a cura di M. Masau Dan, F. De Vecchi, Trieste, Lint, 1998, pp. 83-87). L’artista riprenderà la sperimentazione in tal senso negli anni sessanta, grazie alla collaborazione della pittrice triestina Emanuela Marassi, specialista nel campo della tarsia lignea, che tradurrà con grande efficacia i bozzetti del maestro, tra tutti quelli per i grandi pannelli per il nuovo edificio del Teatro Sloveno. Oltre alle grandi scene narrative, Cernigoj sperimenterà anche composizioni astratte di dimensioni più ridotte, come quella in esame, o Spaziale, del 1966 conservato presso la collezione del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia, che può essergli accostato per tematica, fornendo anche un possibile aggancio cronologico per la sua datazione. Non risulta che Forme – spazio sia mai stato presentato al pubblico.
97 60 - PublicationGiardin Pubblico; Via Rossetti; Sacchetta; Largo Pitteri; Teatro Romano; Piazza Trauner; Chiesa di San Silvestro; Tor CuchernaGlanzmann, AmaliaGrazie ad alcune donazioni della Cassa di Risparmio di Trieste, avvenute in tempi diversi, sono giunte nelle collezioni dell’università otto litografie di Amalia Glanzmann raffiguranti diversi scorci di Trieste: la Sacchetta, piazza Trauner, il Teatro romano, la Tor Cucherna, la chiesa di San Silvestro, largo Pitteri e altre due vedute della città nuova, via Rossetti e il Giardin Pubblico. Quello delle vedute cittadine è un filone molto frequentato dalla pittrice triestina che con i mezzi più disparati (dalle tempere agli acquarelli, dai pastelli alle incisioni), non perde occasione di rappresentare scorci pittoreschi, dedicando un’attenzione particolare alla Città Vecchia. L’artista ha vissuto con profonda sofferenza i lavori di sventramento della parte antica della città che negli anni Trenta hanno spazzato via a colpi di piccone l’aspetto più antico di Trieste. La Glanzmann si è impegnata, quindi, a tramandare le vedute più caratteristiche di una città in piena trasformazione. Nelle incisioni dell’Ateneo triestino troviamo soggetti ricorrenti nella produzione della pittrice: vedute della Tor Cucherna, della chiesa di san Silvestro, di piazza Trauner, la piazza del Ghetto vecchio con l’inconfondibile casa con la bifora veneziana, sono contenute anche nel volume La nostra vecchia Trieste che nel 1942 viene dato alle stampe sotto gli auspici di Silvio Benco. Sono venticinque tavole a tempera estremamente gradevoli che rappresentano numerosi scorci cittadini. Il Civico Museo Revoltella di Trieste conserva, inoltre, una ventina di incisioni, alcune donate dalla stessa autrice. Amalia Glanzmann ha la grande capacità di rielaborare la veduta reale conferendole un’atmosfera pittoresca ed incantata. Sono immagini appassionate e di alto valore poetico che trasmettono l’amore della pittrice nei confronti della sua città. Ha scritto Silvio Benco: «per quante fotografie sieno raccolte dell’ultima ora di quella Trieste distrutta e di ogni particolare e quasi di ogni pietra e frammento delle sconvolte sue calli, non v’è nulla che possa farla rivivere nell’anima dei posteri al pari della visione di un’artista, in cui s’è trasmessa l’atmosfera che avvolgeva le cose insieme col sentimento commosso che le avvinceva allo spirito» (La nostra vecchia di Trieste: vedute di Amalia Glanzmann, introduzione di Silvio Benco, Udine, Del Bianco, 1951, p. 5). La formazione di Amalia Glanzmann nasce sotto il segno di Eugenio Scomparini e passa attraverso due preziosissimi soggiorni a Monaco e a Parigi che la mettono in contatto con le novità dell’arte contemporanea. Amalia, tuttavia, in un’epoca intensa, percorsa da molteplici orientamenti, trovò una sua personalissima strada, in sintonia con la sua delicata anima squisitamente femminile, accanto ad una volontà ferma e ad un piglio determinato. Un’altra affascinante figura di donna-pittrice di cui il panorama triestino è ricco, basti pensare ad Elena Germounig, Nidia Lonza e Leonor Fini.
238 419 - PublicationImprovvisazione(2009)Frausin, DanielaL’acquerello è giunto nelle collezioni dell’ateneo in occasione della mostra Danza evanescente allestita presso la Sala degli Atti della Facoltà di Economia tra il 24 giugno e il 12 novembre del 2011. Si trattava di una rassegna incentrata sul duplice interesse dell’artista per la danza e per l’acquerello. Per la prima si trattava di un suo sogno irrealizzato che ispira sottotraccia molte delle sue composizioni sin dagli esordi e affiora anche nei lavori apparentemente più astratti come quello donato all’ateneo triestino. L’acquerello, invece, è indubbiamente la tecnica più amata da Daniela Frausin, quella che meglio le permette di esprimersi con fluidità, lontana dalla severa disciplina imposta dalla grafica, che pure rimane tra i mezzi d’espressione preferiti, o ancora dalla complessità tecnica della pittura più tradizionale. Il termine Improvvisazione usato per il titolo risulta particolarmente adatto per descrivere l’opera in esame, ed evoca anche un immaginario, quello della musica afroamericana, particolarmente adatto per commentare le apparizioni fluttuanti suggerite dalle pennellate delicate e al tempo stesso impetuose che creano con linee morbide e sinuose vere e proprie figure danzanti. Si tratta di apparizioni che non poggiano su un piano preciso e sono solo in parte percettibili nella luce e nelle velature. Prendono forma e si dissolvono nel nulla e poi ricompaiono attraverso lontane trasparenze, come se fossero trascinate in un sogno lontano dai conflitti, dalle tensioni. In questa come nelle altre opere presenti alla mostra dell’ateneo triestino: «il colore acquisisce finalità poetiche, si dilata, si materializza e svanisce; mentre nella luce risiede un potere evocativo: L’artista utilizza luce e colore per dare libero sfogo ai sentimenti e alla tensione drammatica come fossero un eco di complesse scenografie, “intensificatori” dell’espressività» (G. Jercog, Danza evanescente, pieghevole della mostra di Trieste, Sala degli atti della facoltà di Economia, 24 giugno – 12 novembre 2011).
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