Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche
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- PublicationA new look at dehumanization: The association between menstrual cycle changes and dehumanization of women(Università degli studi di Trieste, 2015-04-20)
;Piccoli, ValentinaCarnaghi, AndreaHormonal fluctuations across menstrual cycle affect women's sexuality, women's self- perception, women's self-presentation, women's mate preferences, and their attitudes towards other women. In particular, women in high-conception risk (i.e., the probability of pregnancy), compared to women in low-conception risk, are more willing to spend money for items that increase their appearance (e.g., Durante et al., 2011), more prone to dress skin- revealing clothes, and are judged to look more attractive by male and female raters (e.g., Haselton et al., 2007). Enhanced levels of conception risk are associated with competitive attitudes towards women on the attractiveness dimension (e.g., Fisher, 2004). These results likely reflect a self-promotion strategy that is rooted in intra-group comparisons along the dimensions of attractiveness. Research in social psychology shows that stressing the relevance of physical appearance and attractiveness of a target (e.g., Vaes et al., 2011) can lead to the dehumanization of this target (i.e., the denial of distinctively human features), and in particular of women. In the current thesis, I test the main hypothesis of a link between conception risk levels and the dehumanization of women. In Chapter 1, I present an overview of the physiology of the female menstrual cycle and I describe the possible methods to compute the likelihood of conception. In Chapter 2, I summarize research on behavioral and cognitive changes associated with menstrual cycle. Specifically, I address the question of whether high conception risk affects the importance women devote to their own and to other women's attractiveness. Moreover, I discuss research strands that analyze the importance women attribute to dominance-related cues in men. I discuss this evidence, according to evolutionary and social psychological perspectives. In Chapter 3, I summarize studies on the dehumanization, and I then outline whether and how focus on attractiveness and physical appearance lead to the dehumanization of women, but not of men. On the basis of this review of the literature, I will put forward the hypothesis that I will test in four studies. I demonstrate that the explicit and automatic dehumanization of other women increases as the conception risk is enhanced. Specifically, in Chapter 4, I show that the enhancement of conception risk, only in normally ovulating women, but not in hormonal-contraceptive users, is associated with the dehumanization of women, but neither of men (mating relevant target) nor of elderlies (mating irrelevant target). Moreover, I show that increased levels of conception risk led not only to the dehumanization of women but also to the enhancement of intra-sexual competition. In Chapter 5, I employ an unobtrusive technique of attitude assessment (i.e., semantic priming procedure) to replicate these effects. In Chapter 6, I replicated previous results (Chapter 4 and 5) and, by salivary assessment of estrogen and progesterone, I further explore the role of sex hormones in the relationship between menstrual cycle stages and the dehumanization of women.1002 744 - PublicationL'a-priori economico. Per una fenomenologia dello stato del debito(Università degli studi di Trieste, 2012-03-21)
;Giugliano, DarioPolidori, FabioIl pensiero germinale, che ha dato vita a tutto il resto delle riflessioni per la definizione dell’ambito della ricerca e della relativa stesura della tesi, ha riguardato la coincidenza di significazioni interne al termine «sostanza». Nelle principali lingue europee (spagnolo, francese, inglese, tedesco), infatti, oltre che in italiano, il termine «sostanza», che deriva dal latino substantia, nelle sia pur minime variazioni sul piano del significante (rispettivamente, sustancia, substance, substance, Substanz), mantiene pressoché una costante significazione, ma, soprattutto, in ognuna delle lingue citate prima, questo termine mostra la stessa oscillazione di significati tra due poli: quello che rinvia al concetto di materia ovvero essenza; quello che rinvia al concetto di avere o bene di tipo economico. Questi due concetti si trovano, per così dire, intrecciati all’interno della riflessione filosofica sull’economia ovvero, più specificamente, sul concetto di valore monetario e di scambio commerciale. Partendo da uno spunto ricavato da un fondamentale trattato medioevale sull’essenza della moneta, il De moneta di Nicola Oresme, siamo passati a determinare quella concezione propria al vescovo di Lisieux della moneta come merce – concezione quest’ultima che farà sentire l’eco della sua influenza fino alle soglie della cosiddetta scuola classica, se pensiamo, per esempio, che ancora l’Abate Galiani citerà Nicola Oresme come una fonte solida delle sue riflessioni, per non dire del fondamentale contributo in questo senso dato da Rudolf Hilferding. Per sostenere questo spunto di riflessione con una base storica, abbiamo pensato di affrontare questa questione proprio a partire dal pensiero greco classico, appoggiandoci agli studi di George Thomson, il quale partì dall’idea che dovesse esistere un legame diretto tra la formazione dei concetti di essere (to on), essenza e sostanza (ousia) e la creazione della moneta ovvero la creazione del concetto di forma astratta di merce, come puro mezzo di scambio, che essa introdusse nella vita quotidiana della Grecia antica. A questo punto definiti gli ambiti, siamo passati alla stesura vera e propria della tesi, che risulta divisa in due parti, una prima a carattere storico (se un simile aggettivo può mai essere utilizzato per una rilettura critica di alcuni intrecci concettuali, così come sono andati sviluppandosi e annodandosi lungo il corso dei secoli, in area mediterranea) e una seconda, nella quale si avanzano delle ipotesi teoriche. La prima parte, prendendo avvio dalle acquisizioni proprie alla riflessione moderna della cosa-denaro (Adam Smith e Kant), tenta un percorso a ritroso verso quell’origine costitutiva del concetto di economico come possibilità dello scambio e relativa dialettica tra valore d’uso e valore di scambio, appunto. Qui, questione etica e ontologica si incrociano, contribuendo a una determinazione dello spazio politico come flusso polemico. Ma, soprattutto, a emergere è una curiosa tensione al differimento ovvero ancora alla determinazione di quel medesimo spazio politico come intersoggettività, il cui ordine di equilibrio si posizionerà tra i versanti dell’alienazione (come dislocamento) e della mediazione. Comincia, a questo punto, già a emergere l’istanza costitutiva del debito, come processo eminentemente temporale ovvero di confronto tra la soggettività e la possibilità di una sua modificazione rispetto all’altro (impegno, promessa, ipotesi). La seconda parte si apre con una lettura del saggio di Friedman «La metodologia dell’economia positiva» del 1953, in cui l’economista di Chicago si confronta con le linee guida dell’epistemologia cosiddetta post-positivistica. La scelta di partire, per un inquadramento delle idee epistemologiche di base della scienza economica contemporanea, da un famosissimo saggio di Friedman non è stata, ovviamente, dettata esclusivamente da ragioni di carattere teorico in senso stretto. Milton Friedman, per tanti versi, costituisce ancora oggi il riferimento obbligato per una certa curvatura nella gestione delle cosiddette politiche economiche liberiste, con tutto quello che «precede» a queste sul piano di un’elaborazione di tipo teorico (nel senso di etico-normativo, stando ancora a una terminologia di tipo positivistico). L’analisi del saggio di Friedman in realtà ha come scopo quello di circoscrivere ulteriormente l’argomento della ricerca intorno alla sua questione centrale: la determinazione dell’astrazione pura come dinamica interna dell’economico in generale. Da questo punto di vista, un contributo notevole per l’impulso teorico di questo nostra ricerca è venuto dagli scritti di Alfred Sohn-Rethel, a cui non ci si potrà non riconoscere debitori – come pure, andrà riconosciuto un debito considerevole nei confronti delle riflessioni di J. Derrida, presenti, in particolare, nel saggio Donare il tempo – la moneta falsa, alle quali, a una lettura attenta, ogni riga di questa tesi mostrerà un debito di ascendenza. Il nucleo teorico centrale di questa seconda parte potrà essere individuato intorno alla figura dell’ocularità come possibilità stessa del rispecchiamento riflessivo ovvero, ancora, come condizione del rilevamento in quanto azione indiretta. L’indagine storico-archeologica di Clarisse Herrenschmidt sulle origini della scrittura son state utili per consentire un più facile tentativo di riverbero di questa individuazione teorica sulle acquisizioni critiche della prima parte. Emerge, infine, con maggiore consapevolezza una già accennata omologia tra pratica (teorica) della scrittura e pratica della coniazione/scambio come possibilità di accesso alla condizione (di una visione) dell’invisibile/astratto.1161 1352 - PublicationAl servizio degli Asburgo: carriere, famiglie e proprietà di nobili friulani in Austria tra Seicento e Settecento(Università degli studi di Trieste, 2012-04-24)
;Santon, Vania ;Trebbi, GiuseppeZannini, AndreaObbiettivo della tesi è la ricostruzione delle biografie di alcuni nobili friulani che fecero carriera presso le corti asburgiche tra Seicento e Settecento. Le riflessioni si sono concentrate in particolar modo su tre famiglie, ossia i Porcia di Sotto, i Colloredo-Mels discendenti da Bernardo e i Della Torre Valsassina. La ricerca si è basata sulla disamina di tre aspetti principali, utili a sondare quale fosse la capacità di adattamento aristocratica alla società di corte asburgica in età moderna. In primo luogo sono state studiate in maniera approfondita le carriere nobiliari, cercando di mettere a fuoco i percorsi professionali intrapresi, nonché le modalità con cui i nobili gestirono gli incarichi loro conferiti. Un secondo aspetto della ricerca ha riguardato l’analisi delle politiche sociali intessute dalla nobiltà, con particolare riguardo per le scelte matrimoniali, la rete di parentele e le opportunità da essa offerte, nonché l’attenzione eventualmente manifestata dal capofamiglia nei confronti dei propri congiunti allo scopo di mantenere sempre in auge l’onore del lignaggio. Il terzo argomento è stato infine indirizzato alla descrizione delle proprietà dislocate in territorio asburgico e all’abilità di tali famiglie nobili nell’amministrazione del patrimonio loro intestato. Il pilastro della tesi è costituito dalla ricerca sui Porcia, cui è stata dedicata la maggiore attenzione, mentre i casati Della Torre e Colloredo costituiscono un interessante metro di paragone. Dei Porcia sono state ricostruite le vite dei conti tra la seconda metà del Cinquecento fino alla metà del Settecento, con maggior interesse per le esperienze del primo principe Giovanni Ferdinando (1604-1664) di Giovanni Sforza Porcia e il quarto principe Annibale Alfonso Emanuele (morto nel 1738) di Ferdinando Guido Porcia. Accanto alle vicende purliliensi, il presente lavoro ha tentato di ricostruire anche i profili biografici dei conti Della Torre Valsassina, vissuti tra la seconda metà del Cinquecento e i primi quattro decenni del Settecento. Il contesto sociale torriano di partenza fu radicalmente diverso rispetto ai Porcia e anche ai conti Colloredo, poiché i signori di Duino erano già residenti in quella parte di Friuli sottoposta all’amministrazione asburgica. Nonostante fossero sudditi naturali del Sacro Romano Impero, la tesi intende dimostrare l’impegno assunto dai torriani nel tentativo di affermarsi nella società di corte asburgica. L’ultimo casato analizzato è quello dei Colloredo-Mels, con specifica attenzione alla linea di Bernardo. In questo caso le osservazioni si sono accese a partire dalla generazione di metà Seicento, ossia quando si compirono i primi tentativi nobiliari di farsi strada presso gli Asburgo. La tesi, composta di quattro capitoli, presenta anche un’appendice con alcuni dei più significativi documenti archivistici analizzati, nonché una bibliografia generale, gli stemmi e infine gli alberi genealogici delle famiglie nobili studiate.4010 7803 - PublicationAlle falde del Monte Kenya. Ai confini dello sviluppo. L'intervento umanitario triestino alle pendici sud-orientali della "montagna splendente."(Università degli studi di Trieste, 2008-04-17)
;Viezzoli, GiampieroBattisti, GianfrancoIl presente lavoro di ricerca prende particolarmente in esame una regione situata in Kenya, il Mbeere. Il motivo di questa scelta è semplice. In questa regione keniana si è sviluppato per diversi decenni un significativo intervento umanitario da parte della città di Trieste, specialmente attraverso la sua diocesi, i suoi missionari, l’organizzazione non governativa ACCRI, i volontari laici, il coinvolgimento di tante persone della città giuliana, e non solo, ma anche di altre parti d’Italia, attraverso donazioni, sostegni materiali e morali di vario genere e, da ultimo, anche di organismi associativi come i Rotary Clubs di Trieste e del Friuli Venezia Giulia. Uno slancio quindi che è stato ad un tempo civile, sociale, religioso, intrapreso da varie componenti della città e volto a promuovere una parte certamente delimitata, ma molto rappresentativa, della vasta nazione keniana. Si è ritenuto maturo così il tempo di un’adeguata riflessione su questa esperienza, per svolgervi un’analisi dettagliata, non solamente da un punto di vista storico, vale a dire della cronologia degli eventi che hanno contrassegnato questa esperienza in quasi quarant’anni, a partire dal 1970, ma anche per comprendere meglio il territorio su cui è insistita questa esperienza. Comprendere le peculiarità di quella regione in termini fisici, economici, antropologici, sociali. In sostanza uno studio di geografia umana, forse nel senso classico del termine, teso cioè a comprendere la presenza dell’uomo in una determinata porzione di territorio, in rapporto ai fenomeni più pregnanti dell’ambiente che lo circondano e come questi influenzano la sua esistenza. Inoltre, poiché emerge con immediatezza quanto ci si muova in un contesto socio-economico molto arretrato, il presente studio geografico assume anche le caratteristiche di una ricerca condotta sui contenuti e le modalità del sottosviluppo di questa zona, inserendosi, probabilmente, nel filone tipico degli studi di geografia dello sviluppo. La regione considerata è infatti quella che si estende sul versante sud orientale del monte Kenya, il massiccio centrale principale della nazione keniana, a cui da lo stesso nome. Un territorio molto particolare da un punto di vista geografico perché varia dalla sommità montuosa dell’ex cratere, costituita oggi dai due picchi principali Batian e Nelion entrambi di un’altitudine superiore ai 5000 metri, per scendere gradualmente, in tipico ambiente afro-montano, costituito da lande e pietraie, poi da umide foreste alpino-tropicali, quindi da foreste di bambù, falde montuose e declivi collinari, fino alle quote più basse di 800-1000 metri, ricoperti di savana arbustiva in clima semiarido. Questa enorme varietà di paesaggio condiziona moltissimo l’esistenza dell’uomo, le sue scelte esistenziali, le produzioni agricole, gli assetti sociali e culturali delle comunità. Questa grande varietà umana ed ambientale è stato possibile studiarla da vicino anche perché l’intervento umanitario triestino, non è partito subito dalla regione del Mbeere ma, in realtà, ha iniziato proprio sulle pendici più alte, ancora abitate, del monte Kenya, vale a dire nell’Embu superiore, territorio montuoso, circondato dalla foresta tropicale, a quote altimetriche che raggiungono tranquillamente i 2000 metri. Qui, nella piccola località di Ngovio, si è svolta la prima fase della missione triestina, dal 1970 al 1984. Successivamente, a completamento di un ciclo molto positivo e ricco di risultati concreti, l’intervento umanitario di Trieste ha scelto di riposizionarsi in un ambiente naturale ed umano molto più svantaggiato e sofferente, quello definito dell’Embu inferiore o, appunto, del Mbeere, dal nome dell’etnia che lo abita e che diverrà, infatti, la sua denominazione ufficiale allorché le autorità governative, nel 1996, decideranno di costituirlo in distretto amministrativo autonomo, al pari degli altri distretti in cui è suddiviso il Kenya. Riconoscimento tardivo, segno evidente della marginalità con la quale esisteva ed era percepita questa zona, in effetti molto trascurata anche dai colonizzatori inglesi, cosa che non le ha mai consentito uno sviluppo degno di questo nome, ma che, allo stesso tempo, l’ha preservata lungamente dalle caotiche trasformazioni tipiche della modernità. Un pezzetto d’Africa rimasto quindi intonso, con i suoi grandi pregi, ma anche con il peso delle sue arretratezze e difficoltà esistenziali. Un piccolo microcosmo molto significativo dal punto di vista dello studio di un Africa rurale che non riesce ancora ad emanciparsi, pur se attraversata tutto attorno e trasversalmente dalle grandi correnti dei cambiamenti sociali e culturali che spazzano l’intero continente nero. In questo territorio marginale si insediano nuovamente nel 1984 i sacerdoti e volontari triestini. Tale insediamento avviene proprio in concomitanza con una delle più gravi carestie degli ultimi decenni, quella conseguente alle annate gravemente siccitose del 1983 e 1984. Vengono quindi avviate varie iniziative atte a sostenere la popolazione del luogo fortemente provata dalla penuria alimentare ed idrica. Nella ricerca vengono esaminate queste tipologie di intervento. Lo studio di questo territorio è inoltre significativo per altre ragioni. La prima è rappresentata dalle conseguenze prodotte dalla riforma agraria e dalla suddivisione delle terre, Land Adjudication Programme, che sconvolge l’assetto tradizionale della ripartizione dei terreni fra i clan della popolazione Mbeere e si riflette pesantemente sugli stessi archetipi di produzione agricola. Altro elemento peculiare da considerare è l’attività esogena su questo territorio, promossa dal Governo keniano, mediante la costruzione di grandi sbarramenti idroelettrici sul corso del fiume Tana, il principale del Kenya quanto a lunghezza e portata d’acqua, che sconvolge il basso Mbeere con grandi lavori, nuove infrastrutture, mutamento dell’ambiente tipico fluviale, arrivo di manodopera straniera dall’Europa orientale, nuove strade asfaltate mai viste prima, grandi automezzi, in una parola un notevole quanto improvviso impatto con la modernità. Quindi è significativo comprendere i processi di sostegno alla popolazione avviati in questo articolato contesto proprio dall’intervento umanitario preso in esame, a cosa effettivamente esso mirava, l’entità e tipologia degli aiuti realizzati, quali riscontri si sono avuti sull’evoluzione economica, agricola, perfino sociale della gente del luogo. Ad esempio, il favorire il diffondersi della produzione della frutta tropicale fra le coltivazioni locali, l’introduzione delle piante foraggiere idonee all’ambiente arido, la creazione di vivai orto-frutticoli, la ripresa della raccolta del miele, la trasformazione artigianale di alcuni di questi prodotti. Per non dimenticare l’opera di sistemazione di strade o piste all’interno della savana, la realizzazione di dighe, invasi, pozzi, cisterne, serbatoi nonché di importanti centri di aggregazione sociale, costituiti dalle piccole chiese o cappelle, dispersi nel fitto della boscaglia. Diviene quindi importante l’esame del progetto di Kamurugu, il centro agrario dimostrativo-sperimentale avviato dalla cooperazione triestina e che rappresenta l’esempio più riuscito e significativo dal punto di vista della cooperazione allo sviluppo svolta in questa zona, ma anche in tutto il Kenya, tanto che nel 2002 le Nazioni Unite, con sede a Nairobi, lo proclameranno l’intervento più riuscito di riduzione della povertà in Kenya. Una serie di analisi quindi che consentono di capire meglio non solo la realtà di un ben delimitato territorio, ma anche di comprendere i complessi meccanismi legati allo sviluppo, le correlazioni fra le tipologie di produzione agricola e la povertà rurale, lo stato della sanità pubblica, la carenza dell’approvvigionamento idrico, la precaria scolarizzazione, le deboli infrastrutture, il loro impatto complessivo sui processi di sviluppo in atto, ma che faticano alquanto a realizzarsi. Ecco perché una sezione di questo studio è dedicata anche a comprendere il problema della povertà e del sottosviluppo in tutto il Kenya, per poi poterlo meglio declinare al livello dei piccoli distretti rurali come il Mbeere. Infine si è dovuto provvedere a svolgere un doveroso aggiornamento sulla situazione politico-economica del Kenya quale realizzatasi all’indomani delle elezioni presidenziali e parlamentari del 27 dicembre 2007, il cui esito, com’è noto, ha precipitato il paese in un rovente clima di scontri etnici e sociali. Scontri che hanno avuto pesantissime ripercussioni sull’economia, la quale era in piena crescita da diversi anni e che ora sarà invece seriamente messa alla prova. Fortunatamente la mediazione dell’ex segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, ha avuto successo, ha riavviato il dialogo istituzionale interrottosi ai massimi livelli e ha ridato concrete speranze di pace al popolo keniano.1407 566 - PublicationAnalisi delle variabili emozionali nel rapporto bambino-madre-operatore sanitario attraverso l' uso del baby F.A.C.S. di H. OSTER(Università degli studi di Trieste, 2010-03-22)
;Soloperto, SarahKermol, EnzoSono stati condotti due esperimenti per dimostrare che il neonato è in grado di produrre espressioni facciali discriminabili, coerenti con lo stimolo somministrato e associabili alle espressioni facciali degli adulti. L'originalità di questo lavoro si basa sull'analisi delle espressioni facciali di neonati e lattanti analizzati in tre fasce di età. L'età mediana è stata di gironi 3 (Grupo 1), di giorni 82 /Gruppo 2), di giorni 144 (Gruppo 3). I soggetti sono stati sottoposti a stimolo positivo e stimolo negativo e quindi analizzati attraverso l'utilizzo del Baby FACS di H. Oster (2007). Le primo studio l'obiettivo era verificare la capacità comunicativa dei soggetti nela relazione madre-bambino-estraneo. Si sono volute rilevare, inoltre, le eventuali diversità di risposta emotiva in interazione con la madre e con un estraneo, analizzando la presenza, la durata e l'intensità del sorriso semplice e del sorriso Duchenne, tutto ciò in associazione alla eventuale apertura della bocca, oltre al contatto visivo. Si sono confrontate le risposte espressivo facciali di 205 bambini (105 maschi; 117 primogeniti) sottoposti a stimolo positivo con la madre (durata mediana 3207 frames) e quindi con una persona estranea (durata mediana 3177 frames). Dall'analisi del sorriso semplice è emerso che con l'aumentare dell'età aumentano la numerosità dei bambini che lo attuano (n. 22; 81; 66), la numerosità degli episodi e la durata degli stessi. La numerosità dei bambini che sorride con l'estraneo p maggiore che con la madre nei Gruppi 2 (m=411; e=672) e 3 (m=397; e=441). Nei Gruppi 2 e 3 è significativa anche la numerosità degli episodi prodotti dai maschi con l'estrano (m=292; e=380). La durata di tali episodi è sueriore in interazione con l'estraneo nei Gruppi 2 e 3. L'analisi della numerosità degli episodi in intesità massima ha evidenziato un picco nel livello "medio" dei Gruppi 2 e 3. Nella produzione del sorriso Duchenne del Gruppo 3 i maschi sorridono di più all'estaneo. La numerosità degli episodi è significativa nel Gruppo 2 in favore dell'estraneo e nei maschi sempre con l'estraneo (m=197; e=304). Non ci sono differenze nella durata degli episodi. Relativamente alla intensità massima c'è differenza tra la numerosità degli episodi ininterazione con la persona estranea rispetto a quella con la madre: nel Gruppo 2 c'è differenza tra i tre livelli di intensità analizzati, con un picco nei livelli "medio" e "alto" in interazione con l'estraneo. Relativamente al contatot visivo i bambini dei Gruppi 2 e 3 attuano un maggior numero di episodi con la madre, la durata è però maggiore con la persona estranea. Nel secondo studio, il cui obiettivo era testare diverse tecniche dia nalgesia non farmacologica, è emerso che i bambini (n. 145) che hanno prodotto il pianto durante la somministrazione dello stimolo negativo sono più numerosi nel Gruppo 2 rispetto al 3. Durante lo stimolo negativo la durata dle pianto è stata rilevante in presenza del "clown" (100%). Rispetto alle vairabili testate l'essere tenuto in braccio da parte della pediatra è risultato essere l'analgesia non farmacologica più efficace. Dall'analisi dell'intensità del pianto, è emerso che ci sono differenze significative all'interno del Gruppo 2 nella variabile "fasciatoio" e nella variabile "madre sensoriale" entrambi nel livello "alto" rispetto ai livelli "basso" e "medio". Relativamente al Gruppo 3, nell'aalisi con i criteri sopra descritti, si è rilevata una differenza significativa nella variabile "fasciatoio" con un incremento dell'intensità nel livello "basso". I risltati mostrano che fin dai primissimi giorni di vita i bambini sono capaci di produrre espressioni facciali distinte che comunicano il loro stato interno. Hanno la capacità di riconoscere il volto di una persona estranea rispetto al volto della madre. Complessivamente questa ricerca ha dimostrato che con la crescita intervengono minimi fattori di modificazione delle espressioni facciali di sorriso e di pianto e che c'è stabilità nela produzione delle espressioni facciali derivanti da uno stimolo negativo, che induce il bambino al pianto, e da uno stimolo positivo, che invece lo induce al sorriso. Tale stabilità permane fino ai 5 mesi di età.1915 39003 - PublicationAnalisi e ruolo di Hezbollah negli assetti geostrategici dell'area mediorientale(Università degli studi di Trieste, 2011-03-08)
;Bossi, EmanueleScaini, Maurizio“Analisi e ruolo di Hezbollah negli assetti geostrategici dell'area medio orientale “. Contenuti: Si è ritenuto di procedere, dopo una formazione universitaria in arabistica, ad una ricerca relativa al mono islamico, in particolare incentrata sulla Repubblica Libanese. In funzione della scelta dell’indirizzo in geostrategia la ricerca è stata dedicata all’analisi e alla descrizione della realtà politica del partito Hezbollah, della sua struttura, della sua attività e all’osservazione approfondita delle conseguenti ripercussioni che essa ha sul tessuto politico sociale ed economico del Libano e dell’area medio orientale. Partendo da un approccio analitico della situazione attuale del Libano e della struttura del partito, si è passati a descrivere il modus operandi dello stesso, descrivendone metodi, obiettivi e risorse. L’obiettivo è quello di dare una chiara ed esaustiva visione dello stato della situazione in cui si trova ad operare Hezbollah, e delle conseguenze della sua attività. Si vuole concludere dando un taglio scientifico e descrittivo e ragionando su prospettive geopolitiche future relative all’area medio orientale; l’elaborato parte dal presupposto che si sta analizzando una realtà politica e strategica, protagonista variegata ed ineludibile della politica araba, piuttosto che un mero gruppo terroristico. Si vuole altresì spiegare la complessità del fenomeno politico in esame, non solo per la sua elusiva e sommersa rete d’influenza istituzionale, politica ed economica, ma anche per l’oggettiva molteplicità delle sue ramificazioni e dei suoi interessi e la capacità di perpetuare una politica a “geometria variabile”. Da questa complessità si evince la difficoltà che hanno i suoi interlocutori internazionali sia ad interagire col partito avendone una visione dettagliata del suo effettivo potere, sia ad escluderlo, come certi vorrebbero, dalla fase decisionale della politica medio orientale. La situazione delle sue alleanze internazionali è ulteriore fonte d’interesse e trova all’interno del’elaborato un considerevole spazio d’analisi. Il percorso di ricerca laddove incontra dei vuoti nell’essenziale ottenimento dei dati ricavati da fonti dirette, si appoggia alla deduzione e al ragionamento probalistico prodotto da accademici ed illustri analisti. Il metodo di ricerca è caratterizzato dal duplice metodo della ricerca sul campo, attraverso incontri, visite, raccolta di documenti ed interviste nel paese interessato ed in Siria e attraverso lo studio delle fonti web e bibliografiche e attraverso l’acquisizione di dati ricavati da incontri e conferenze. In particolare le fonti del web visitate sono quelle relative ai siti istituzionali, ovvero dei Governi e degli Enti che svolgono un’attività attinente all’area medio orientale e che in detti luoghi sono presenti. Oltre a questi sono stati analizzati quelli dei partiti, dei media e delle associazioni interessati dalla ricerca. Per quanto concerne la bibliografia cartacea è stata studiata quella monografica di settore oltre soprattutto alla consultazione di periodici, in parte suggeriti dal tutor, soprattutto di area britannica, attinenti alla geopolitica dell’area medio orientale, oltre naturalmente a riviste di geopolitica italiane. L’impaginazione segue le disposizioni previste dall’Amministrazione Universitaria. Struttura e capitoli: I capitolo: si descrive la situazione geopolitica del Libano, per introdurre una chiara visione del tessuto sociopolitico ed economico in cui opera Hezbollah. Il capitolo è diviso in otto paragrafi che trattano le principali variabili da tenere in considerazione ovvero: la storia contemporanea; il livello di maturità democratica del Paese e le sue rappresentanze elettorali; i principali indicatori economici e la situazione economica generale; il problema dell’influenza della cultura occidentale nei costumi e nella giurisprudenza dello Stato; il nazionalismo libanese e le caratteristiche del settore delle risorse energetiche a disposizione del Paese. II capitolo: si descrivono e si analizzano la struttura gli obiettivi e l’attività del partito Hezbollah, come punto di partenza per affrontare in seguito la descrizione dei suoi metodi operativi e politici e delle ripercussioni che questi anno sulla politica medio orientale. Il capitolo è diviso in otto paragrafi, nei quali si approfondisce: la storia di Hezbollah attraverso le sue tappe politiche; il significato e l’importanza del nuovo ed innovativo Statuto che rivoluziona significativamente dal punto ideologico e pratico il partito; i molteplici aspetti della struttura di Hezbollah e delle conseguenti ramificazioni dei suoi campi d’infiltrazione e della sua attività; la formazione dei leaders politici e militari e le gerarchie che organizzano i due settori; la descrizione del tipo di attività e metodi impiegati; descrizione del profilo politico dell’uomo al vertice della struttura: Hasan Nasrallah; approfondimento sulle elites composte da militanti al servizio dell’ala militare ed esposizione ragionata di alcune dati in cifre relativi all’attività del partito. III capitolo: si descrive il rapporto che intercorre tra il partito e le Istituzioni libanesi, dando particolare rilievo alla capacità di influenza reciproca che hanno Hezbollah e le realtà governative. Si cerca inoltre di analizzare quale sia la reale autonomia delle stesse, quanto, Hezbollah possa esercitare pressioni e con che mezzi. Quanto sia reale e dimostrabile la teoria dello “stato nello Stato” secondo cui Hezbollah disponendo di un esercito, di una rete internazionale, di infrastrutture in tutti i settori e di cospicui finanziamenti sia un’entità statale e territoriale autonoma, concorrenziale e antitetica rispetto allo Stato libanese o addirittura ad esso superiore e in grado di controllarlo. Il capitolo è diviso in otto paragrafi, nei quali si approfondisce in particolare: il concetto di resistenza e martirio nella mentalità sciita; il potere di Hezbollah di controllare ampi e importanti settori della realtà sociale e finanziaria del Libano e con quali mezzi ciò avviene; il rapporto con l’economia reale e i sistemi di autofinanziamento; il rapporto con i vertici del clero sciita e con i religiosi; le forze di opposizione e gli alleati politici al di fuori del contesto sciita; la composizione dell’elettorato di Hezbollah; i sistemi di reclutamento di militanti e miliziani e l’apporto dei media vicini al partito; il rapporto di Hezbollah con le nuove tecnologie e la capacità e l’opportunità del loro impiego. IV capitolo: si analizzano, in sei paragrafi, i rapporti che intercorrono tra la struttura politica di Hezbollah e gli altri grandi protagonisti della politica medio orientale. Tra questi particolare rilievo si da naturalmente ai rapporti bilaterali con la Repubblica Islamica dell’Iran. Vengono, in funzione di questi ultimi, successivamente descritti i rapporti con gli altri grandi paesi arabi del medio oriente ed infine quelli con Israele, la situazione conflittuale che con esso si è creata, l’opportunità o meno di chiamarla ancora “guerra asimmetrica”; ciò anche attraverso lo studio degli eventi bellici, degli accordi internazionali e delle risoluzioni internazionali, l’applicazione e l’applicabilità delle stesse e le loro conseguenze. Si continua affrontando l’analisi del punto di vista occidentale e israeliano su Hezbollah, e come questo si rifletta sul carattere e sulle ragioni dell’impegno militare italiano in Libano. Si conclude con una breve panoramica sul ruolo della Russia nelle vicende medio orientali e della sua presenza come fattore geostartegico di rilievo nei rapporti tra Iran e Hezbollah. Si conclude con l’elencazione dei principali trattati e risoluzioni delle Nazioni Unite, che hanno regolamentato o riguardato la materia in oggetto. Segue la bibliografia, in tutti i suoi aspetti e con i doverosi ringraziamenti a persone fisiche ed Istituzioni che hanno fornito parte del materiale utilizzato e studiato per redigere la tesi. Infine le conclusioni. Qui di seguito si fornisce l’indice completo della tesi. Considerazioni conclusive sui contenuti della tesi: L’elaborato rispetta un’impostazione scientifica e risente del taglio geostrategico che viene dato, in funzione dell’indirizzo di dottorato scelto. La scelta è ricaduta sul partito libanese di Hezbollah, poiché si crede che esso rappresenti una interessantissima fonte di attività e di spunti di ricerca per chi studi nel settore della politica internazionale e della geopolitica strategica, unitamente al fatto che, per quanto su di esso sia già stato scritto molto, risulta un campo ancora ampiamente aperto all’indagine scientifica, anche grazie alla sua caratteristica discrezione nello svolgere le sue attività politiche. Esso inoltre rappresenta la possibilità di analizzare un soggetto politico vivo, in piena attività e con sempre notevoli evoluzioni. Come si evince dall’elaborato, infatti è molto interessante osservare come il partito divida la sua attività e le sue risorse da un lato al fine di controllare anche militarmente il territorio e di porsi come entità in antitesi tanto al nemico israeliano quanto alle istituzioni libanesi, soprattutto quelle non sciite, dall’altro al fine di convincere elettori e osservatori internazionali (e forse anche se stesso) della volontà e della possibilità di essere sempre meno movimento di resistenza e diventare sempre più partito di governo a tutti gli effetti. INDICE Introduzione 1: Analisi del tessuto sociopolitico libanese 1-1 Il Libano contemporaneo 1-2 Situazione politica e rappresentanza elettorale in Libano 1-3 la situazione economica 1-4 la società libanese: tradizionalismo, esterofilia e fenomeni migratori 1-5 libertà e democrazia in Libano 1-6 Il sistema giuridico libanese e la dottrina giuridica sciita 1-7 il nazionalismo libanese 1-8 suolo e sottosuolo del Libano. Le implicazioni energetiche 2: Analisi strutturale di Hezbollah 2-1 storia di Hezbollah 2-2 il nuovo statuto del 2009 2-3 Hezbollah : un’organizzazione dai molteplici aspetti 2-4 formazione politica e addestramento militare 2-5 gerarchia e ruolo dei leaders e dei militanti 2-6 il profilo politico di Hasan Nasrallah 2-7 le élites militari di Hezbollah : i reparti speciali e informativi 3: L’influenza di Hezbollah sul territorio e sulle istituzioni libanesi 3-1 il concetto di resistenza e martirio nel contesto sciita 3-2 l’influenza di Hezbollah nella sfera socioeconomica del Libano 3-3 l’influenza e rapporti di Hezbollah con il clero sciita e con le istituzioni libanesi 3-4 la difficile convivenza con le istituzioni non sciite: le forze di opposizione ad Hezbollah 3-5 gli alleati non sciiti 3-6 analisi dell’elettorato di Hezbollah 3-7 i sistemi di autofinanziamento e reclutamento di Hezbollah 3-8 analisi delle strategie mediatiche di Hezbollah e il rapporto con la tecnologia 4: Analisi dei rapporti strategici tra Hezbollah e altri soggetti attivi nella politica mediorientale 4-1 l’alleanza strategica tra Hezbollah e la Repubblica Islamica dell’Iran 4-2 Hezbollah e la politica mediorientale : Siria, Egitto e Autorità Palestinese 4-3 la situazione conflittuale con Israele e la questione sionista 4-4 il punto di vista occidentale e israeliano su Hezbollah 4-5 evoluzione e ragioni dell’impegno militare italiano in libano Elenco dei principali accordi e risoluzioni internazionali Conclusioni Bibliografia1873 9666 - PublicationAPPLICAZIONI DI PIANIFICAZIONE AMBIENTALE PER LA GESTIONE SOSTENIBILE DEL PAESAGGIO AGRARIO IN UN' AREA DEL FRIULI VENEZIA GIULIA(2007-05-24T09:37:08Z)
;BONESSI, MICAELAROSSIT, CLAUDIOLe politiche agrarie adottate a partire dalle bonifiche degli anni ’20 del secolo scorso e dalle grandi opere di irrigazione, passando dal fenomeno della “demontanizzazione”, fino alla grande estensione della monocoltura, hanno modificato il paesaggio del Friuli Venezia Giulia. Oggi l’agricoltura progredita è sorgente di numerosi impatti sull’ambiente e conduce ad una sua banalizzazione, semplificazione e all’impoverimento delle strutture ecologiche (Genghini, 2004). Essa, infatti, ha eliminato il tessuto connettivo-naturalistico di siepi, prati e boschetti che un tempo delimitavano i confini dei campi. I paesaggi agricoli tradizionali, erano, infatti, sicuramente meno produttivi dal punto di vista economico rispetto a quelli agrari industrializzati, ma possedevano le caratteristiche strutturali per evitare l’isolamento delle aree ad alta naturalità diffusa (Regione Emilia-Romagna, 2001). A tutto ciò, si unisce la progressiva perdita di suolo a favore di espansioni urbane di tipo residenziale e produttivo, che si sono sviluppate nel tempo in maniera irrazionale e repentina. È chiaro che il conflitto disciplinare non rende affatto le cose semplici: la ricerca di interessi economici immediati continua a sostenere uno sfruttamento intensivo della natura e del territorio. In pianura il diffondersi della monocoltura è sicuramente più proficuo, ma alla lunga porterà alla scomparsa di tutti i biotopi ed alla riduzione della biodiversità. Si avverte, pertanto, crescente la necessità di affrontare in maniera concreta e costruttiva uno dei più importanti problemi dell’epoca attuale, cioè il ripristino delle condizioni di vita dell’uomo e del suo rapporto con l’ambiente (Viola, 1988). La qualità del paesaggio agricolo-ambientale è da ritenersi la parte che meglio esprime lo “stato di salute” di un territorio e può divenire indicatore ambientale dei suoi cambiamenti. Spesso il paesaggio agrario è foriero di naturalità di per se stesso; in realtà si tratta di una parvenza di naturalità, andata persa con la semplificazione strutturale delle coltivazioni, sempre più monoculturali e sovrasfruttate. La preoccupazione concerne soprattutto i rischi di progressiva riduzione, frammentazione ed insularizzazione degli habitat naturali, assediati da un ambiente circostante reso sempre più ostile. Per fronteggiare tali rischi, si è sottolineata la necessità di politiche coordinate a livello europeo, volte alla costituzione di una vera e propria infrastruttura di stabilizzazione a grande scala (Gambino, 1997). I sistemi di tutela e vincolo messi in atto in questo ultimo decennio nel settore agro-ambientale, non sono serviti a bloccare lo sfruttamento delle aree libere, che continuano ad essere oggetto di interessi speculativi. Sebbene in questi ultimi anni si stia assistendo ad una ricostruzione ambientale con il concorso di contributi ed incentivi economici a livello europeo (Reg. CEE 2080/92, Piani di Sviluppo Rurale, fondi di vario tipo, ecc.), il timore è che questo fenomeno si riveli pressoché fittizio e sostituibile tramite altri incentivi economici più vantaggiosi, non appena se ne presenti l’occasione. Le forme di tutela ambientale attuate nella Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, come nel resto d’Italia, sono sempre meno gestibili se rapportate all’uso sregolato del territorio. Certamente anche la pianificazione territoriale di ogni livello non ha saputo prevedere scenari insostenibili annunciati. Anzi, spesso l’applicazione rigida di norme e la loro scarsa elasticità, ha indotto ed ancora induce chi usa il territorio a livello locale, a modificare o convertire le proprie attività frustrando potenziali sviluppi eco-sostenibili. Tuttavia esiste un metodo per ovviare tutto ciò. Gli agroecosistemi possono essere organizzati in modo da condurre ad una “infrastrutturazione” ecologica del territorio e ad una riduzione degli apporti inquinanti alla rete idrografica (Genghini, 2004). Tra le politiche di sistema per il miglioramento della qualità territoriale ed ambientale, infatti, è fondamentale la realizzazione di una Rete Ecologica Europea, così come prevista dall’Unione Europea secondo il progetto Natura 2000. L’organizzazione del territorio si espleta, quindi, non solo sulla base dei processi ecologici operanti a scala locale, ma in accordo con gli obiettivi di conservazione e di sviluppo a livello di grandi sistemi ambientali (Romano, 2000). Le politiche individuali, o “per isole di eccellenza”, adeguarsi a risolvere alla scala più opportuna e con le necessarie complementarietà e sinergie, i problemi più comuni (Cavallera, 2002). La soluzione più corretta è quella di fronteggiare i problemi attuali con politiche di sistema allargate all’intero territorio. Le aree protette sono i luoghi privilegiati, i nuclei di un sistema che, per assicurare risultati certi, devono prendere in considerazione il territorio circostante, le zone limitrofe e i corridoi di collegamento tra i centri: l’intero sistema può essere comunemente definito rete ecologica, e attraverso le interazioni tra le varie parti, assicurerà l’equilibrio complessivo e il funzionamento anche degli ecosistemi più complessi (Tutino, 2002). Si tratta di realizzare una simbiosi tra la rete insediativa ed infrastrutturale del territorio ed una Rete Ecologica efficiente, da ricostruire sulla base di finalità polivalenti. Da un’analisi di tutte le componenti territoriali in gioco e attraverso l’esame di aree di interesse ambientale e dei vincoli che esse impongono, delle peculiarità delle stesse e delle normative di attuazione vigenti, si può tentare una progettazione ambientale utilizzando sistemi di connessione ecologica, tesi a ricostruire un paesaggio agrario che va pian piano scomparendo. La finalità del lavoro che viene proposto sta nel dimostrare come attraverso un oculato uso del territorio, sia possibile proporre una progettazione territoriale naturalistica innovativa, che metta insieme le esigenze di tutti i settori interessati, incidendo positivamente nella redazione e approvazione degli strumenti urbanistici locali. Quindi una pianificazione urbanistica sostenibile nei fatti che, senza imporre regole, contribuisca a modificare il modo di pensare il territorio. Il punto di partenza per un’attenta analisi parte proprio da questa considerazione: come fare per mantenere un elevato indice di diversità biologica, senza sottrarre il territorio all’uso della comunità ivi “localizzata”, indicando così l’uso più corretto dei contenuti e dei caratteri che svolgono un ruolo importante per lo sviluppo socio-economico della popolazione. In sostituzione alla vecchia concezione di tutela, basata su una rigida conservazione a scopi prevalentemente scientifici, il problema della protezione delle aree di interesse ambientale assume una più organica visione come mezzo di elevazione socio-economica e culturale della popolazione interessata. Per attuare questa nuova concezione, vi è bisogno di una tutela che si estrinsechi, più che con una strumentazione a carattere vincolistico, con una sistematica azione di tipo propositivo (AA. VV., 1986). Le azioni di salvaguardia dovranno essere rivolte non solo alla tutela delle componenti naturali in senso stretto, ma anche a quelle antropiche. In questo senso la corretta tutela di un territorio deve significare non l’esclusione di quelle attività umane che hanno contribuito a creare o caratterizzare l’attuale situazione di equilibrio ecologico, ma anzi all’opposto la loro protezione, quando queste fossero riconosciute utili al mantenimento di determinate caratteristiche ambientali (AA. VV., 1986). S’intende evidenziare, quindi, accuratamente della situazione esistente e si cercherà un’alternativa che sia il meno possibile interferente con le attività produttive: la popolazione non deve sentire gli interventi come un impedimento, ma entrare in collaborazione con gli enti e le figure preposte alla gestione ambientale. Le analisi che si andranno a descrivere non sarebbero state possibili senza la preziosa collaborazione del Servizio Tutela Ambienti Naturali, Fauna e Corpo Forestale Regionale - Direzione Centrale Risorse Agricole, Naturali, Forestali e Montagna della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia. Il suddetto servizio, nelle persone dell’arch. Massimo Rollo e del geom. Daniele Bini, ha fornito non solo le basi dati utilizzate per tutte le elaborazioni effettuate e per le cartografie prodotte, ma anche l’ausilio e le competenze richieste da tematiche molto specifiche ed i riferimenti puntuali per i sopralluoghi programmati nell’area d’indagine. La sollecitazione per effettuare alcune analisi si è concretizzata grazie a questa diretta collaborazione ed il lavoro è stato seguito con continuità e con interesse partecipativo. L’intenzione iniziale era quella di far partire la ricerca dalla pianificazione faunistico-venatoria, con il presupposto di ampliarla e collegarla a tematiche europee di protezione più lungimiranti e che potessero essere uno strumento per la corretta organizzazione territoriale e lo sviluppo sostenibile. Il lavoro si basa su un territorio campione che, dal punto di vista naturalistico e paesaggistico, è condizionato pesantemente dalle attività agricole, che interessano la gran parte del terreno disponibile. I comuni selezionati si collocano in un’area geografica a cavallo della linea delle risorgive in un’area condizionata dalla presenza della laguna, del carso goriziano. L’area oggetto di studio è stata selezionata, inoltre, in base all’immediata vicinanza con il confine della Slovenia, che condiziona l’intero territorio preso in esame, nonché per la presenza del confine provinciale tra Udine e Gorizia, che attraversa l’intero distretto. In situazioni analoghe, come nel caso esemplare della Provincia Autonoma di Bolzano, le organizzazioni territoriali vanno ben al di là della fascia confinaria, comprendendo macroaree di influenza. In una tale situazione è ancora più difficile prevedere scenari di sostenibilità globale. Il territorio, inoltre, è sottoposto ad una continua evoluzione ed è quindi importante che l’azione di tutela non porti a “congelare” la situazione attuale, ma ad evidenziare e guidare le modificazioni che contribuiscono al raggiungimento di successive condizioni di equilibrio fra le varie componenti delle aree protette. La tendenza è quella di non restringere il campo della tutela ai soli beni ambientali, ma di identificare l’azione di difesa nell’opera più generale di pianificazione del territorio campione (AA. VV., 1986). L’intenzione di focalizzare il lavoro su tre livelli di scala differenti intende dunque perseguire questo obiettivo: penetrare nel territorio campione circoscrivendolo solo successivamente con un’analisi dettagliata dell’intorno. In questo modo la protezione dell’ambiente non conosce barriere, come del resto non dovrà averne in sede di pianificazione della Rete Ecologica, che sarà volutamente prolungata oltre i confini dell’area campione. La prima parte, di carattere generale, riporta un’analisi di ampio respiro sui sistemi territoriali del Friuli Venezia Giulia. Dopo una sintesi della componente infrastrutturale (mobilità, insediamenti, produttivo), si passa alla descrizione delle tutele, con particolare riguardo alle aree protette ed all’attività venatoria. A conclusione viene descritto inoltre l’argomento di trattazione, vale a dire la Rete Ecologica ed i sistemi di connessione ambientale, con le loro definizioni ed il quadro normativo di riferimento. La seconda parte entra nel dettaglio del progetto a partire dall’inquadramento territoriale del distretto venatorio 15 – Pianura Isontina. Il territorio in questione viene definito con le sue peculiarità, le aree protette, le prescrizioni dei Piani Regolatori Generali Comunali (PRGC) e vengono presentati anche un uso del suolo a fini faunistici e lo strato dell’improduttivo derivato dalle analisi effettuate nella prima parte. Si comincia a delineare in maniera molto precisa la situazione territoriale interessata. Attraverso questa metodologia si tende ad avere una buona base di scelta per l’area di applicazione del progetto, che si colloca nella parte settentrionale del distretto 15, quasi totalmente a settentrione della linea delle risorgive. La vera e propria fase progettuale parte dallo studio della situazione vegetazionale degli elementi residuali nei seminativi della zona. Si sono assemblati i boschi definiti dai PRGC, i Pioppeti della carta dell’uso del suolo ed i boschi individuati tramite interpretazione visiva dell’ortofoto 2003. Già da questa prima elaborazione è possibile rendersi conto dei punti di forza ad alta naturalità e delle zone ad alto rischio di frammentazione. Sulla base di queste prime indicazioni si è proceduto con la realizzazione di una carta delle direttrici e delle interruzioni, che stabilisce passaggi e barriere per la fauna selvatica. La ricerca prevede come conclusione un intervento di ricostruzione ambientale nell’area campione: vengono, infatti, descritte le tipologie di miglioramenti ambientali adeguati al caso di studio, e si sono forniti alcuni esempi di come andrebbero applicate le indicazioni su casi particolari. Un problema rilevante che si pone nella gestione di tali risorse è quello della selezione degli interventi da proporre all'attenzione degli operatori agricoli. Considerate le limitate risorse a disposizione, infatti, non è pensabile intervenire con la stessa intensità ed efficacia sull’intero territorio. Risulta perciò necessario individuare le aree più valide o più adatte all'applicazione di queste misure, in modo da raggiungere livelli di sovvenzioni soddisfacenti per gli agricoltori e significativi dal punto di vista ambientale. L’obiettivo della ricerca è dunque da ricondurre a due aspetti distinti: individuazione, e poi conservazione e ripristino, di una continuità ambientale del territorio, e le modalità di gestione e di orientamento di tale struttura all’interno dell’agroecosistema. Il progetto sarà focalizzato essenzialmente sugli elementi di raccordo e di connessione, nel tentativo di conferire un tipo di protezione che agisca sul sistema di mantenimento globale. L’individuazione delle reti e delle linee di connessione, come tipicamente i corridoi ecologici o i sistemi d’interazione visiva, assicurano l’unitarietà e l’integrazione paesistica ed ecosistemica (Gambino, 1997). Inoltre il proposito è quello di creare un progetto che possa mettere in relazione in modo positivo il mondo agricolo e quello venatorio, da troppo tempo distanti l'uno dall'altro, gli uni inconsapevoli dei benefici apportati dagli altri.Per questo motivo è stata utilizzata la base del Piano Pluriennale di Gestione Faunistica che l’amministrazione regionale sta portando a compimento e che si può considerare certamente un riferimento metodologico utile per la realizzazione di una pianificazione faunistico-venatoria sostenibile. Detto piano attualmente utilizza un uso del suolo che tiene conto della densità faunistica per singole zone omogenee. La prospettiva futura è quella di utilizzare l’uso del suolo, con riferimento ai tipi di paesaggio agro-silvo-pastorali, per individuare una continuità ambientale all’interno del territorio di riferimento. Per un’adeguata rappresentazione grafica si è scelto di riportare nel testo solo particolari cartografici, oppure rappresentazioni relative ad aree di modeste dimensioni, inserendo le tavole grafiche complete alla fine del testo come allegati.1721 4030 - PublicationL'approccio narrativo per lo studio sugli apprendimenti informali. La costruzione dei saperi dell'Assistente Sociale.(Università degli studi di Trieste, 2008-03-13)
;Gola, Giancarlo ;Rosa, BiancaLazzari, FrancescoQuando i professionisti riflettono sul proprio lavoro parlano spesso di apprendere dall’esperienza pratica, o di usare l’istinto professionale o l'intuizione per assolvere i compiti professionali. I presupposti postmoderni sull’apprendimento e i paradigmi epistemologici che definiscono l’apprendimento adulto, riconoscono che gli adulti possono vivere situazioni, avere esperienze e che questi eventi si presentano come opportunità di conoscenza. La ricerca di matrice psico-pedagogica definisce questo fenomeno come apprendimento informale, conoscenza tacita, sapere implicito. La filosofia della ricerca con cui si intende indagare il fenomeno, secondo un paradigma della ricerca qualitativa di derivazione postmoderna, assume l’approccio narrativo sia per la raccolta dei dati, sia per l’analisi degli stessi. L'obiettivo della ricerca empirica è esplorare l'esperienza raccontata degli assistenti sociali per indagare gli apprendimenti informali. In una logica induttiva partendo dai racconti dei partecipanti si è cercato di elaborare una working theory, intesa come metodologia per interpretare le modalità di apprendimento e definire gli apprendimenti che costituiscono per l’operatore sociale i suoi saperi professionali.1620 30648 - PublicationAquileia Mater: il mito delle origini nel dibattito culturale e politico del Litorale tra XVIII e XX secolo: un'interpretazione storiografica(Università degli studi di Trieste, 2008-04-23)
;Plesnicar, Marco ;Ferrari, LilianaFerrari, LilianaAQUILEIA MATER: IL MITO DELLE ORIGINI NEL DIBATTITO CULTURALE E POLITICO DEL LITORALE TRA XVIII E XX SECOLO. UN’INTERPRETAZIONE STORIOGRAFICA di Marco Plesnicar. Ricerca condotta con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia. Lo scopo del presente lavoro, strutturato nel lungo periodo, è quello di stimolare la riflessione intorno ad un “mito”, ossia all’idealizzazione di una serie di eventi storicamente verificatisi che esprimono i valori di una società e ne determinano scelte e comportamenti. Ho scelto la tradizione del passato aquileiese perché sono stato attratto dalla curiosità di investigare se la sua presenza nell’ambito di una folta letteratura, corrispondesse o meno a questa definizione di “mito”. I presupposti ci sono tutti: quella che ho denominato “imago aquileiensis” è fondata su un dato di fatto incontrovertibile: l’importanza, storicamente acclarata, dell’antica metropoli romana, divenuta, dal periodo costantiniano in avanti, centro d’irradiazione del cristianesimo di primaria importanza e sede titolare di un patriarcato sopravissuto per circa un millennio. Nonostante la scarsità delle fonti coeve, la memoria di Aquileia antica e paleocristiana si è rivelata quanto mai resistente al passare dei tempi, poiché ha continuato ad esistere nella rappresentazione che ne danno i contesti civili e culturali che ad essa si son richiamati, rielaborando ed interpretando frammenti del suo passato: rappresentazioni e rielaborazioni che in questo lavoro diventano a propria volta fonti. L’elaborazione dell’immagine polissemica e polimorfa di Aquileia ha potuto contare su di una bibliografia nutrita e pazientemente consolidata nel corso degli ultimi due secoli ad opera di valenti antiquari, bibliotecari e bibliografi. Ne ho seguito lo sviluppo nel tentativo di ricostruirne la progressiva affermazione, partendo dall’isolamento dei singoli elementi costitutivi del mito, di quei temi che riaffiorano di volta in volta assumento un significato ed una rilevanza notevoli e non sempre scontati: dalla grandezza della metropoli in età imperiale, alla sua decadenza apparentemente decisiva e, a tratti, “fatale”; dalla tradizione delle origini del cristianesimo aquileiese (la leggenda relativa alla fondazione di questa chiesa ad opera dell’Evangelista Marco), alla condensazione di tutti questi componenti nel momento in cui si affermano i nazionalismi, quanto mai sensibili ad un recupero funzionale del passato. Il primo capitolo (1.2 La culla del mito: Aquileia e la sua regione: brevi cenni di storia aquileiese; 1.2.1 Dalla colonia romana al centro d’irradiazione del Cristianesimo nella Venezia e nel Norico; 1.2.2 Aquileia patriarcale: la millenaria esperienza del “limes”; 1.2.3 Tra modernità e contemporaneità: il ruolo di Aquileia sull’incrocio del “confine mobile”) serve a fornire un’agile introduzione storico-storiografica della parabola aquileiese, ab origine sino all’indomani della prima guerra mondiale, offrendo così un termine di paragone che aiuta il lettore a cogliere con maggior chiarezza i punti di contatto e di divergenza che caratterizzano le interpretazioni affiorate nel corso dell’indagine. Con il capitolo secondo (“Tra storia e tradizione” suddiviso nei seguenti paragrafi: 2.1 La distruzione e la lunga decadenza. L’altra faccia del mito; 2.2 La leggenda attiliana e l’origine della decadenza; 2.3 Il mito entra nella storia: al servizio del potere) il lavoro entra in medias res: ho proposto quella che definirei quasi una “radiografia” del mito, tanto nell’accezione che si ispira all’antichità romana, quanto allo sviluppo delle tradizioni relative ai primordi del cristianesimo nella Venezia e nel Norico, traendo spunto dagli esiti delle ultime ricerche condotte sull’argomento. Mi sono soffermato, in particolare, sui richiami costanti al tema della “distruzione” e della “rinascita” della fortuna di Aquileia, concentrandomi sull’immagine di Attila e sull’interpretazione letteraria sette/ottocentesca in ambito regionale della leggenda attiliana, strettamente connessa ad Aquileia ed al suo ruolo di “antemurale Italiae”. Nel terzo capitolo Capitolo: Le radici del Mito, strutturato nei paragrafi 3.1. La visione aquileiese: identificazione dei caratteri costitutivi. 3.2. Traditio aquileiensis. Evoluzione del dibattito settecentesco; 3.3: Il mito fondante si delinea: il secolo XIX, proseguo coll’approfondimento di quanto anticipato precedentemente: tento di ricomporre lo sviluppo del dibattito settecentesco, sorto tra eruditi italiani tra Venezia e l’impero – ma non solo – intorno alle origini fondanti del cristianesimo aquileiese, in cui si fa strada una prima avanguardia della critica che agl’inizi del 1900, con Pio Paschini, raggiunge il suo acme, con lo smentire definitivamente la storicità della leggenda marciana. Il quarto capitolo Capitolo 4. “Dalla storiografia alla storia”: il mito prende forma: 4.1. L’operazione culturale legata al recupero archeologico; 4.2 Gli scavi ed il Museo archeologico; 4.3 La Basilica, costituisce il discrimen del lavoro: dall’astrazione del dibattito tra intellettuali si passa all’attuazione di piani e strategie concrete tesi a riaffermare una nuova “rinascita” del glorioso passato aquiliese mediante la riqualificazione, la conservazione e la promozione del patrimonio archeologico ivi custodito, sia esso relativo all’antichità imperiale, sia alla più grande e significativa reliquia della cristianità: la basilica popponiana. È un ambito particolarmente interessante, in quanto permette di constatare l’impegno sostenuto da parte dell’autorità politica ed ecclesiastica del tempo a favore di una politica culturale che trae fondamento dal mito aquileiese e, contestualmente, lo alimenta, assecondandolo alle proprie linee d’azione. Nel quinto capitolo 5.1 “Aquileia nostra”: la nascita della “terza Aquileia”, ho voluto evidenziare le modalità dell’utilizzo strumentale del mito aquileiese prima, durante e dopo la guerra, nel momento il cui la parola passa alle armi e si comprende una volta di più che anche il frutto della riflessione scientifica può diventare uno slogan utile a rafforzare e costruire le ideologie. Aquileia diviene un luogo particolarmente adatto ad ospitare le grandi adunate popolari promosse dagli schieramenti che si fronteggiano sul piano politico degli anni Dieci del Novecento; il suo significato propagandistico esplode durante il primo conflitto mondiale, per essere infine sublimato nell’immediato dopoguerra, alla vigilia dell’avvento della dittatura fascista, in cui Aquileia finisce per divenire una pallida emanazione della “prima Roma”. Il sesto capitolo, dedicato alla Liturgia ed in particolare alla parte dedicata al culto dei santi, ho voluto proporre l’accostamento dei testi delle lezioni che compongono gli uffici divini delle diocesi eredi del patriarcato aquileiese, Gorizia ed Udine, a partire dal Settecento sino agli inizi del Novecento. Mentre l’arcidiocesi di Udine gode di un’uniformità linguistica riconducibile all’area italiana, la sede metropolitana di Gorizia, al di là della tradizione liturgica patriarchina, ha ereditato la complessità che costituisce il tratto distintivo di quest’area, popolata da genti di ceppo friulano, sloveno e germanico. L’individuazione del richiamo a determinate figure di santi e martiri aquileiesi può rivelare la sensibilità di una Chiesa particolare nei confronti delle figure esemplari che hanno costituito il vanto e l’origine dell’esperienza cristiana delle proprie terre; tale richiamo conosce il suo punto di massima espansione nella metà dell’Ottocento, in modo abbastanza equilibrato anche se autonomo, tra le due sedi diocesane, per conoscere un significativo ridimensionamento a partire dal pontificato di Pio X, autore di una importante riforma del Breviario romano, ad opera della quale i calendari particolari delle diocesi subiscono un primo ridimensionamento a vantaggio delle feste comuni all’intera cattolicità.1415 13946 - PublicationAree protette e sviluppo sostenibile: le politiche di conservazione della natura e le ricadute a scala globale e locale(Università degli studi di Trieste, 2009-03-03)
;Adamo, Marco ;D'aponte, TullioD'aponte, TullioLa tesi ha come oggetto di studio le aree protette ed il ruolo che tali particolari territori possano ricoprire al fine di sviluppare modelli di crescita sostenibili. Partendo dalla nascita dei primi parchi nazionali negli Stati Uniti, la tesi, nel Capitolo 1, ripercorre la storia dell’espansione dell’idea di area protetta evidenziando come tale idea sia stata messa in pratica in diverse forme nelle diverse regioni geografiche e di come le politiche di tutela della natura siano strettamente legate alle teorie politico-economiche dominanti nei diversi periodi storici. Dalla fine della seconda guerra mondiale, la fine dell’isolazionismo statunitense ha contribuito alla gemmazione del complesso sistema di organizzazioni internazionali comprese quelle che hanno tra i loro obiettivi la conservazione della natura. In tale panorama si è scelto di analizzare in modo approfondito, nel Capitolo 2, i Congressi Mondiali sui Parchi, in quanto sono sembrati essere esemplificativi del graduale, ma costante cambiamento di paradigma rispetto alle modalità istitutive delle aree protette. La presa di coscienza dell’importanza delle comunità locali, lo sviluppo di Convenzioni a tutela dei diritti delle popolazioni indigene ed in generale la struttura delle soft laws e delle hard laws gobali si sono rivelate fondamentali per rigettare, anche se non completamente , il “modello Yellowstone” come modello unico per la conservazione in situ della biodiversità. La maggior attenzione a meccanismi partecipativi e di bottom up hanno fatto sviluppare diversi modelli di governance che uniti ad aree protette sempre più permissive per ciò che riguarda l’intervento antropico hanno indotto diversi studiosi a parlare di “territori di conservazione”, riferendosi in tal modo al fatto che in alcune aree protette avrebbero potuto essere inclusi tutti i sottosistemi propri del territorio geografico. Nel Capitolo 3 si cerca di ordinare sistematicamente le diverse tipologie di territori di conservazione illustrando l’evoluzione dei sistemi di categorie creati dall’International Union for Conservation of Nature (IUCN), i modelli di governance più utilizzati e la distribuzione delle diverse tipologie a livello mondiale. Insieme alla proliferazione dei territori di conservazione è maturato, a livello mondiale, anche il concetto di sviluppo sostenibile (Capitolo 4) e ciò ha portato a prendere in considerazione alcuni tipi di aree protette come ideali laboratori per sperimentare la sostenibilità dello sviluppo. La difficoltà di tali tentativi risiede però nell’intrinseca contrapposizione tra ciò che è conservazione e ciò che è sviluppo economico. Si è anche cercato di considerare le ricadute delle aree protette rispetto alle diverse scale geografiche, nel Capitolo 5 sono state valutate le teorie del progetto neoliberista applicate alla natura, assumendo come punti fermi della mondializzazione neoliberista la deregulation e la re-regulation, si sono analizzate le potenzialità economiche del sistema di aree protette a livello globale e nazionale: i benefici economici dei servizi ecosistemici, puntano l’attenzione, a modo esemplificativo, sulle attività di biprospezione e sull’ecoturismo. A scala locale l’attenzione è stata puntata sui possibili collegamenti tra conservazione e sviluppo dati dalle iniziative di conservazione innovativa che puntano alla partecipazione delle comunità. Utilizzando lo schema metodologico suggerito da Nick Salafsky e Eva Wollemberg e ripreso da Katrina Brown, sono stati analizzati diversi progetti di conservazione comunitaria, mettendone in luce i punti di forza e di debolezza. Le aree protette hanno un diverso ruolo a seconda della scala di analisi. Una rete di aree protette completamente avulsa dalla possibilità di utilizzo antropico può, in teoria, contribuire alla sostenibilità globale nella misura in cui essa tuteli in maniera significativa i diversi ecosistemi terrestri, ma la stessa rete, se analizzata a scala locale, non sarebbe certamente sostenibile in quanto non permetterebbe lo sviluppo economico e l’equità sociale delle popolazioni interessate. In conclusione, nella costruzione di un sistema globale di territori di conservazione interconnessi è necessario partire soddisfacendo i bisogni e le legittime necessità di sviluppo delle popolazioni locali, in quanto, come ampiamente dimostrato in letteratura, le aree protette non sostenibili a livello locale, a lungo termine, non possono garantire che contribuiranno alla sostenibilità globale.2273 5000 - PublicationLe armi di distruzione di massa(Università degli studi di Trieste, 2010-03-23)
;Felician, StefanoPagnini, Maria PaolaLe armi di distruzione di massa rappresentano uno degli aspetti più spaventosi degli sviluppi tecnologici che sono intercorsi nell’ultimo secolo. Sebbene alcuni effetti delle armi chimiche e biologiche fossero noti già da centinaia di anni, solamente nel ventesimo secolo si è assistito ad un vasto uso delle armi di distruzione di massa in diversi contesti bellici. La necessità di trovare armi “definitive”, idonee a travalicare la forza ordinaria delle armi convenzionali ha spinto la scienza ad investigare sempre più nuovi strumenti in grado di annichilire l’avversario. Una parte di primissima rilevanza negli equilibri mondiali – e ancora oggi fonte di destabilizzazione in certi teatri regionali – è imputabile alle armi nucleari. La scoperta delle implicazioni belliche della fisica atomica ha semplicemente rivoluzionato il quadro militare mondiale, chiudendo la Seconda guerra mondiale e spalancando le porte della Guerra fredda. Basata in gran parte sull’equilibrio nucleare, questo tipo di guerra ha visto fronteggiarsi in primis due superpotenze dotate di arsenali nucleari tali da eliminare per sempre ogni tipo di forma vivente dalla faccia della Terra. Le armi di distruzione di massa sono oggi raggruppabili in diverse categorie: nonostante ogni nazione fornisca una propria definizione al riguardo, sostanzialmente questa tipologia di armi si articola su quattro tipologie diverse a seconda delle differenti sostanze di cui ognuna è composta. Esistono le armi nucleari, biologiche, chimiche e radiologiche: ognuna di esse presenta caratteristiche tattiche, strategiche e modi di funzionamento ben diverse. L’elemento che le accomuna è comunque la capacità, almeno potenziale, di arrecare una quantità di danni decisamente superiore a qualsiasi dispositivo militare convenzionale oggi presente negli arsenali. Seppure con modalità diverse, le armi di distruzione di massa hanno fatto la loro apparizione nei campi di battaglia soprattutto nel ventesimo secolo. Le prime ad essere utilizzate su vasta scala furono le armi chimiche, le quali apparvero come un mezzo per superare lo stallo della guerra di trincea. Durante la prima guerra mondiale la paura dei “gas” divenne un vero e proprio incubo per tutti i soldati, ed anche per i relativi stati maggiori, incapaci di provvedere contro questa nuova arma. Ma la vera svolta nel mondo delle armi di distruzione di massa arrivò nella Seconda guerra mondiale: dopo l’esplosione delle armi atomiche nei cieli giapponesi di Hiroshima e Nagasaki era chiaro che le superpotenze vincitrici della guerra non potevano prescindere dal possedere l’arma atomica. L’iniziale ritardo sovietico venne ben presto compensato, e nel 1949 Stalin poteva annunciare al mondo la parità militare con gli Stati Uniti. La bomba atomica venne poi seguita dalla bomba all’idrogeno, ultima frontiera degli sviluppi militari nucleari. Come noto, le ami atomiche ressero il confronto bipolare (e le sue certezze) fintantoché gli accordi SALT e START non cominciarono a ridurre il numero delle testate, ad oggi comunque presenti in molti arsenali. Le armi biologiche apparvero in seguito, soprattutto dopo gli sviluppi delle biotecnologie. La capacità militare di virus, batteri e tossine era già ben chiara ai giapponesi durante la seconda guerra mondiale: tuttavia i sovietici, grazie alla colossale impresa “Biopreparat” riuscirono a creare ed ad accumulare un’enorme quantità di agenti biologici. La fine del mondo bipolare poteva sembrare idonea a far diminuire i pericoli derivanti dalle armi di distruzione di massa: ma purtroppo eventi come gli attentati con il gas “sarin” nella metropolitana di Tokyo (1995) o l’uso di antrace negli Stati Uniti (2001) dimostrarono che inevitabilmente le armi di distruzione di massa rimanevano una minaccia costante per ogni Stato. Alle tre armi tradizionali si è affiancata una nuova categoria: le armi radiologiche, spesso indicate nel gergo giornalistico come “bombe sporche”, consistenti nel diffondere elementi radioattivi mediante esplosioni convenzionali. Tale tipo di arma rischia di causare molti più danni grazie all’effetto mediatico che alla diffusione di materiali radioattivi: non tutti questi, infatti, hanno tempi di decadimento lunghi come l’uranio. La paura per quest’ultimo tipo di ordigni è cresciuta negli ultimi anni in quanto per un gruppo anche piccolo è relativamente semplice potersi procurare materiale radioattivo e farlo detonare in un centro urbano, contaminando tutta la zona. La preoccupazione per gli effetti delle armi di distruzione di massa si è concretata in una serie di trattati internazionali che progressivamente hanno disciplinato tutti i tipi di armi. La normativa in materia è costituita sia da trattati multilaterali che da trattati bilaterali: questi ultimi, pur essendo vincolanti solo per le due nazioni che li sottoscrivono, hanno comunque generato rilevanti effetti geopolitici nel pianeta. Subito dopo la seconda guerra mondiale l’Assemblea dell’Onu aveva cominciato a riflettere su un possibile contenimento delle armi nucleari, decisamente le più rilevanti a livello di effetti. Le ferite di Hiroshima e Nagasaki erano recenti, e l’Unione Sovietica stava sviluppando a tappe forzate il proprio programma nucleare. Nonostante le preoccupazioni della comunità internazionale, occorse aspettare la “Crisi dei missili” cubana del 1962 per poter vedere sviluppare delle prime forme di cooperazione internazionale per interdire, o quantomeno limitare, la minaccia dell’uso delle armi nucleari, sfiorata durante le tensioni cubane. A partire da quella data si succedettero diversi trattati internazionali e bilaterali in materia di armi nucleari, inizialmente legati alla limitazione del dispiegamento degli ordigni in determinati contesti, e, successivamente, rivolti alla riduzione del numero di vettori. Quest’ultimo ruolo fu particolarmente giocato dalla diplomazia americana e da quella sovietica, e conobbe un’autentica accelerata con l’arrivo delle presidenze Reagan-Gorbacev. È evidente che molte delle scelte compiute dalle due superpotenze influenzarono anche le rispettive coalizioni e le dottrine di impiego delle forze. Ma non tutte le iniziative regolamentari sortirono effetti positivi: ad oggi vi sono paesi, quali Israele, la Corea del Nord o il Pakistan che sono dotati di armamenti nucleari e non sono sottoscrittori del trattato NPT, cioè di non proliferazione nucleare. Questi stati sono inseriti in contesti regionali complessi e delicati, in cui spesso insistono interessi delle “potenze atomiche” legittimate in questo ruolo da una discutibile statuizione indicata nel trattato NPT. A fianco delle numerose iniziative svoltesi per disciplinare le armi nucleari sono state pure create delle Nuclear Weapons Free Zones, cioè aree del pianeta nelle quali gi stati membri si impegnano a non acquisire o usare armi nucleari. Tali iniziative hanno permesso di “liberare” dalla minaccia nucleare alcune aree (Antartide, Asia centrale, America del Sud, Asia del sud-est, Mongolia) e costituiscono un’iniziativa sinergica alle attività di contenimento e riduzione degli arsenali nucleari. Per le altre armi di distruzione di massa vi sono sicuramente stati meno trattati internazionali, ma non per questo essi sono stati meno importanti: è il caso delle armi chimiche, che possono vantare la prima proibizione in un protocollo del 1925. In tale settore è stata poi creata un’organizzazione internazionale idonea a verificare il rispetto della convenzione per la proibizione delle armi chimiche del 1993. Le armi biologiche presentano invece più difficoltà, ed al momento, secondo certa letteratura, sono identificate come un settore non ancora pienamente tutelato a livello internazionale. Se è vero che la convenzione sulle armi biologiche del 1972 vieta ogni tipo di arma biologica, la mancanza di una struttura internazionale di controllo e la velocità di sviluppo delle biotecnologie impauriscono gli stati, così come la mancata adesione di alcune importanti nazioni. In ogni modo, nonostante le critiche e le difficoltà, i trattati internazionali in materia di armi di distruzione di massa sono serviti per contenere e comunque evitare la diffusione di tali strumenti bellici attraverso le nazioni del pianeta: molto è ancora da fare, ma comunque le esperienze intraprese al momento sono tali da confermare questo cammino come valida via per limitare la diffusione di questa categoria di armamenti. Eppure il positivo processo di limitazione delle armi di distruzione di massa ha incontrato, soprattutto negli ultimi anni, alcuni limiti soprattutto in seguito alle azioni intraprese da alcune nazioni. In certi contesti regionali delicati alcuni stati vedono di buon occhio una propria capacità militare sostenuta da quella nucleare: il miraggio di entrare nel “club atomico”, cioè nel ristretto numero di stati “armati” nuclearmente, è un miraggio che ha valenza sia di politica interna che di prestigio internazionale. I recenti casi della Corea del Nord e dell’Iran, ad esempio, indicano chiaramente come azioni di singoli paesi possano seriamente mettere a repentaglio anni di lavori e di incontri internazionali per limitare la diffusione di armi di distruzione di massa. Soprattutto l’arma nucleare rimane al centro del dibattito mondiale, in quanto i due paesi di cui sopra hanno deciso di dotarsene per questioni di prestigio e di politica interna. La Corea del Nord si è recentemente ritirata dal trattato NPT e ha fatto esplodere due ordigni nucleari, seppure di piccola capacità. Ciò che al momento preoccupa di più la comunità internazionale è l’isolamento dell’autocratica repubblica, le difficoltà nella transizione del potere ed infine il tentativo di acquisizione di capacità missilistica a lungo raggio. Negli ultimi mesi la Corea del nord ha ripetutamente condotto esperimenti missilistici che hanno notevolmente esacerbato la situazione regionale: in particolare destano la preoccupazione del Giappone, nel quale è in corso un dibattito sulla rivisitazione del ruolo delle forze armate, cosa decisamente avversata dalla Cina. Gli Stati Uniti, tradizionali difensori della Corea del Sud, potrebbero cogliere l’occasione per dispiegare i propri missili nucleari nel teatro, accrescendo così la militarizzazione dell’area e complicando il rapporto con le altre due potenze nucleari della regione, La Cina e la Russia. Allo stesso modo l’Iran sta attraversando una complessa fase di transizione a trenta’anni dalla rivoluzione del 1979. La granitica forma di governo teocratica è oggi minacciata da una fase economica non brillante e da difficoltà politiche interne: le recenti affermazioni del presidente iraniano Ahmadinejad hanno attirato l’attenzione del mondo sull’Iran, desideroso di accrescere il proprio peso nell’area. D’altra parte le affermazioni sulla scomparsa di Israele hanno notevolmente preoccupato il governo di Gerusalemme, il quale è in possesso di armi nucleari. Il rischio di un’escalation nucleare nella regione sarebbe un problema gravissimo, soprattutto considerando le difficoltà in cui si trovano diversi stati limitrofi, quali il Pakistan, l’Iraq o l’Afghanistan. Infine va considerato il problema del terrorismo internazionale. Non è detto che gruppi terroristi non possano essere ancora interessati all’acquisizione di armi di distruzione di massa: rispetto a quelle nucleari, più difficilmente acquisibili ed utilizzabili (occorre anche un vettore idoneo per trasportarle, stante il loro peso e le loro dimensioni) ipotesi come armi radiologiche, armi chimiche o armi biologiche rappresentano soluzioni ugualmente allettanti per spargere terrore e destabilizzazione nelle società da colpire. L’attenzione a tale riguardo si concentra soprattutto sul network di Al-Quaeda, in quanto struttura militare e militante più capace di possedere fondi tali da permettere l’acquisto di questo tipo di armi. Resta da chiedersi, in conclusione, quali risposte siano possibili a questo tipo di minaccia. La percezione della minaccia NBCR è differente a seconda dei paesi e dei contesti in cui gli stati sono inseriti: la riflessione più ampia sull’argomento è comunque quella americana, supportata da abbondante letteratura e servita addirittura come giustificazione ad un attacco preventivo (Iraq 2003). Allo stesso modo la Nato ha elaborato una propria posizione sulle armi di distruzione di massa, riconosciute dall’Alleanza come una minaccia concreta e tangibile, meritevole anche di risposte dal punto di vista operativo. Infine vi è il caso italiano, che concentra le competenze NBCR presso un’idonea struttura interforze, che opera in stretto raccordo con strutture civili dello Stato, a partire dei Vigili del Fuoco. Per terminare si può sostenere che le armi di distruzione di massa sono oggi una minaccia potenziale difficilmente eliminabile, ma tuttavia limitabile e controllabile tramite gli strumenti della diplomazia, della politica e del diritto internazionale, affiancata comunque da azioni delle attuali potenze dirette a limitare sempre più la diffusione e la proliferazione di questo tipo di armamenti.7383 13802 - PublicationAspetti e problemi connessi con l'attuazione del partenariato pubblico-privato nelle politiche dello sviluppo urbano e di governo del territorio in Italia.(Università degli studi di Trieste, 2008-03-28)
;Citarella, GermanaD'Aponte, TullioL’espressione PARTENARIATO PUBBLICO-PRIVATO (PPP) non è definita a livello comunitario e si riferisce, in generale, a forme di cooperazione tra le Autorità pubbliche e il mondo delle imprese, che mirano a garantire il finanziamento, la costruzione, il rinnovamento, la gestione o la manutenzione di un’infrastruttura o la fornitura di un servizio. Nel corso dell’ultimo decennio, il PPP si è sviluppato in molti settori, rientranti nella sfera pubblica, per lo più riconducibile a vari fattori: in presenza delle restrizioni di bilancio, cui gli Stati membri devono far fronte, esso risponde alla necessità di assicurare il contributo di finanziamenti privati all’ambito pubblico; la volontà di beneficiare maggiormente del «know-how» e dei metodi di gestione dell’impresa; infine, va inquadrato nella dinamica più generale del ruolo dello Stato nella sfera economica, che gradualmente abbandona la figura di operatore diretto per assumere quella di organizzatore, regolatore e controllore. Quindi, l’operatore economico partecipa alle varie fasi del progetto (progettazione, realizzazione, attuazione, finanziamento), mentre il partner pubblico si concentra principalmente nella definizione degli obiettivi da raggiungere (in termini di interesse collettivo, qualità dei servizi offerti, politica dei prezzi), garantendone il controllo. Il successo di un PPP dipende, soprattutto, dalla completezza del quadro contrattuale del progetto e dalla messa a punto ottimale degli elementi che disciplineranno la sua attuazione. In questo contesto, sono determinanti una valutazione ex-ante, una ripartizione ottimale dei rischi tra il settore pubblico e quello privato e una previsione dei meccanismi che permettano di monitorare la regolarità delle prestazioni, che, se diluite nel tempo, devono potersi evolvere per adattarsi ai cambiamenti dell’ambiente macro-economico o tecnologico, nonché alle necessità di interesse generale. In linea generale, la normativa comunitaria non si oppone alla possibilità di tenere conto di tali evoluzioni, a condizione che ciò avvenga nel rispetto dei principi di parità di trattamento e di trasparenza. Premesso che la riflessione europea si posiziona a valle della scelta economica e organizzativa effettuata da un Ente nazionale o locale e si focalizza, quasi esclusivamente, sulle norme che devono essere applicate quando si decide di affidare una missione o un incarico a un terzo, lo studio realizzato, nell’illustrare la portata degli orientamenti dell’UE applicabili soprattutto alla fase di selezione del partner privato, ha posto in evidenza le incertezze e la sostanziale inadeguatezza del quadro comunitario di riferimento rispetto alle peculiarità del PPP. Pertanto, sono state formulate proposte tese alla diffusione del PPP nell’attuazione delle politiche comunitarie e nazionali di sviluppo urbano e di governo del territorio, in uno scenario di concorrenza e in un contesto giuridico chiaro (strumenti legislativi, comunicazioni interpretative, azioni finalizzate al coordinamento delle pratiche nazionali e scambio di «buone pratiche» tra gli Stati membri) e al recepimento in Italia della procedura di dialogo competitivo. Infine, una particolare attenzione è stata rivolta al PPP di tipo istituzionalizzato per lo sviluppo urbano e il governo del territorio, che implica la creazione di un’entità detenuta congiuntamente dal partner pubblico e da quello privato, considerato che la cooperazione diretta permette all’Ente nazionale o locale di attuare un livello di controllo elevato sullo svolgimento delle operazioni (che può adattare nel tempo in funzione delle circostanze, attraverso la propria presenza nella partecipazione azionaria e in seno agli organi decisionali dell’impresa comune) e di sviluppare un’esperienza propria. La scelta del partner privato, però, nel quadro del funzionamento di un’impresa mista, non può essere basata esclusivamente sulle valutazioni che attengono al contributo in capitali o alla sua esperienza, ma dovrebbe tenere conto delle caratteristiche qualitative delle prestazioni specifiche offerte. In via preliminare, le riflessioni svolte hanno chiarito il perché, nel corso degli ultimi anni, la città è tornata al centro dell’attenzione della politica nazionale, nell’intento di fronteggiare situazioni di degrado urbanistico-edilizio, accompagnate da problematiche di tipo socio-economico e da carenza delle opere di urbanizzazione e dei servizi essenziali. Poi, l’interesse è stato rivolto alla nuova progettualità in tema di strategie per lo sviluppo urbano, grazie al dinamismo di alcune Regioni nella promozione di una nuova stagione normativa nel settore dell’urbanistica e della pianificazione territoriale, in virtù della riforma del Titolo V della Costituzione, alla disponibilità dei Fondi strutturali dell’UE come incentivo economico agli intereventi e, infine, all’introduzione di nuovi risorse finanziarie e di nuove pratiche di pianificazione e strumenti di intervento introdotti dalla DIREZIONE GENERALE PER IL COORDINAMENTO TERRITORIALE del MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI. Per quanto attiene agli obiettivi della pianificazione territoriale e urbanistica, l’Italia ha adottato una serie di indirizzi generali per le aree urbane, tesi a integrare i livelli della pianificazione ambientale e territoriale, preservare gli spazi aperti o realizzarne di nuovi, promuovere funzioni integrate e garantire la coesione sociale. È orientamento consolidato che le linee di azione dovranno tendere sempre più al superamento di una pianificazione razionale fondata sulla rigida separazione delle diverse attività umane e sui relativi indici e parametri edilizi per condividere il principio dell'integrazione, che ha consentito di andare oltre alle cosiddette «zonizzazioni» in molte legislazioni regionali, in quanto caratterizzate da una eccessiva specializzazione degli usi del territorio. Anche dal punto di vista edilizio si rileva che il DM n. 1444 del 2 Aprile 1968 - pur avendo avuto l’obiettivo di corrispondere alle fondamentali esigenze umane nella costruzione degli spazi urbani e dell’abitare, attraverso gli standard urbanistici, gli indici edilizi e la prescrizione tecnico-funzionale degli edifici - risulta ormai inadeguato a garantire il mantenimento o la ricostituzione della qualità urbana, connotata da sostenibilità. È stato posto in evidenza il ruolo centrale assunto dagli Enti locali nell’attuazione delle politiche di recupero e di riqualificazione urbana. Se gli anni Sessanta e Settanta hanno avuto l’obiettivo prioritario di realizzare le attrezzature sociali di base, garantire il diritto alla casa attraverso piani di edilizia economico e popolare, sviluppare nuova imprenditoria e occupazione mediante nuovi insediamenti produttivi, gli anni Novanta sono stati caratterizzati dalla nascita di una serie di nuovi strumenti operativi, rispetto ai piani tradizionali (Piano Regolatore Generale, Piani Particolareggiati, Piani di Zona per l'Edilizia Economica e Popolare ecc.), perché meno rigidi e più adatti a gestire la complessità dei nuovi problemi di sviluppo urbano (denominati programmi complessi), quali i PROGRAMMI INTEGRATI DI INTERVENTO (PII), PROGRAMMI DI RECUPERO URBANO (PRU), PROGRAMMI DI RIQUALIFICAZIONE URBANA PER IL RECUPERO EDILIZIO E FUNZIONALE DI AMBITI URBANI (PRIU), CONTRATTI DI QUARTIERE, PROGRAMMI DI RIQUALIFICAZIONE URBANA E DI SVILUPPO SOSTENIBILE DEL TERRITORIO (PRUSST), PROGRAMMI URBAN I e II su iniziativa del FONDO EUROPEO DI SVILUPPO REGIONALE (FESR) a favore dello sviluppo sostenibile di città e quartieri in crisi dell'UE per il periodo 2000-2006 e di recente rifinanziato, al fine di concorrere alla realizzazione delle politiche di riqualificazione urbanistica dei nuclei interessati dall'abusivismo edilizio. Premesso che la concertazione fra Pubblica Amministrazione e i privati nel settore dell'urbanistica rappresenta senza dubbio uno degli aspetti più rilevanti del processo di partecipazione e uno degli esempi più riusciti di intreccio fra interessi diversi, gli studi compiuti e le riflessioni svolte hanno posto in evidenza che il PARTENARIATO PUBBLICO-PRIVATO (PPP) ha assunto una valenza prima culturale e poi normativa: il recupero e la riqualificazione urbana sono stati principalmente processi di progettazione coordinata, di azione concertata tra soggetti e di mediazione tra i grandi obiettivi di portata generale e particolari, finalizzati a convogliare l'iniziativa pubblico-privata verso finalità di sviluppo, attraverso forme miste di finanziamento. Ciò ha consentito di far emergere un nuovo e significativo ruolo per i soggetti privati, non solo destinatari dei provvedimenti per il recupero e la riqualificazione urbana, sia nell’individuare gli interventi da inserire nel piano e sia nel raccogliere gli investimenti volti a coprire le spese di realizzazione dei medesimi. Con riferimento agli strumenti negoziali e associativi utilizzabili per attivare le collaborazioni tra pubblico e privato, puntuali valutazioni sono state svolte in merito all’impiego del PROJECT FINANCING, della CONCESSIONE DI COSTRUZIONE E GESTIONE, nonché delle altre concessioni di gestione, della SOCIETÀ MISTA PUBBLICO-PRIVATO, della SOCIETÀ DI TRASFORMAZIONE URBANA (STU), dello SPONSOR PUBBLICO e del LEASING IMMOBILIARE. Con tali strumenti le Amministrazioni Pubbliche potranno realizzare un sistema elastico di pianificazione collegato con la programmazione economica e l'accertamento delle riserve disponibili: come evidenziato, nei casi già sperimentati, alcuni interventi di recupero e di riqualificazione urbana, per la loro rilevanza, hanno cambiato il volto di una comunità, con una ricaduta positiva sulla qualità dei servizi, sulla vivibilità di un’area e sulla creazione di spazi pubblici, capaci, per le funzioni ivi insediate, di favorire processi di aggregazione o il mutamento di comportamenti sociali consolidati. Infine, una particolare attenzione è stata dedicata a una serie di strumenti di partnership di tipo associativo, tra i quali le SOCIETÀ DI TRASFORMAZIONE URBANA (STU). Esse rappresentano una novità di rilievo nello scenario italiano per quanto riguarda la fase di attuazione degli strumenti urbanistici generali: non a caso il legislatore, ferma restando la normativa sui piani urbanistici generali, ha inteso ampliare i compiti dei Comuni e ha accordato loro la possibilità di non limitarsi a prospettare il futuro assetto urbanistico, affidando ai proprietari delle aree il compito di attuarlo, ma ha permesso agli Enti locali di andare oltre e, per il tramite di società miste, di promuovere direttamente l'attuazione degli strumenti urbanistici. Dall’analisi compiuta si è evidenziato che le STU si prefiggono di combinare il potere programmatico e regolamentare della Pubblica Amministrazione con l'interesse di soggetti privati, affinché questi apportino capitale e cognizioni tecniche. Quindi, uno strumento per utilizzare le risorse e la tecnologia di operatori privati al fine della riqualificazione del territorio, anche se non hanno ricevuto una particolare attenzione dal mercato, né sono state adeguatamente promosse dalle Istituzioni, avendo avuto applicazione, prevalentemente, per studi di fattibilità sovvenzionati con finanziamenti pubblici. Gli Enti locali hanno vissuto un profondo cambiamento nella struttura della programmazione degli investimenti e hanno individuato nelle Regioni dell’Obiettivo 1 un punto di riferimento stabile per utilizzare le risorse finanziarie dell’UE. Anche a livello nazionale mutano radicalmente gli orientamenti, perché si passa da una impostazione di integrazione a livello settoriale a una logica di integrazione di tipo territoriale o funzionale, ovvero a una ricerca sempre maggiore dell’efficacia della programmazione in relazione alla valorizzazione delle risorse dei SISTEMI TERRITORIALI LOCALI (STL). Pertanto, sono stati esaminati gli effetti geo-economici delle modificazioni intervenute nella POLITICA DI COESIONE dell’UE e del maggiore orientamento strategico e sistemico della PROGRAMMAZIONE 2007-2013, la quale è fortemente orientata a rendere l’insieme delle aree regionali più competitive nel contesto della Europa allargata e della globalizzazione. Ciò comporterà che le politiche di investimento da promuovere a livello di STL, città e singoli Comuni dovranno essere maggiormente orientate alla valorizzazione dei fattori locali di competitività, occupazione e innovazione. Considerato che l’orientamento strategico alla competitività e a fare sistema ha indotto gli Organi della programmazione nazionale ad elaborare una tabella di priorità, sono state svolte riflessioni scientifiche sui percorsi da attivare per promuovere lo sviluppo economico, l’attrattività, la competitività e l’innovazione delle città e delle reti urbane; elevare la lotta alla marginalità urbana, valorizzando il patrimonio di identità; favorire il collegamento delle città e dei sistemi territoriali con le reti materiali dell’accessibilità e delle infrastrutture e con le reti immateriali della conoscenza. Altre valutazioni di sintesi hanno riguardato taluni obiettivi, collegati alle priorità, quali lo sviluppo e l’attrazione di investimenti per servizi avanzati; la valorizzazione delle eccellenze per competere a livello internazionale; lo sviluppo eco-sostenibile; la valorizzazione sociale ai fini della costruzione dell’urban welfare; l’integrazione socio-economica e il recupero fisico e dei valori storico-identitari delle aree urbane e peri-urbane marginali e degradate; l’apertura europea e l’internazionalizzazione delle città, attraverso l’utilizzo di reti digitali per la fornitura di servizi integrati tra centri di eccellenza della ricerca, della conoscenza e del partenariato internazionale; la logistica per il recupero socio-economico e ambientale delle aree urbane e periurbane, se inserita in programmi di sviluppo urbano e compatibile con i fini della politica di sviluppo regionale. Se i DOCUMENTI STRATEGICI DELLE REGIONI DELL’OBIETTIVO 1, le priorità e gli obiettivi nazionali enunciati costituiscono il contesto di riferimento al quale i STL dovranno attingere per indirizzare le proprie scelte, in termini di programmazione e di progettazione, appare evidente che i progetti «prioritari», negoziati e a un livello adeguato di fattibilità, potranno contribuire al completamento della programmazione regionale e nazionale e, dunque, concorrere con certezza all’attribuzione di risorse aggiuntive, purché capaci di integrarsi e essere sostenibili nella programmazione settoriale di riferimento e, rispetto al STL di afferenza, di aumentare l’offerta di servizi di qualità e di infrastrutture, che accrescono il potenziale di competitività. Dalle analisi compiute è emerso che se si dovranno attivare gli strumenti della programmazione strategica, territoriale e settoriale. In tal modo, sarà possibile avere chiaro lo scenario territoriale di riferimento, ovvero recepirlo se esistente, oppure completarlo o costruirlo. Quindi, particolare importanza riveste il metodo con cui gli Enti locali individueranno il settore di programmazione, che permetterà di selezionare l’ambito di rilievo e di ottimizzarne l’integrazione con quanto già previsto, evitando duplicazioni, dimensioni non ottimali o, addirittura, la inadeguatezza complessiva della proposta progettuale. L’idea da sostenere è di confrontare la propria programmazione prioritaria con una check list, che consentirebbe di compiere una sorta di valutazione ex-ante di massima della qualità della stessa rispetto al QCS 2007-2013 e di verificare cosa fare per completare il ciclo di programmazione, oltre che permettere a un Comune o a un STL di conoscere lo stato della propria programmazione, l’adeguatezza della stessa e il percorso da compiere per avviare nella giusta direzione il periodo di programmazione futuro. Utilizzando le tecniche e i metodi per valorizzare il PARCO PROGETTI LOCALE e per rilevare nuove opportunità, si è giunti a isolare due concetti di particolare valenza strategica: il completamento della programmazione assicura un aumento della fattibilità, della cantierabilità dei progetti singoli e della loro competitività in funzione dell’attrazione di finanziamenti aggiuntivi; se si riuscirà a rendere «ordinaria» la programmazione per lo sviluppo e la competitività locale, un progetto di importanza intercomunale sarà più agevole per farlo condividere e cofinanziare dagli ambiti territoriali che lo considerano essenziale. D’altro canto, nella PROGRAMMAZIONE 2007-2013 il criterio di ripartizione dei cofinanziamenti tenderà a favorire la stabilità, la certezza dei finanziamenti e le potenzialità del progetto di attrarre eventuali capitali privati a sostegno della sua realizzazione, soprattutto se garantirà un sufficiente ritorno. Il periodo di programmazione appena terminato ha permesso di sperimentare forme avanzate di decentramento della programmazione e di costruire mirati PPP, anche se le esperienze conseguite raramente sono state in grado di attrarre stabilmente attenzioni nella parte più dinamica della società civile e economica locale, suscitando, per certi versi, un atteggiamento di perplessità anche tra i potenziali partner privati: la generazione dei PATTI TERRITORIALI PER L’OCCUPAZIONE, dei PATTI TERRITORIALI DI SECONDA GENERAZIONE, del LEADER II, di URBAN, dei PRUSST, degli STUDI DI FATTIBILITÀ DEL CIPE hanno consentito di sviluppare iniziative di PPP, ma che, nel medio periodo, sono state spesso condizionate dall’assenza di integrazione con la programmazione regionale e, di conseguenza, con la mancanza della interazione con la PROGRAMMAZIONE 2000-2006. Va però anche evidenziato che quei STL che sono riusciti, nonostante le incertezze, a completare l’iter della programmazione innovativa hanno raggiunto risultati rilevanti. Infatti, l’attuale programmazione, attraverso un quadro di deleghe e di redistribuzione delle risorse più chiaro e orientato a creare coerenza fra la delega di gestione dei STL e la disponibilità di risorse per investimenti e con il supporto dei POR e degli APQ, ha cercato di razionalizzare le esperienze precedenti, valorizzandole quando necessario, ma ricostruendo il quadro di riferimento sulla base della vision regionale del modello di programmazione ottimale. Dallo scenario delineato si è osservato che taluni PPP del passato si sono trasfusi nell’attuale programmazione, in altri casi si sono sviluppate nuove esperienze più qualificanti e significative, come per le città che hanno dato vita ai PIT METROPOLITANI di grande potenzialità. Lo sforzo sin qui compiuto, dunque, per almeno un decennio, non deve essere vanificato, a meno che non si dimostri inadeguato per affrontare i problemi locali, che sono al centro delle priorità dei STL di riferimento, perché le iniziative sono sorte per utilizzare la disponibilità di risorse e, di conseguenza, non sostenuti da un adeguato PPP e da necessaria visione strategica. Dai nuovi regolamenti e dai documenti strategici, sia europei che nazionali, è emerso che l’integrazione fra flusso di investimenti pubblici e privati è uno degli obiettivi del QCS 2007-2013, perché il PPP genera un elevato effetto leva, ovvero una maggiore efficacia in termini di sviluppo degli investimenti pubblici; permette di dimensionare e progettare molte opere o infrastrutture con maggiore attenzione all’effettivo utilizzo che se ne potrà compiere, in quanto il gestore privato che si incarica anche della progettazione ha più elementi e competenze per la ottima definizione dell’investimento; consente una maggiore attenzione nella realizzazione delle opere, in quanto colui che le realizza, durante la gestione, si deve caricare anche del costo di manutenzione; rafforza la funzione pubblica, ovvero il ruolo regolatore, controllore e programmatore dell’Ente locale che, salvo casi eccezionali, non dovrebbe farsi carico direttamente della responsabilità della dimensione tecnico-gestionale degli investimenti, ma, principalmente, del loro valore sociale, civile e di beneficio atteso in termini di sviluppo. Il convincimento maturato è che per realizzare un corretto dialogo e un’affidabile cooperazione pubblico-privata, soprattutto a livello di programmazione e progettazione, sono necessari una serie di performance da parte del soggetto pubblico locale: stabilità e qualità della programmazione, al fine di attrarre buoni e investitori; trasparenza e dialogo con i potenziali investitori, selezionati da una procedura di evidenza pubblica per rispettare le regole del mercato e individuare le proposte tecniche e progettuali più adeguate, presentando le proprie intenzioni e le condizioni alle quali accetterà proposte; promozione e competenza per comprendere la validità tecnica e l’affidabilità economica delle proposte dei diversi investitori e, nel caso non fossero adeguate, richiedere, per esempio, garanzie indipendenti accessorie agli stessi proponenti, come audit sulle previsioni di entrate di una determinata operazione, oppure allargare il dibattito e l’attenzione presentando e promuovendo, a livello adeguato, la propria proposta di cooperazione con il privato, nonché costituendo un panel di esperti di settore per supportare l’Ente locale nelle decisioni con pareri non vincolanti; gestore e non costruttore, perché i PPP nelle REGIONI DELL’OBIETTIVO 1, spesso partono da una proposta di un costruttore di immobili o di infrastrutture, piuttosto che da un gestore, per far sì che un PROJECT FINANCING o una STU siano letti, non come una forma alternativa di appalto di lavori, ma piuttosto come un’alleanza che miri a massimizzare l’efficacia dell’investimento in termini di servizio reso e di sviluppo locale della competitività. L’attenzione degli Enti locali, dunque, deve rivolgersi prima alla qualità del gestore futuro e, solo subordinatamente, alla qualità del realizzatore, anche perché lo stesso gestore ha interesse ad avere un realizzatore di qualità. Le conclusioni a cui si è pervenuti è che le procedure di PPP, prevedendo un percorso difficile e spesso complesso, occorre attivarle soltanto quando effettivamente necessario per garantire la effettiva efficacia e efficienza dell’investimento e, in subordine, per la ricerca di risorse accessorie. L’elemento prevalente nella scelta deve essere la qualità dell’investimento, piuttosto che la composizione del quadro finanziario.2201 8646 - PublicationAspetti temporali nella percezione e nell’esecuzione di movimenti complessi.(Università degli studi di Trieste, 2012-04-20)
;Murgia, MauroGalmonte, AlessandraIl presente lavoro si propone di indagare gli aspetti temporali legati alla percezione e all’esecuzione di movimenti complessi. Il principale obiettivo sarà quello di proporre un modello che implementerà la teoria della codifica degli eventi (Hommel et al., 2001) relativamente ai fattori temporali dei processi di percezione e azione. Questa proposta succederà alla descrizione di quattro esperimenti che indagheranno tali meccanismi in contesti ecologici. Gli esperimenti verteranno sui seguenti tre temi: 1) differenze sensoriali nella percezione del ritmo associato al movimento; 2) riconoscimento del movimento proprio e altrui utilizzando l’informazione acustica; 3) differenze sensoriali nel modellamento dell’azione. Il primo esperimento ha indagato la capacità di ballerini esperti di tip-tap di individuare variazioni ritmiche associate a sequenze di passi eseguiti da un’insegnante. Venivano registrate delle prove le quali potevano avere un ritmo costante (even) o presentare un lieve errore (uneven). Secondo alcuni criteri venivano selezionate 5 prove even e 5 uneven, dalle quali venivano creati gli stimoli. Questi consistevano negli audio e nei video associati a ciascuna prova selezionata. Ai ballerini venivano presentati gli stimoli, nella condizione unimodale uditiva e in quella unimodale visiva, e si chiedeva loro di indicare, per ogni sequenza di passi, se il ritmo fosse even o uneven. I risultati hanno dimostrato che, con la soglia di errore utilizzata, i soggetti erano di discriminare tra ritmi even e uneven solo nella condizione audio ma non in quella video, evidenziando anche una differenza significativa tra le due condizioni. Un secondo esperimento ha approfondito questo tema apportando tre modifiche al precedente studio: si è utilizzata una soglia d’errore più alta, è stata aggiunta una condizione bimodale audiovideo e sono stati testati anche soggetti non esperti oltre ad altri ballerini esperti. In questo caso si è evidenziato che, in virtù di una soglia più alta, i soggetti erano capaci di discriminare tra ritmi even e uneven anche nella condizione unimodale visiva, sebbene l’accuratezza era significativamente inferiore alle due condizioni uditive (unimodale e bimodale), le quali non differivano tra loro. La differenza tra esperti e non esperti è risultata marginale ed era dovuta principalmente alla condizione uditiva unimodale rispetto alle altre due. I risultati di questi due esperimenti hanno complessivamente rivelato, anche per ritmi associati al movimento umano, la stessa dominanza acustica per l’elaborazione del materiale temporale riscontrata in numerosi studi di base. Il terzo esperimento ha invece analizzato la capacità di golfisti esperti di discriminare tra il proprio movimento e quello di altri utilizzando l’informazione sonora prodotta dallo swing. In questo caso si volevano testare le ipotesi che il riconoscimento del proprio suono fosse facilitato dall’esperienza motoria e che questo si basasse prevalentemente sugli aspetti temporali del movimento. Gli stimoli venivano creati registrando i suoni associati al movimento di ciascun partecipante e manipolando il tempo relativo e la durata totale di suoni di altri golfisti. Ai partecipanti venivano quindi presentate delle tracce acustiche proprie o appartenenti ad altri atleti. Queste ultime potevano avere entrambi i fattori temporali (tempo relativo e durata totale) identici a quelli del partecipante, uno solo di questi o nessuno. I partecipanti dovevano riferire se i suoni che sentivano corrispondevano ad un loro swing o a quello di un altro golfista. I risultati hanno evidenziato che gli atleti erano in grado di riconoscere il proprio movimento in maniera superiore al livello del caso. Tuttavia quando entrambi i fattori temporali dei suoni altrui erano identici ai propri, questi stimoli erano erroneamente riconosciuti come propri. Tali evidenze, in linea con la più recente letteratura, suggeriscono un’influenza dei sistemi motori su quelli percettivi e, relativamente alla modalità acustica, indicano che il riconoscimento delle proprie azioni sarebbe in gran parte basato sugli aspetti temporali del movimento. Il quarto esperimento, sempre condotto su un campione di golfisti, prevedeva l’utilizzo di tecniche di modeling acustico e visivo per il miglioramento del gesto dello swing. In una prima fase i partecipanti dovevano eseguire una sessione di 20 tiri, dai quali venivano rilevati i filmati e i suoni ad essi associati. Per ciascun golfista, in base a diversi criteri, si individuava la miglior prestazione. I training consistevano nella presentazione, per cinque volte prima di ogni prova, dei suoni associati alla miglior prestazione individuale (condizione audio) o dei filmati muti associati alla stessa (condizione video). Nella fase sperimentale i partecipanti erano impegnati in 3 sessioni da 20 tiri ciascuna, in condizioni di training audio, training video e controllo, controbilanciate tra i soggetti. Si rilevavano alcuni parametri relativi all’esecuzione temporale del movimento (variabilità del tempo relativo e della durata totale) e altri parametri relativi all’esito della prestazione (distanza dalla buca, dispersione della distanza coperta dai tiri, valutazione soggettiva del gesto tecnico). I risultati, nella condizione audio, hanno evidenziato una standardizzazione dei parametri temporali del movimento e un miglioramento della prestazione su tutti e tre gli indici rispetto alla condizione di controllo. Il training video non ha mostrato alcun effetto. Tali evidenze suggeriscono che la maggior sensibilità del sistema acustico agli aspetti temporali del movimento abbia un’influenza sull’esecuzione motoria stessa. Complessivamente i quattro esperimenti descritti sono coerenti con le predizioni della teoria della codifica degli eventi e ne estendono la validità per quanto riguarda i movimenti complessi e gli aspetti temporali ad essi legati. Tale teoria presuppone una forma di rappresentazione unica per i processi di percezione e azione, prevedendo una codifica in forma distale delle caratteristiche (features) degli eventi “da percepire” e “da eseguire”. Tali features sarebbero codificate separatamente e successivamente integrate tramite diffusione dell’attivazione, inoltre sarebbero immediatamente disponibili per la pianificazione dell’azione grazie al sistema di rappresentazione comune. Entro tale background si propone un modello chiamato TIME (temporal information and movement execution) che prevede un maggior numero di vie uditive che codificherebbero le caratteristiche di “tempo relativo” e “durata totale” dei movimenti. Tale modello spiegherebbe la maggior sensibilità per i ritmi acustici rispetto a quelli visivi (esperimenti 1 e 2), con la conseguente maggior efficacia dei modelli uditivi rispetto a quelli visivi (esperimento 4). Sarebbe inoltre spiegata anche l’immediata disponibilità delle informazioni temporali nella riproduzione dei modelli, data dal magazzino unico di rappresentazione. Sempre in virtù della rappresentazione comune degli eventi tra percezione e azione, si spiegherebbe inoltre il riconoscimento del proprio movimento sulla base dei fattori temporali e l’erroneo riconoscimento di suoni di altri golfisti con la stessa struttura temporale dei partecipanti (esperimento 3).1640 2746 - PublicationLe basi militari degli Stati Uniti in Europa: posizionamento strategico, percorso localizzativo ed impatto territoriale(Università degli studi di Trieste, 2009-03-03)
;Paragano, Daniele ;Scarpelli, Lidia ;Scarpelli, LidiaCelata, FilippoL’utilizzo dello spazio per fini militari in situazioni di non conflittualità costituisce una componente poco analizzata della geografia militare. All’interno della geografia militare, è possibile individuare almeno tre ambiti tra loro strettamente interrelati. Un primo ambito, che potrebbe essere definito classico, è costituito dall’utilizzo delle conoscenze geografiche per la risoluzione di problematiche militari; un secondo approccio, più legato allo studio della geopolitica, si concretizza nella spazializzazione dei conflitti e delle attività militari; una terza componente prende invece maggiormente in considerazione gli effetti della presenza militare sul territorio. Questa presenza, che trova nelle basi la sua manifestazione più decisa, caratterizza in maniera decisa e determinante il territorio nella quale si sviluppa, influenzandone struttura economica, ambientale e sociale. La presenza militare dee quindi essere analizzata in una prospettiva transcalare nella quale motivazioni e dinamiche differenti si legano all’interno di un unico processo localizzativo. Le differenti scale alle quali si sviluppa la presenza militare rispondo a differenti esigenze e a diversi obiettivi. A scala globale la dislocazione delle basi militari all'estero, il processo di posizionamento globale, risponde ad esigenze politico/strategiche. La presenza di basi militari all'estero, pur essendo presente in ogni epoca storica, è una prerogativa del XX secolo, che trova fondamento nelle dinamiche coloniali. A partire dall'epoca coloniale, infatti, le basi militari all'estero hanno accostato ad esigenze e funzioni belliche, altre attività quali, ad esempio, il sostegno alle rotte commerciali. Il sostegno alle attività commerciali, il mantenimento di relazioni politico/diplomatiche, il controllo territoriale (reale e simbolico) hanno quindi accompagnato la localizzazione di basi militari all''estero. A partire dalla fine della guerra fredda, la presenza militare estera è diventata una prerogativa, pressochè esclusiva, degli Stati Uniti, le cui basi si estendono a scala globale. Le basi militari all’estero svolgono quindi un ruolo centrale, spesso poco evidenziato, all’interno della politica estera di un paese. L’analisi della distribuzione delle basi militari all’estero può quindi costituire una chiave di lettura per i principali accadimenti politico/diplomatici dei quali il posizionamento globale ne costituisce una componente e che spesso vengono proprio anticipati da una differente localizzazione delle basi all’estero. La presenza militare statunitense sta tuttavia facendo registrare fenomeni di opposizione da parte delle comunità locali, come nel caso esaminato dell'ampliamento/costruzione, della caserma Ederle a Vicenza. L’opposizione locale alla costruzione delle basi militari, che può essere ricompressa all’interno della categoria dei conflitti locali, presenta tuttavia delle caratteristiche proprie. La conflittualità per l’utilizzo dello spazio, particolarmente evidente in contesti ad elevata antropizzazione, ed i possibili impatti della presenza militare costituiscono infatti solo una parte delle ragioni che guidano la contrapposizione. I conflitti locali che si articolano in relazione alla presenza militare, infatti, hanno anche una componente ideologica che spesso si origina dalla fattispecie in esame per estendersi a tematiche più ampie e complesse. L’assenza di norme specifiche, la presenza di regime derogatorio connesso alle attività militari per molte delle norme urbanistiche ed ambientali, non vincola gli attori coinvolti al rispetto di norme procedurali ed al rispetto di procedimenti definiti e noti; le modalità attraverso le quali il processo decisionale viene sviluppato attengono infatti principalmente a comportamenti consuetudinari e le decisioni sono legate esclusivamente a scelte di carattere politico. Il coinvolgimento degli attori locali, anche istituzionali, all’interno del processo decisionale è, di fatto assente. Le istanze locali, nonostante il deciso peso che le basi hanno nelle dinamiche territoriali, possono essere quindi espresse solo attraverso movimenti di protesta che, in molti casi, si sviluppano solo a seguito della conclusione del processo decisionale. Lo stesso processo decisionale, inoltre, per la natura dell’oggetto e delle relazioni tra gli attori coinvolti, può essere difficilmente rinegoziabile. Gli accordi tra Stati Uniti ed Italia in tema di basi militari, in parte secretati, portano ad una negoziazione diretta tra vertici politici, non legata a specifiche procedure; una successiva negoziazione potrebbe quindi avere conseguenze anche nel complesso delle relazioni tra i due paesi. La centralità crescente dell’Italia nel quadro del posizionamento strategico degli Stati Uniti e la maggiore conflittualità che si associa alla costruzione di grandi opere, nonché il differente grado di accettazione delle popolazioni locali per presenze militari estere potrebbe quindi portare alla crescita di momenti di tensione circa nuove localizzazioni. La tesi si prefigge quindi l’obiettivo di evidenziare le motivazioni che portano alla costituzione del posizionamento strategico, le funzioni che si associano alla presenza militare estera e gli elementi che portano alla determinazione del sito cercando quindi di individuare le cause della centralità dei differenti territori; allo stesso tempo l’impatto locale della presenza e la possibile percezione che ne hanno le comunità locali fornirà una lettura delle cause della loro possibile opposizione. Dopo aver introdotto il tema della geografia militare nelle sue differenti articolazioni, ed aver evidenziato il ruolo delle basi come possibile riflesso dell’intera presenza militare estera, l’analisi si svolgerà, in una prima fase, a scala locale. Il posizionamento strategico degli Stati Uniti all’estero verrà quindi ripercorso, seguendo la sua evoluzione storica, al fine di evidenziarne le principali motivazioni e caratteristiche. Le molteplici funzioni che vengono associate alle basi militari, le relazioni internazionali e le tecnologie belliche portano infatti ad una spazialità delle basi militari in continua evoluzione. Le differenti regioni, ed in particolar modo l’Europa, hanno quindi avuto un ruolo differente all’interno del quadro strategico derivante sia da motivazioni interne agli Stati Uniti, da scelte dei propri vertici politici, che dalle motivazioni di contesto internazionale. Particolare attenzione verrà inoltre destinata al caso italiano evidenziando le peculiarità, anche normative, delle relazioni tra Italia e Stati Uniti in termini di basi, l’eccezionalità dell’accettazione della presenza militare estera sul proprio territorio da parte della popolazione italiana e le caratteristiche di questa presenza. L’analisi si sposterà quindi a scala locale evidenziando i possibili effetti della presenza militare in un territorio attraverso una classificazione delle principali conseguenze che una base può avere sul territorio dove viene sviluppata. Allo stesso tempo si evidenzieranno le possibili criticità che emergono dal processo di dismissione dei siti miliari e le possibili forme di utilizzo a fini civili. Il caso studio sulla presenza militare statunitense nella città di Vicenza, ed il processo di ampliamento/costruzione che la sta interessando, consentono di riflettere in generale sulle tematiche relative alla presenza militare all’estero emerse nel corso dell’intero lavoro. Quanto sta accadendo nel territorio vicentino costituisce infatti un caso paradigmatico della presenza militare estera in un territorio sviluppato ed antropizzato, delle cause di opposizione da parte delle comunità locali e della loro percezione degli effetti della presenza militare. Il caso studio è quindi anche l’occasione per riflettere circa le possibili evoluzioni del processo decisionale e dei criteri di scelta localizzativa al fine di ridurre le possibili frizioni tra basi militari e comunità locali.1598 8305 - PublicationBasi neurofisiologiche e rappresentazione spaziale dell'effetto di contrasto cromatico in pazienti con cerebrolesione acquisita e partecipanti sani(Università degli studi di Trieste, 2012-04-20)
;Fumarola, Antonia ;Agostini, TizianoPriftis, KonstantinosIn questa tesi verranno descritti gli studi che ho condotto durante i tre anni di dottorato e sui quali il mio interesse si è maggiormente concentrato. Gli aspetti, in particolare che sono stati indagati in questa tesi sono: la percezione del contrasto e della costanza acromatici e la rappresentazione mentale del contrasto di luminanza cromatico. La tesi è divisa in due parti. Nella prima parte verranno delineati gli esperimenti che sono andati a studiare i possibili correlati neurologici implicati nel processamento dei fenomeni di costanza e di contrasto acromatici. Ci sono molte teorie a riguardo che tentano di spiegare questi fenomeni. La maggior parte di queste teorie si avvalgono di spiegazioni legate alle caratteristiche dei neuroni presenti nella retina, nel nucleo genicolato laterale e nella corteccia striata (inibizione laterale, lling-in). Uno studio recente (Leonards, Troscianko, Lazeyrasc, Ibanez, 2006) ha evidenziato mediante risonanza magnetica funzionale che esiste una regione cerebrale che si attiva in presenza di stimoli che inducono una luminosità apparente (Zavagno, 1996) (nel lobo occipito-temporale e solco collaterale, al con ne fra le aree 37 e 19 di Brodman). Scopo della tesi è quello di veri care le basi neuroanatomiche dei fenomeni di contrasto e di costanza acromatici mediante la valutazione di pazienti con cerebrolesione acquisita. Sono stati testati due gruppi di pazienti con cerebrolesione acquisita ( un gruppo di 6 pazienti con lesione all'emisfero sinistro, 6 pazienti con lesione all'emisfero destro) e un gruppo di 10 partecipanti sani. Inoltre sono stati testati due pazienti più giovani d'età e un paziente con lesione sinistra in sede frontale. I compiti che sono stati usati erano quelli dello studio di Agostini e Galmonte (2002). Agostini e Galmonte hanno veri cato come l'e etto di contrasto classico è maggiore quando viene aggiunto un gradiente formato da una croce con i bracci che vanno dal nero al bianco che crea un e etto di luminosità apparente (e etto glow; Zavagno, 1999). I risultati hanno mostrato come i pazienti con lesione all'emisfero sinistro non mostrano di erenze tra le condizioni sperimentali e non sperimentali. I pazienti invece con lesione all'emisfero destro e i partecipanti di controllo si comportano come i partecipanti dello studio di Agostini e Galmonte (2002). I pazienti con lesione all'emisfero sinistro di età più giovane, mostrano dei risultati simili a quelli del gruppo di pazienti con lesione all'emisfero sinistro più anziani. Il paziente con una lesione all'emisfero sinistro in sede frontale, percepiva il colore del target in maniera diversa nella condizione sperimentale rispetto alla condizione di controllo. In conclusione dai dati emerge che vi sia un coinvolgimento maggiore dell'emisfero sinistro (probabilmente posteriore) nei fenomeni di contrasto e di costanza di bianchezza. La spiegazione potrebbe venire dalla teoria computazionale di Gilchrist e dalla teoria del processamento locale e globale degli emisferi cerebrali. Nella seconda parte della tesi è stato descritto uno studio svolto sulla rappresentazione mentale del contrasto di luminanza. Dehaene, Bossini e Giraux (1993) dimostrarono, attraverso un paradigma in cui i partecipanti dovevano giudicare la parità del numero usando le due mani, che la mano sinistra aveva tempi di reazione (TR) più veloci per i numeri piccoli (da 1 a 4) rispetto alla mano destra, mentre la mano destra aveva TR più rapidi con i numeri grandi (6-9). Da questo conclusero che i numeri hanno una rappresentazione mentale spaziale che segue una linea orientata da sinistra verso destra. (e etto S.N.A.R.C, Spatial Numerical Association of Response Codes). Studi recenti hanno dimostrato come questo e etto non fosse speci co solo per i numeri, ma che interessi anche altri concetti non numerici, cioè le lettere dell'alfabeto, i mesi dell'anno, i giorni della settimana, le grandezze geometriche, le note musicali e la luminosità. (ad es. Gevers, Reynvoet, & Fias, 2003). Inoltre alcuni studi hanno dimostrato come ci sia un e etto di congruenza tra la grandezza numerica e la luminosità usando un compito di comparazione (Pinel, Piazza, Le Bihan, & Dehaene, 2004; Cohen Kadosh, Cohen Kadosh, & Henik, 2008; Cohen Kadosh, Cohen Kadosh, Kaas, Henik, & Goebel, 2007; Cohen Kadosh, & Henik, 2006; Gebuis, &. van der Smagt, 2011). Da questi studi si deduce come probabilmente non solo per i numeri ma anche per il contrasto di luminanza ci possa essere una rappresentazione spaziale. Il proposito di questa tesi è stato quello di indagare la relazione tra il contrasto di luminanza cromatico e lo spazio in maniera diretta e se questa relazione è simile a quella trovata per i numeri. Sono stati eseguiti due esperimenti. Nel primo, il contrasto di illuminanza era irrilevante per la performance del compito (i partecipanti dovevano giudicare se il colore del target era verde o rosso; compito indiretto). Nel secondo, il contrasto di luminanza era rilevante ai ni del compito (i partecipanti dovevano giudicare se il colore era più scuro o più chiaro rispetto a uno stimolo di riferimento che era centrale rispetto alla scala di luminanza creata per l'esperimento; compito diretto).I partecipanti mostravano un vantaggio della mano sinistra nel rispondere a bassi contrasti di luminanza a un vantaggio della mano destra nel rispondere ad alti valori di contrasto di luminanza (Spatial Luminance contrast Association of Response Codes: e etto SLARC). Questo e etto è stato osservato sia nel compito diretto che indiretto. Quindi, non solo per i numeri, ma anche per il contrasto di luminanza c'è una rappresentazione spaziale con orientamento da sinistra verso destra, dove i contrasti di luminanza più bassi sono rappresentati a sinistra e progressivamente contrasti di luminanza più alti sono rappresentati a destra. Questi risultati sono coerenti con l'idea che il contrasto di luminanza ha una rappresentazione simile a quella dei numeri. In conclusione, con questa tesi è stata dimostrata l'esistenza di altri fattori coinvolti nella percezione del colore, cioè l'esistenza di altre aree cerebrali oltre a quelle della via visiva primaria coinvolte nel processamento dei fenomeni di contrasto e di costanza di bianchezza e l'in uenza dello spazio nella rappresentazione del contrasto di luminanza.1212 755 - PublicationBasic tools for navigation: use of landmarks in the domestic chicks(Università degli studi di Trieste, 2009-04-02)
;Pecchia, TommasoVallortigara, GiorgioExamined were the capabilities of the domestic chick (Gallus gallus) to reorient in a rectangular array of landmarks. In the first series of experiments, the subjects were required to ground scratch at the correct location, defined by the configural cues, to gain a food reward. When the array occupied the centre of a circular enclosure, there were no evidence of geometric computation. Chicks reoriented when the landmarks occupied the corners of a rectangular arena. Nevertheless, when a rectangular array of undistinguishable cues was located centrally within a larger rectangular enclosure, the subjects failed to reorient. In the subsequent experiments, the reward was hidden inside one of the landmarks. The subjects should gain the access to the food through a hole in front of the cues. Surprisingly, the chicks encoded the geometric information in this circumstance. In the presence of multiple openings, the subjects accessed the landmark from fixed direction as they became experienced, suggesting the use of a view-matching strategy of navigation. This hypothesis was further examined presenting multiple geometric cues, given both by the shape of the enclosure and the shape of the array. At the end of the training, the subjects were observed after having selectively removed the one or the other geometric cue. The chicks failed to reorient on the basis of the residual information, sustaining the hypothesis previously mentioned. It is possible that chicks and other vertebrate species rely on egocentric representations to reorient both in the presence of isolated cues and extended surfaces.1060 788 - PublicationIl biofeedback di secondo ordine per la regolazione del battito cardiaco e del respiro(Università degli studi di Trieste, 2014-04-14)
;Tamburini, GiorgiaAgostini, TizianoIn questo elaborato viene presentato un percorso di ricerca in cui ci siamo posti l’obiettivo di andare a studiare come la presentazione di un modello acustico, rappresentativo di una determinata funzione fisiologica (nello specifico riferito al battito cardiaco o alla frequenza respiratoria) possa influenzare il sistema di autoregolazione dell’individuo a cui viene presentato andando ad agire da rinforzo. In questo percorso abbiamo sviluppato parallelamente due linee di ricerca: con la prima siamo andati ad indagare l’effetto dell’utilizzo del biofeedback cardiaco di secondo ordine sui parametri cardiaci e la differenza nella percezione del proprio battito cardiaco nelle persone con diagnosi di disturbo di panico. Con la seconda, invece, abbiamo condotto degli studi per indagare l’effetto dell’utilizzo del biofeedback respiratorio di secondo ordine sulla standardizzazione degli atti respiratori, mettendolo a confronto con un biofeedback di secondo ordine con tracce di natura artificiale e con un compito cognitivo. Dalle prime ricerche è emerso che le persone con diagnosi di disturbo di panico mostrano una miglior percezione del loro battito cardiaco sia in termini di precisione che di accuratezza, ovvero riescono con maggior facilità a riconoscere una traccia acustica rappresentativa della loro frequenza cardiaca. Nel secondo filone di ricerca, mediante l’utilizzo del biofeedback di secondo ordine, abbiamo messo a confronto suoni naturali rappresentativi della frequenza respiratoria del soggetto con suoni artificiali (ascendenti –inspirazione- e discendenti –espirazione-) basati sui suoi parametri fisiologici. I risultati mettono in evidenza come solo mediante l’utilizzo dei suoni naturali vi sia una riduzione della variabilità respiratoria e quindi una standardizzazione del respiro. Allo stesso modo la condizione che utilizza i suoni naturali è stata messa a confronto con una condizione in cui è stato chiesto al soggetto di svolgere un compito cognitivo di controllo del respiro, essendo questa una delle strategie che più spesso viene insegnata per raggiungere uno stato di rilassamento; anche in questo caso però, il biofeedback respiratorio di secondo ordine è risultato più efficace nella standardizzazione dell’attività respiratoria del soggetto. Le ricerche presentate hanno dimostrato che quando le tracce somministrate al partecipante vengono costruite sulla base di un suono naturale della funzione fisiologica da studiare, il soggetto può riconoscere la traccia presentata come self-related e come appartenente alla propria esperienza percettiva. Essendo la componente ritmica una caratteristica dei sistemi di autoregolazione, questi possono essere influenzati dalla traccia acustica presentata. In considerazione di quanto sopra possiamo dunque ipotizzare che l’utilizzo di una traccia acustica riesca influenzare le risposte fisiologiche del soggetto. Concludendo, si può affermare che è possibile migliorare la propria autoregolazione fisiologica senza alcun tipo di training poiché la tecnica presentata in questo elaborato non richiede nessun tipo di insegnamento né di monitoraggio online.1743 3506 - PublicationCambiamento teorico, abduzione e verosimilitudine. Aspetti filosofici ed epistemologici della teoria AGM(Università degli studi di Trieste, 2013-04-30)
;Renar, Federica ;Festa, RobertoCevolani, GustavoLa tesi affronta il tema del cambiamento sia nell’ambito dell’epistemologia in senso stretto – seguendo le concezioni del fondazionalismo e del coerentismo - sia nell’ambito della filosofia della scienza. Negli ultimi decenni, i filosofi della scienza hanno affrontato l'analisi del cambiamento teorico razionale e del progresso scientifico, spesso ispirandosi all'idea di Popper per cui “la scienza è una delle pochissime attività umane – se non l’unica – in cui […] possiamo chiaramente e razionalmente parlare di progresso. In tutti gli altri domini soggetti agli sforzi umani vi è mutamento, ma raramente un progresso” (Popper, 1963, pp. 371-372). La teoria AGM del cambiamento teorico, soprattutto nei suoi sviluppi più recenti, sembra poter dare un contributo all’analisi del progresso scientifico. Tale teoria ci dice come un agente idealmente razionale - sia questo un individuo qualunque, uno scienziato, una comunità scientifica o un computer – cambia il suo stato epistemico, cioè l’insieme di tutte le sue credenze, alla luce di nuove informazioni (input); le possibili operazioni di cambiamento di credenze sono l’espansione, la contrazione e la revisione. Si è visto che la teoria AGM offre gli strumenti logici e concettuali per studiare in una nuova luce alcuni problemi tradizionali di filosofia della scienza, come il problema di Duhem, la distinzione tra centro e periferia nel sistema di credenze di Quine e il cambiamento dei programmi di ricerca di Lakatos. Sono stati, inoltre, analizzati i rapporti tra teoria AGM e abduzione come inferenza alla miglior spiegazione - illustrando espansione e revisione abduttive - e tra AGM e verosimilitudine (o approssimazione alla verità). L’aver messo in relazione questi tre campi di ricerca - AGM, abduzione e verosimilitudine - ha portato un unico frutto ancora acerbo. Si è dimostrato, cioè, che dati una teoria vera, un input e un’ipotesi abduttiva che lo spieghi (ovviamente diversa dall’input) anch’essi veri, se aggiungiamo alla teoria oltre all’input anche l’ipotesi abduttiva ci avviciniamo maggiormente alla verità rispetto all’aggiunta del solo input. In questo caso specifico e non particolarmente interessante, un’espansione abduttiva ci porta più vicino alla verità rispetto alla corrispondente espansione AGM tradizionale, poiché il risultato è maggiormente informativo. Sulla base di queste considerazioni si stanno facendo i primi passi verso una formulazione di condizioni plausibili in grado di specificare le circostanze in cui il cambiamento abduttivo delle nostre teorie, prodotto da nuove informazioni, aumenti la verosimilitudine di tali teorie.1602 4005 - PublicationIl carattere tra Hume e Kant. Sviluppi antropologici del concetto(Università degli studi di Trieste, 2010-04-12)
;Masin, Elena ;Martinelli, RiccardoMartinelli, RiccardoIl termine carattere rimanda a una nozione non di rado sottovalutata, le cui molteplici sfumature la rendono tuttavia particolarmente interessante in vista di un’analisi condotta dal punto di vista filosofico. Non si è inteso invece dare spazio a tutte quelle indagini di tipo psicologico, oggetto della «caratterologia», che esulano dunque dall’ambito del lavoro. In particolare, la presente ricerca si propone di indagare alcuni aspetti dell’utilizzo del concetto in David Hume e Immanuel Kant allo scopo di evidenziare alcuni possibili punti d’incontro tra i due autori. Interessante in tal senso è soprattutto l’interpretazione antropologica del concetto di carattere, a lungo sottovalutata dalla letteratura critica nel caso di entrambi gli autori. Essa consente invece di leggere l’Antropologia pragmatica kantiana (la cui seconda parte è appunto una Caratteristica antropologica) nel contesto della discussione settecentesca sul carattere, in parziale continuità con alcuni esiti del pensiero britannico settecentesco e con lo Hume saggista in particolare. Si apre così la possibilità di una rivalutazione del significato dell’«antropologia» in seno al pensiero filosofico del tempo, capace di mostrarne le linee di forza autonome e di circoscrivere, nel caso di Kant, il peso della tante volte affermata dipendenza dalla psicologia scolastica. Il lavoro muove da un’indagine, necessariamente schematica, della storia pregressa della nozione, che ha lo scopo di individuare il possibile filo conduttore per un’interpretazione in chiave antropologica (cap. I). A questo segue un’analisi dettagliata del concetto di carattere in Hume (cap. II) e Kant (cap. III) in vista di alcune conclusioni generali.1564 9668 - Publication"Chiesa e società nel Monfalconese in eta' moderna."(Università degli studi di Trieste, 2008-04-23)
;Gervaso, LuigiPaolin, GiovannaQuesto lavoro vuole offrire un ampio e documentato approfondimento sulla storia religiosa e sociale, in età moderna, di un territorio finora poco studiato, sul quale l’autore si è già soffermato più brevemente in “Chiesa e società del Monfalconese in età moderna”. Un percorso della ricerca edito in Monfalcon, numero unico – a cura di Ferrucio Tassin – del LXXXIII Congrès della Societât filologjiche furlane (Udine 2006). Dopo gli studi, ormai datati, di alcuni eruditi come Basilio Asquini, Giacomo Pocar ed Enrico Marcon, di recente, solamente Alberigo Consolo ha approfondito, in modo serio ed accurato, alcuni significativi aspetti collegati all’elezione dei curatori d’anime della parrocchia di S. Ambrogio di Monfalcone («Memorie Storiche Forogiuliesi», LXXX, 2002). In questa tesi di dottorato si è cercato quindi di definire l’evoluzione, il ruolo e la dimensione delle quattro parrocchiali che formavano la circoscrizione ecclesiastica del Monfalconese durante l’età moderna, in relazione alle istituzioni civili ed a quelle ecclesiastiche presenti in questo particolare territorio: S. Ambrogio di Monfalcone, S. Lorenzo di Ronchi di Monfalcone, Ss. Cancio, Canciano e Cancianilla di San Canzian d’Isonzo e S. Pietro apostolo di San Pier d’Isonzo. L’ampio lavoro d’indagine documentaria svolto negli archivi regionali ed in quello di stato di Venezia ha permesso di far emergere molti aspetti della storia religiosa di questo distretto che erano ad oggi del tutto ignorati e di costruire un più organico quadro d’insieme. Nel primo capitolo “Giurisdizione politica ed ecclesiastica del Monfalconese nel periodo veneziano” ci si sofferma sulla particolarità geo-politica di questo distretto: enclave veneta attorniata dai possedimenti degli imperiali. In particolare si vuole definire il ruolo delle magistrature civili e di quelle ecclesiastiche che governarono per tre secoli questo avamposto, analizzando alcuni particolari aspetti: tre secoli di dedizione di Monfalcone nello Stato Veneto; l’incerto confine e il ruolo della rocca; la collocazione geografica delle parrocchie del Monfalconese nella diocesi di Aquileia (l’istituzione dei vicariati foranei); le visite pastorali al distretto isontino. Con “La chiesa e il villaggio. Il clero secolare e la vita sociale delle parrocchie” viene posta l’attenzione sul funzionamento della parrocchia quale centro della vita sociale e religiosa, in relazione alle novità profuse dalla chiesa della Controriforma, dove approfondisco in particolare: la formazione delle parrocchiali e l’elezione del clero in cura d’anime; il disciplinamento del clero secolare dopo il Concilio di Trento, l’organizzazione della parrocchia e le novità prodotte dalle istituzioni ecclesiastiche durante il Settecento. Si passa poi a “La religiosità popolare. Confraternite, attività devozionali e pia loca”, capitolo nel quale si prendono in esame alcuni aspetti inerenti alle attività religiose che caratterizzavano la vita delle parrocchie, analizzando la presenza, l’istituzione e le attività delle confraternite, il culto agiografico, le processioni e i pellegrinaggi. Una particolare sottolineatura è dedicata all’attività caritatevole svolta dagli “Hospitalieri Mendicanti” di Venezia nel Monfalconese a partire dal XVI secolo (un aspetto questo del tutto inedito). Nel quarto capitolo “L’apostolato del clero regolare: i domenicani nel Monfalconese” vengono messi in luce alcuni aspetti molto importanti per la storia religiosa di questo distretto, che si collegano alla presenza e all’attività dei frati dell’ordine dei predicatori, presenti a Monfalcone a partire dalla prima metà del XVI secolo presso la chiesa-convento intitolata alla Beata Vergine delle Grazie. Il chiusura vengono affrontati i principali “Processi e denuncie dell’Inquisizione (secc. XVI-XVIII)”, in particolare approfondendo i casi di Andrea Tarsia e Giovanni Baseggio, accusati a metà del XVI di diffondere le idee della chiesa riformata; i processi contro alcune persone ritenute benandanti; alcuni casi di stregoneria, magia e invocazione del demonio. La tesi è corredata da una decina di documenti in appendice.1248 12908