Scienze giuridiche
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- PublicationAbuso di posizione dominante e rifiuto di concedere in licenza diritti di proprietà intellettuale(Università degli studi di Trieste, 2009-04-24)
;Bandera, ManuelaRadicati Di Brozolo, LucaLa tesi di dottorato ha ad oggetto l’analisi del trattamento in ambito comunitario del rifiuto abusivo di concedere in licenza diritti di proprietà intellettuale (i “diritti IP”) da parte di imprese in posizione dominante. Il tema ha acquistato notevole interesse a seguito di alcune sentenze della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado e di alcuni recenti interventi della Commissione diretti all’uniformazione dell’approccio nella valutazione degli abusi di esclusione. La definizione di un trattamento chiaro del rifiuto di licenza è di particolare importanza vista l’esigenza di un’interpretazione omogenea dei principi di diritto della concorrenza a livello decentralizzato, resa necessaria dalla modernizzazione della disciplina antitrust e dalla prevedibile futura diffusione delle azioni di risarcimento del danno concorrenziale. Partendo dall’apparente conflittualità tra diritti di proprietà intellettuale, che postulano un potere di monopolio sul bene protetto e l’esclusione dei concorrenti dal relativo godimento, e il diritto antitrust, che invece è volto ad evitare comportamenti abusivi e distorsivi della concorrenza, la tesi si propone di individuare i principi e il metodo più adatti a regolare tali condotte delle imprese dominanti. A tal fine, la tesi esamina con spirito critico le teorie ed i concetti sviluppati dalla prassi comunitaria e dalla recente Comunicazione relativa agli “Orientamenti sulle priorità della Commissione nell’applicazione dell’articolo 82 del trattato CE al comportamento abusivo delle imprese dominanti volto all’esclusione dei concorrenti”. Lo studio si compone di cinque capitoli. Dopo il primo capitolo introduttivo, i successivi due capitoli sono diretti all’analisi dei criteri utilizzati per l’esame dei casi di rifiuto di contrarre e delle fattispecie abusive che coinvolgono diritti IP: i criteri tratti dal diritto antitrust sono esaminati nel secondo capitolo e quelli derivanti da nozioni proprie della materia della proprietà intellettuale nel terzo. Il quarto e il quinto capitolo sono quindi dedicati allo studio critico della disciplina individuata per la valutazione dei dinieghi di licenza nelle pronunce della Commissione, del Tribunale e della Corte di giustizia nonché nella Comunicazione della Commissione e nel dibattito che ne ha preceduto l’adozione. Più in particolare, il primo capitolo definisce la nozione di abuso di posizione dominante ex art. 82 TCE e fornisce al lettore gli strumenti per l’analisi della fattispecie, approfondendo i più significativi per lo studio del diniego di licenza: dopo un esame del mercato rilevante, l’attenzione si concentra sul concetto di dominanza, sulla nozione di sfruttamento abusivo e le sue caratteristiche, il cui studio è effettuato con l’ausilio esemplificativo di alcune tipologie di abuso individuate dalla Commissione e dalle corti comunitarie. Il secondo capitolo analizza i criteri rilevanti per il trattamento del rifiuto abusivo di contrarre sviluppati alla luce dei principi di diritto antitrust. Nell’esame dei rifiuti rivolti a clienti nuovi, in particolare, è oggetto di approfondimento la prassi comunitaria elaborata con riferimento alla fornitura di beni e infrastrutture “essenziali” che viene analizzata anche alla luce della cd. “essential facilities doctrine” definita dalla giurisprudenza nordamericana. Il terzo capitolo è diretto invece a studiare il rapporto tra diritto della concorrenza e diritto della proprietà intellettuale. Esso esamina le nozioni di “esistenza/esercizio” del diritto IP, di “oggetto specifico” e di “funzione essenziale”, tratte dalla giurisprudenza in materia di privative intellettuali ed industriali e libera circolazione delle merci, analizzandone l’applicabilità alle fattispecie di abuso di posizione dominante e agli strumenti utili per la relativa analisi. Negli ultimi due capitoli, infine, si studia la disciplina elaborata per il trattamento delle ipotesi di rifiuto abusivo di licenza, evidenziando in particolare i criteri con cui si è cercato di coniugare le specificità dei diritti di proprietà intellettuale con i principi di diritto antitrust sviluppati per i casi di rifiuto di contrarre. Nei casi di diniego di licenza occorre infatti bilanciare l’esigenza di garantire la concorrenza e lo sviluppo dei mercati (da cui conseguirebbe la necessità di imporre l’accesso al bene protetto) con l’esigenza di tutelare gli sforzi e gli investimenti del titolare del diritto (il quale sarebbe privato dell’incentivo ad innovare nel caso si concedesse un accesso indiscriminato alle sue risorse). L’atteggiamento della Commissione e dei giudici comunitari si è evoluto nel tempo. Rispetto all’approccio utilizzato nei primi casi Volvo e Renault, dove la valutazione di abusività era effettuata in base ai concetti di “esistenza”, “esercizio” e “oggetto specifico” del diritto IP, la prassi ha modificato progressivamente la propria impostazione nei casi Magill, IMS e Microsoft nei quali ha sviluppato modelli di analisi tratti dalla disciplina dei rifiuti di contrarre e delle essential facilities, integrati, in ragione della specificità dell’oggetto del rifiuto, dal criterio dell’ostacolo alla comparsa del “prodotto nuovo”. Chiude la tesi l’analisi della Comunicazione della Commissione, ultimo intervento comunitario in materia, nella quale allo specifico test per i casi di rifiuto abusivo di licenza elaborato dalle corti comunitarie, si sostituisce un’unica disciplina che assimila il trattamento del rifiuto di licenze a quello previsto per il rifiuto di contrarre avente ad oggetto beni ed infrastrutture materiali. L’analisi delle interpretazioni succedutesi in materia, di cui si studiano aspetti positivi e criticità, dimostra la difficoltà di individuare il corretto trattamento del rifiuto di concedere in licenza diritti di proprietà intellettuale. Alla luce dei criteri progressivamente delineati in ambito comunitario con riferimento a tale fattispecie, sembra che la valutazione del rifiuto di licenza di diritti IP debba essere realizzata mediante l’applicazione dei principi di diritto antitrust, seppur adattati alla peculiare natura di tali privative. Occorrerebbe quindi in primo luogo riconoscere la necessità di un trattamento differenziato dei diritti IP rispetto ai diritti di proprietà sugli altri beni. La disciplina della proprietà intellettuale mediante l’attribuzione della privativa sul bene protetto solo per una durata limitata di tempo, infatti, effettua già il bilanciamento dell’esigenza di tutela del titolare con l’interesse dei concorrenti e della collettività alla condivisione dell’invenzione o della creazione. Di conseguenza, il trattamento delle fattispecie di rifiuto aventi ad oggetto diritti IP non può essere identico a quello riservato ai rifiuti di concedere l’accesso a risorse materiali, per cui manca tale bilanciamento di opposti interessi. Si dovrebbe riconoscere inoltre che non vi è contrasto ma, al contrario, complementarità tra le finalità e gli effetti del diritto antitrust e della proprietà intellettuale, essendo entrambi diretti a favorire un’efficienza e una concorrenza dinamica fondata sullo sviluppo di nuovi beni e processi, sulla sostituzione anziché sull’imitazione di prodotti. Tali constatazioni portano quindi a concludere a favore di un’interpretazione che preveda che il rifiuto di concedere in licenza un diritto di proprietà intellettuale debba essere ritenuto abusivo in forza della disciplina antitrust solo nei casi eccezionali in cui l’esercizio in concreto del diritto non risponda alla finalità astratta per cui esso è stato riconosciuto e cioè escluda la promozione dell’innovazione. L’individuazione dei criteri di valutazione dell’abusività del rifiuto del diritto IP può essere effettuata mediante un test fondato su condizioni precise, definite ex ante e specifiche per detta fattispecie, sul modello del test proposto dalla Corte di giustizia nella sentenza IMS, oppure sulla base di principi più generali, applicabili ad una pluralità di ipotesi, come previsto nella Comunicazione della Commissione. Il primo metodo sembra avere il vantaggio di essere certo e conoscibile, il secondo di essere adattabile alle esigenze del caso concreto, pur essendo suscettibile di applicazioni scarsamente prevedibili a priori. Dall’analisi si deriva in ogni caso che, per ridurre le ipotesi di intervento del diritto antitrust nell’esercizio delle prerogative attribuite al titolare del diritto IP, è necessario che all’interpretazione del trattamento del rifiuto di licenza sopra indicata si accompagni una disciplina del diritto della proprietà intellettuale che protegga tramite diritti di privativa industriale ed intellettuale solo beni effettivamente meritevoli di tutela mediante esclusiva. L’azione comunitaria intesa a realizzare questo obiettivo, già avviata mediante la parziale armonizzazione delle leggi nazionali in materia e l’individuazione di alcuni diritti IP aventi validità europea, sembra ora ulteriormente confermata dall’art. 118 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea previsto dal Trattato di Lisbona, diretto ad istituzionalizzare la creazione di diritti di proprietà intellettuale di portata comunitaria.4513 30782 - PublicationL'acquisizione della prova scientifica nel processo penale(Università degli studi di Trieste, 2010-04-16)
;Marando, GabriellaMarandola, Antonia AntonellaCon il presente studio ci siamo proposti di analizzare l’impatto che il proliferare della cd. prova scientifica ha sortito sul procedimento di formazione della prova penale. In via preliminare, si è avvertita la necessità di porre le premesse per una definizione della locuzione di “prova scientifica” che ne chiarisse le peculiarità gnoseologiche rispetto agli strumenti di conoscenza tradizionali. In tale prospettiva, si ritiene che il quid caratterizzante la scientific evidence sia costituito dall’impiego del metodo scientifico al fine della formazione della conoscenza, dovendo riservarsi, per questa via, la qualifica di scientificità ai soli elementi di prova che derivano da un procedimento formativo di verificazione hempeliana e falsificazione popperiana, il quale si concreta nella sottoposizione dell’ipotesi a continue sperimentazioni e falsificazioni, con conseguente individuazione di un margine intrinseco di errore. L’adozione di tale definizione non è priva di riverberi sul piano processuale, in quanto impone l’abbandono della concezione fideistica della scienza in favore di una nozione di metodo scientifico fallibilista e suscettibile di controllo circa la sua attendibilità epistemologica e la correttezza d’impiego da parte del sistema processuale d’adozione. La centralità del controllo sull’an e sul quantum di scientificità del metodo di formazione della conoscenza deve essere improntato, per un verso, all’autonomia del giudice nei confronti della comunità scientifica di riferimento e alla percezione della scienza come contesto culturale in evoluzione, all’interno del quale anche un metodo scientifico o tecnologico accettato e utilizzato nella prassi può essere messo in discussione dall’emergere di teorie innovative. Per altro verso, a fronte dell’elaborazione degli ormai noti parametri di controllo, discretivi tra good science e junk science, elaborati dalla giurisprudenza nordamericana ad opera delle pronunce componenti la trilogia Daubert-Joiner-Kumho al fine di erigere una griglia di sbarramento delle conoscenze non affidabili operante nella fase di ammissione della prova, si ritiene, sulla scorta della concezione corpuscolariana della conoscenza, che non si possa procedere ad una passiva e acritica operazione di innesto di tali parametri nel contesto processuale, ma che la valutazione di affidabilità del metodo scientifico debba essere contestualizzato in relazione ai paradigmi, alle categorie processuali e alle scansioni in cui si articola il procedimento probatorio delineato dal c.p.p. 1988. In una prospettiva speculare, l’operazione volta alla riconduzione della scientific evidence nell’alveo dell’architettura complessiva del procedimento di formazione della prova non ha ignorato che la complessità e il grado elevato di specializzazione della conoscenza scientifica richiede un apparato di strumenti giuridici idonei a consentire il controllo giudiziale sull’idoneità epistemologica del metodo impiegato, il rispetto dei protocolli d’uso e la coerenza interna del risultato probatorio. In quest’ottica, si sono affrontate le questioni, logicamente interdipendenti, attinenti, l’una, ai modelli probatori attraverso cui introdurre le conoscenze scientifiche nel processo, e, l’altra, alle tecniche dinamiche di acquisizione processuale del sapere scientifico. La prima questione pone l’interprete di fronte ad un sentiero che si biforca nelle direzioni della tipicità o della atipicità probatoria. Con l’adesione alla tesi volta all’inquadramento della conoscenza scientifica nel catalogo dei mezzi tipici abbiamo ritenuto di valorizzare la sistematica del codice laddove esso offre una gamma di strumenti nominati – a partire dalle tecniche di indagine ex artt. 354, 359 e 391-sexies c.p.p. fino a giungere ai mezzi di prova della perizia e della consulenza tecnica endoperitale ed extraperitale – aventi la funzione di consentire l’ingresso della scienza nel processo. L’opzione esegetica de qua è rafforzata dalle seguenti considerazioni. In primis, riteniamo che la tecnica di formulazione della fattispecie dell’art. 220, richiamato per relationem dall’art. 233 c.p.p., a guisa di una “norma in bianco”, suscettibile di trovare riempimento con il rinvio a metodi e tecniche extragiuridiche, sia sintomatica di una prevalutazione legislativa che attesti, da un lato, l’idoneità dei suddetti mezzi di prova ad accogliere nel loro alveo quegli apparati di strumenti tecnologici che, in ragione tanto del continuo sviluppo della scienza quanto della loro natura extralegale, non si prestano ad essere tipizzati in un catalogo; e, dall’altro lato, l’opportunità di sottoporre il metodo tecnico-scientifico alla dialettica della prova e controprova in cui si articola il rapporto tra perizia e consulenza tecnica e alla medesima dinamica di acquisizione probatoria tipizzata in funzione dell’assunzione al processo dei suddetti mezzi di prova. In secundis, il parametro legale dell’art. 220 c.p.p. si presta ad accogliere nel suo ambito applicativo – articolato nella triplice scansione dello svolgimento di indagini, acquisizione di dati e acquisizione di valutazioni da parte dell’esperto – sia la fase in cui il perito procede a proprie indagini tecniche facenti capo a risultati probatori fruibili dal giudice, sia la fase predisposta al controllo dei medesimi risultati e volta ad offrire all’organo giudicante gli strumenti di valutazione intorno alla idoneità probatoria astratta e alla attendibilità e rilevanza in concreto del metodo utilizzato. In tertiis, il conferimento alla prova per esperti del ruolo di trait d’union in funzione dell’ingresso della scienza nel contesto processuale valorizza al massimo grado il diritto di difendersi provando, inteso nella particolare declinazione del diritto a difendersi mediante il contributo di esperti, e il principio della formazione dialettica della conoscenza come canone epistemologico del processo penale. Tale considerazione pone le premesse per la soluzione della seconda questione problematica, afferente alla definizione delle modalità acquisitive della prova scientifica nelle scansioni tipiche dell’assunzione della prova per esperti. L’opzione qui accolta può essere apprezzata da un duplice angolo visuale. Da un lato, si consideri che la disciplina legislativa regolante la formazione della perizia prevede l’allestimento di un contraddittorio endoperitale sia in sede di formulazione dei quesiti sia durante la fase di esecuzione delle operazioni, all’interno del quale i consulenti di parte sono posti in grado di sindacare le scelte dell’esperto sia sotto il profilo della validità astratta del metodo impiegato sia dal punto di vista della sua idoneità in relazione al caso concreto, consentendo loro di controllare la correttezza delle modalità di esecuzione dall’interno della formazione della prova. Dall’altro lato, l’articolazione delle relazioni intercorrenti tra perizia e consulenza tecnica extraperitale rafforza le possibilità di interlocuzione delle parti mediante la realizzazione di una dialettica estrinseca tra i mezzi di prova tecnico-scientifici rimessi alla loro disponibilità. Tale ordine di considerazioni riveste una particolare importanza nelle ipotesi di acquisizione di elementi di prova promananti da settori della scienza o della tecnica che si avvalgano, al loro interno, di differenti metodi di formazione del dato cognitivo. E’ quanto accade, ad esempio, nel settore della tecnica di individuazione vocale, caratterizzata da una contrapposizione tra i metodi spettrografico e parametrico; o, ancora, nell’ambito della genetica forense, attesa la varietà di protocolli applicativi che presiedono all’estrazione del profilo del Dna (quali, a titolo esemplificativo, l’elettroforesi, la sequenziazione del Dna, la spettrometria di massa, il southern blotting); o, infine, nel settore della computer forensic, sol che si pensi ai differenti tools volti all’estrazione del dato informatico dall’elaboratore. Orbene, in tali casi la dialettica interna ed esterna in cui si articolano le relazioni tra i mezzi di prova per esperti consente alle parti di proporre, ciascuna mediante il proprio consulente, una ricostruzione del thema probandum basata sul metodo scientifico ritenuto più affidabile e di esporre nella relazione le ragioni a sostegno della maggiore idoneità epistemologica dello strumento tecnico-scientifico prescelto. Sebbene le clausole degli artt. 506 e 507 c.p.p. siano ostative alla configurazione di un onere perfetto, in capo alla parte che chiede l’acquisizione della prova al processo, di addurre la dimostrazione completa ed esauriente dei requisiti di idoneità ed affidabilità probatoria della prova assumenda, non vi è dubbio che essa sia, quantomeno, portatrice di un interesse all’esposizione dei criteri favorevoli che indirizzino la valutazione del giudice in direzione della utilizzabilità della prova in sede di decisione e dell’attribuzione di un grado elevato di efficacia probatoria. E’ di tutta evidenza, a questo punto, che l’impostazione prescelta costituisce un valido antidoto al cd. paradosso del giudice peritus peritorum, il quale, in sede di valutazione delle tecniche probatorie che si segnalano per l’alto grado di specializzazione, non dovrà operare il vaglio inerente alla scientificità ed affidabilità del metodo scientifico di volta in volta prospettatogli attraverso un dialogo solitario interno alla sua mente ma possa valersi dell’ausilio offerto dai contributi di segno opposto promananti dalle parti attraverso i propri esperti. Non può essere sottaciuto, tuttavia, che la validità di tale ricostruzione è subordinata al verificarsi di due condiciones sine qua non. La prima condizione consiste nell’adesione alle teorie, elaborate dalla dottrina e accolte solo da una parte della giurisprudenza, volte ad affermare la natura marcatamente probatoria della perizia e della consulenza tecnica e la loro esclusione dal novero degli strumenti ancillari, rispettivamente, al giudice e alla difesa. Dove si continuasse a sostenere il carattere neutro o il valore argomentativo delle ricostruzioni offerte da tali mezzi di prova, il sistema appena delineato verrebbe privato delle sue fondamenta. La seconda condizione consiste nell’accoglimento del principio secondo cui la formazione della prova peritale non si esaurisce con la produzione dell’elaborato scritto ma avviene nel contraddittorio, sottoponendo l’esperto al fuoco incrociato delle domande e delle contestazioni in funzione di controllo della attendibilità della prova e della individuazione di eventuali errori nell’applicazione al caso di specie. Nella prospettiva del potenziamento del controllo scientifico, inteso quale metodo elettivo di controllo dell’apporto tecnico-scientifico, in quanto idoneo a testarne la hempeliana forza di resistenza mediante tentativi di demolizione della sua attendibilità gnoseologica e prospettazioni di ricostruzioni fattuali alternative, non pare si possa prescindere dal riconoscimento, in capo alla parte avente un interesse contrario, del diritto alla sottoposizione dell’esperto al controesame, cui corrisponde, sul piano formale, l’onere della citazione del perito ai sensi dell’art. 468 c.p.p. in capo alla parte interessata alla sua assunzione e anche nei casi in cui questa avvenga in dibattimento. In tale prospettiva, il deposito della relazione dell’esperto, corredata dai protocolli applicativi del metodo prescelto e delle pubblicazioni scientifiche, deve essere concepita come supporto documentale funzionale alla preparazione dell’escussione orale e, per tale via, al vaglio sulla rilevanza del metodo al caso concreto e sul rispetto dei suddetti protocolli, ma non può assumere valore probatorio se non a seguito dell’esame dell’esperto.6000 30590 - PublicationLe banche dati tecnico scientifiche nell' ambito dell' indagine forense(Università degli studi di Trieste, 2010-04-16)
;Meloni, Salvatore ;Marchetti, Maria RiccardaMarchetti, Maria RiccardaIl ruolo delle banche dati tecnico scientifiche nell’ambito delle indagini giudiziarie è di primaria importanza, lo testimonia la massiccia implementazione di programmi operativi per la gestione combinata di informazioni individuali – anagrafiche, genetiche, fotografiche e biometriche –, avvenuta nel corso degli ultimi anni per agevolare le operazioni svolte dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria; pertanto, il database può essere definito come un ausilio rilevante per l’esecuzione delle indagini legate alla consultazione dei dati, dal momento che gli elaboratori elettronici assistono le azioni investigative, attraverso una migliore gestione operativa delle notizie personali. L’avvento sulla scena procedimentale di strumenti tecnici siffatti, col carico di garanzie e tutele che recano al loro interno – basti pensare alle recenti decisioni quadro del consiglio d’Europa sulla protezione dei dati personali oggetto di scambio tra gli stati dell’ UE –, impone una duplice osservazione; invero il rapporto tra le banche dati e il procedimento penale può essere analizzato sia in modo statico, con particolare riferimento alle regole preposte all’organizzazione del singolo dato all’interno della banca di raccolta, che in proiezione dinamica, cioè a dire, rispetto al possibile utilizzo che l’autorità giudiziaria può fare delle notizie provenienti dagli archivi informatici. Invero, nelle banche dati, le informazioni personali convergono in un sistema strutturato di catalogazione, che funziona alla stregua di un vero e proprio catalizzatore di notizie personali. Tali dispositivi permettono una consultazione rapida dei dati e facilitano la ricerca delle informazioni in essi contenute. A tal proposito, occorre sottolineare come l’acquisizione di una notizia derivante da un database, garantisca, di regola, all’autorità giudiziaria l’utilizzo di un’informazione calibrata sulla base delle norme fissate dal Testo unico sulla privacy del 2003. Preso atto che la banca produttrice di informazioni utilizzabili, per essere considerata come tale, deve rispettare le regole fondamentali stabilite dal Testo unico per il trattamento dei dati personali, occorre interrogarsi sugli effetti che il dato trattato in modo illecito, o frutto di un’attività di raccolta non autorizzata, genera rispetto all’accertamento del fatto reato. In tal senso, si può parlare di “nuove questioni giuridiche” per tutti quei temi legati alla relazione tra le regole stabilite per disciplinare la conservazione dei dati all’interno di archivi elettronici, e il processo penale. In quest’ottica, la tesi analizza la forma dei più importanti database utilizzati dall’autorità giudiziaria, intesi come recettori di informazioni personali, esaminando le implicazioni tecniche – id est i sistemi logistici di archiviazione – dell’organizzazione dei dati. Inoltre, costituisce argomento di studio, la singola informazione personale contenuta negli archivi informatici, con peculiare riferimento alle impronte digitali ed al profilo genetico identificativo. A tal proposito, la ricerca esamina la banca dati del dna – alla luce della recente novella legislativa introdotta dalla legge n. 85 del 2009 – intesa come esempio paradigmatico delle questioni succitate. In particolare si arriva allo studio della singola banca dati – database del dna –, dopo l’enunciazione di una serie di legami e connessioni di carattere generale, relativi a tutti i sistemi informatici di archiviazione dati. Le relazioni analizzate sono quelle con le specifiche tematiche del diritto alla privacy, e le disposizioni transazionali che disciplinano la materia della protezione dei dati personali. A ben vedere, l’analisi del caso specifico, rappresenta di fatto il riflesso pratico di una serie di considerazioni ad ampio raggio – connessi in particolar modo al diritto all’autodeterminazione dei dati personali – comuni a tutte le forme di archiviazione di dati. Infine, la conclusione della ricerca è incentrata sulla definizione del grado di utilizzabilità nel processo penale dell’informazione personale contenuto nei vari database; vale a dire nell’individuazione di un eventuale limite, all’ingresso nel procedimento, dei dati personali contenuti nelle banche dati, alla stregua di elementi impiegabili nelle indagini o utilizzabili come prova nel corso dell’istruzione probatoria. Tali problematiche sono state affrontate al fine di porre in luce quali siano i riflessi sull’aspetto che indubbiamente suscita il maggior interesse per la sua capacità di influenzare la decisione: l’utilizzazione probatoria del dato appreso illecitamente, poiché, a tutt’oggi, l’acquisizione e la successiva utilizzazione del dato illecito non incontra divieti probatori stabiliti ad hoc, dal momento che la legge sulla privacy costituisce un riferimento di carattere amministrativo. In particolare, occorre sottolineare come l’ inserimento nella banca dati di una determinata notizia garantisca all’autorità giudiziaria l’utilizzo di un’informazione filtrata, cesellata e calibrata sulla base delle specifiche esigenze che hanno motivato la creazione dello stesso database, come dire che viene canalizzata a disposizione del pubblico ministero e della polizia giudiziaria, una notizia pronta per essere impiegata senza alcun tipo di limitazione di sorta. Tale ruolo esercitato dalla banca dati, può essere definito come filtro e garanzia rispetto all’utilizzabilità del singolo dato. Nel corso della ricerca ci si è interrogati sulle conseguenze legate al caso in cui l’elemento a disposizione degli inquirenti, sia il frutto di un’attività di raccolta dati illecita o provenga da banche dati non autorizzate, e se un eventuale catalogazione effettuata al di là del confine legale tracciato dalle regole sulla specifica banca dati di raccolta, produca degli effetti patologici in seno al procedimento penale.1733 6808 - PublicationIl centro degli interessi principali del debitore e il regolamento CE n. 1346/2000 sulle procedure di insolvenza(Università degli studi di Trieste, 2010-04-16)
;Scotto, Chiara ;Daniele, LuigiCastangia, IsabellaNell’elaborato di tesi è esaminato principalmente il “centro degli interessi principali del debitore” nel Reg. CE n. 1346/2000. Il COMI svolge diversi ruoli nell’economia del Regolamento: è il presupposto per l’applicazione del Regolamento, individua il foro della procedura c.d. principale, determina la legge materiale che si applicherà alla gran parte dei rapporti giuridici interessati. Esso costituisce pertanto il punto di vista privilegiato per approfondire le tematiche generali del Regolamento, nonché il banco di prova dell’efficienza dell’intero sistema del diritto comunitario dell’insolvenza. Il Capitolo I, di carattere introduttivo, è dedicato al tema della giurisdizione nella materia fallimentare. In esso si evidenzia la particolarità e la complessità giuridica e procedurale del procedimento concorsuale. Il fallimento si apre con la sentenza dichiarativa, ma non si risolve in una semplice pronuncia; esso sostanzia un’articolata esecuzione che coinvolge una serie di soggetti pubblici e privati e di rapporti giuridici attivi e passivi. Proprio per tale ragione la quaestio jurisdictionis riveste un ruolo centrale nell’ambito del diritto internazionale privato fallimentare. È poi sinteticamente affrontato un tema classico del fallimento internazionale, quello del dibattito dottrinale tra universalisti e territorialisti. Il principio di universalità è legato a una visione del patrimonio del debitore quale universitas. Secondo tale concezione il fallimento si estende a tutti i beni del fallito ovunque si trovino e a tutti i creditori indipendentemente dalla nazionalità. Il principio di territorialità si basa al contrario sul concetto che ogni Stato è una “unique legal entity”, ed assumono pertanto rilevanza i confini nazionali dell’ordinamento. Il dibattito è stato a lungo dominato dalle concezioni universaliste ma col tempo si è affermato il modello dell’universalità cd. “limitata”, limitata dalla possibilità di aprire procedure secondarie in uno Stato membro diverso da quello in cui è situato il COMI. Tale modello è quello accolto dal Reg. CE n. 1346/2000. Si procede poi a ricostruire il retroterra storico e concettuale del COMI, nonché i principali precedenti del COMI, (contenuti in Convenzioni e progetti di Convenzione sin dalla fine dell’800, nonché in alcuni ordinamenti interni), prestando particolare attenzione ai progetti elaborati in seno alla Comunità Europea. Rapidi cenni sono riservati all’ordinamento italiano. Il Capitolo II, affronta alcune tematiche di natura generale. Si introduce il Regolamento CE n. 1346/2000 e si forniscono delle indicazioni di metodo circa le modalità di interpretazione della nozione di COMI, sottolineandone la collocazione nel sistema del diritto internazionale privato comunitario, dando risalto al ruolo esegetico della Relazione Virgos-Schmit e al tema del valore interpretativo dei considerando (stante la collocazione della definizione normativa del COMI nel considerando n. 13 anziché nella norma dedicata alle definizioni, l’art. 2). Si affrontano poi dei temi riconducibili alla necessaria localizzazione intracomunitaria del COMI e ai rapporti tra la disciplina comunitaria e i paesi terzi. Una parte dell’indagine è dedicata ai possibili effetti extraterritoriali del Regolamento e un paragrafo al tema della materia fallimentare nelle relazioni esterne dell’Unione Europea, con particolare riferimento alle Convenzioni e agli atti che accolgono la nozione di COMI. Il Capitolo III è dedicato interamente alla nozione materiale di COMI, come descritta dal considerando n. 13. Esso definisce il COMI quale “il luogo in cui il debitore esercita in modo abituale, e pertanto riconoscibile dai terzi, la gestione dei propri interessi”. Su tale scarna definizione si è sviluppata una ricchissima e assai creativa giurisprudenza di merito di cui si dà conto nel corso dell’analisi. L’elemento caratterizzante è la gestione di interessi che si deve configurare come abituale e pertanto riconoscibile dai terzi. Si tratta di elementi non facilmente conciliabili dato che essi devono rivestire un peso diverso nella valutazione dell’interprete. Ciò accade perché il valore da salvaguardare in primo luogo è la riconoscibilità da parte dei terzi. Un ulteriore elemento di complicazione è dato dal fatto che il COMI è per definizione modificabile, se non addirittura manipolabile dal debitore, essendo un criterio squisitamente fattuale. Numerose sono le questioni interpretative ancora irrisolte. La seconda parte del capitolo è dedicata più specificamente al COMI dei diversi soggetti debitori (persone fisiche, persone giuridiche ed enti in generale, gruppi di società) Particolare risalto è stato dato alle problematiche connesse con l’individuazione della sede statutaria e l’indagine è divenuta l’occasione per approfondire temi centrali del diritto internazionale privato comunitario, quali ad esempio il dibattito su sede reale e sede statutaria, la questione della scissione tra attività e sede sociale, il tema del trasferimento della sede e/o del COMI, il problema del forum shopping, le possibili interferenze tra la disciplina del Regolamento e le libertà di circolazione garantite dal Trattato. Il Capitolo IV è dedicato allo studio del sistema di competenza giurisdizionale. Il Regolamento prevede la possibilità di fallimenti secondari, che dovrebbero porsi come ancillari rispetto al procedimento principale e salvaguardare al tempo stesso gli interessi locali. Tali fallimenti secondari non presentano significative differenze rispetto al procedimento principale, essendo essi dei veri e propri procedimenti concorsuali, regolati da norme fallimentari locali, ancorché non necessariamente destinati ad esclusiva soddisfazione dei creditori locali. Nel Regolamento i criteri di competenza sono quindi due, uno avente carattere tendenzialmente universale e uno a carattere locale, limitato cioè al territorio dello Stato di apertura della procedura. Il criterio universale radica la competenza nello Stato in cui si trova il COMI. Il secondo titolo radica la competenza ad aprire una procedura secondaria in qualsiasi Stato in cui il debitore possiede una dipendenza. Dal punto di vista dei rapporti tra i due titoli di giurisdizione, si rinvengono nel Regolamento numerose norme che pongono le procedure – principale e secondarie - sullo stesso piano (ad esempio in materia di obblighi di collaborazione e informazione, o di reciproca insinuazione nel passivo). Tale genus di norme coesiste tuttavia con una serie di regole caratterizzate da un favor spiccato per la procedura principale. Si esamina poi il ruolo dei principali attori della giurisdizione, quello del curatore della procedura principale in particolare. Risalto è dato al tema della cooperazione tra i curatori e delle prassi che si stanno affermando, quali l’uso dei Protocolli o la cooperazione diretta tra le Corti. Si passa poi all’analisi delle norme sulle procedure territoriali, sia secondarie che indipendenti, e alla questione della c.d. vis attractiva concursus (con particolare attenzione per la revocatoria fallimentare). Si affrontano infine i temi ‘classici’ in materia di giurisdizione internazionale: la verifica della competenza; la necessità di qualificare la procedura; il momento determinativo della competenza; la disciplina dei conflitti positivi; la nozione di decisione di apertura di una procedura principale; il principio di poziorità e l’obbligo di riconoscimento automatico; la questione della contestazione della competenza del giudice di un altro Stato membro; i conflitti negativi; i rapporti tra il COMI e l’exceptio fori non convenientis; il ruolo dell’autonomia privata nel Reg. CE n. 1346/2000; il tema delle convenzioni di arbitrato; la giurisdizione per i provvedimenti conservativi. Dal punto di vista metodologico la struttura della ricerca è basata sull’analisi separata dei temi strettamente internazionalprivatistici e della ricostruzione materiale dell’istituto del COMI, ciò al fine di rendere il testo e il suo svolgimento maggiormente intelligibile e logicamente strutturato. Le conclusioni della ricerca vanno nella direzione della necessità di aggiornare alcune parti della disciplina, concepita nella sostanza quasi quarant’anni fa, per renderle conformi alle attuali esigenze della mobilità internazionale delle società e delle diffuse forme di aggregazione tra persone giuridiche. Un ulteriore punto nodale riguarda la necessità di conferire rilevanza normativa alle ‘nuove’ finalità che si sono affermate nella legislazione concorsuale degli Stati membri, e segnatamente le finalità risanatorie.2083 7365 - PublicationLa competenza dell' Unione Europea in materia di immigrazione(Università degli studi di Trieste, 2009-04-24)
;Nicolini, FrancescaDaniele, LuigiLa tesi di dottorato si propone di esaminare la portata e la natura della competenza dell’Unione europea in materia di immigrazione in relazione alla residua competenza degli Stati membri. Quello dell’immigrazione è un tema che, soprattutto negli ultimi anni, ha acquisito particolare rilievo divenendo sempre di più oggetto della normativa internazionale e comunitaria. Malgrado il grande interesse suscitato dal fenomeno presso molti studiosi di diritto comunitario ed internazionale, ancora risultano poco esplorate la natura e i limiti della competenza dell’Unione europea in tale materia. Il presente lavoro pertanto intende non tanto e non solo analizzare il contenuto della normativa comunitaria e della giurisprudenza rilevanti nel settore ma, attraverso questi ultimi, indagare sulla natura della competenza dell’Unione europea e sull’interagire di tale competenza con i poteri che gli Stati membri mantengono e/o intendono mantenere in materia di immigrazione. La classificazione della competenza dell’Unione europea e l’individuazione dei suoi limiti in rapporto alle competenze statali si presentano infatti piuttosto problematiche per quanto riguarda la materia in commento e ciò a motivo di numerosi fattori che vengono debitamente evidenziati nel corso della trattazione. In linea generale, ad un’analisi di carattere globale in cui si esaminano le caratteristiche e la natura della competenza dell’Unione in questo ambito, si affianca un’indagine che mira ad analizzare l’esercizio di queste competenze sul piano interno da un lato, e sul piano esterno, dall’altro lato. In effetti, dopo il Consiglio europeo di Tampere del 1999 - nel corso del quale è stato approvato un piano d’azione per la definizione di una politica comune dell’Unione europea in materia di asilo e immigrazione - la Comunità ha esercitato le competenze attribuitele dal Trattato di Amsterdam, adottando diverse misure comunitarie in materia. Tuttavia nel settore in esame ancora forte è il ruolo degli Stati membri e la Comunità, in alcuni ambiti, ha incontrato notevoli difficoltà nell’esercitare le proprie competenze a causa delle resistenze degli Stati stessi. Si consideri inoltre come, la nuova competenza comunitaria sia stata conciliata con il c.d. acquis di Schengen rispetto al quale occorre tenere presente la posizione di quegli Stati membri che, pur potendone prendere parte, non ne sono vincolati (Regno Unito e Irlanda) o che, ne sono vincolati, ma possono decidere se accettare o meno misure adottate a norma del Titolo IV TCE (Danimarca). Nei quattro capitoli del presente lavoro, nonché nelle conclusioni generali, l’attenzione rispetto alla politica comunitaria in materia di immigrazione si è dunque focalizzata sulle difficoltà che sussistono nello stabilire quali siano i confini tra competenze comunitarie e competenze degli Stati membri. Non sempre infatti è agevole comprendere quali siano gli spazi per un’autonoma attività normativa da parte degli Stati membri e in ogni caso, quale sia la natura di tale competenza (esclusiva o concorrente). A questo fine, dopo un’analisi delle origini e dello sviluppo della politica dell’Unione europea in materia di immigrazione vengono esaminate, nel secondo capitolo, le procedure decisionali prescritte in questo settore, in specie il progressivo passaggio alla codecisione e l’utilizzazione del metodo aperto di coordinamento, la tipologia di atti che le istituzioni possono emanare in materia e le relative basi giuridiche, il ruolo che i principi di proporzionalità e sussidiarietà hanno al riguardo. Oggetto di analisi è altresì il regime applicabile agli stranieri per i quali vige una disciplina speciale di fonte comunitaria o convenzionale. Difatti, la disciplina sull’immigrazione si contraddistingue per il suo aspetto residuale, in quanto costituisce il diritto comune in mancanza di norme speciali. Quanto al riparto di competenze tra Unione e Stati membri in materia, vengono individuati i settori di competenza esclusiva degli Stati membri e quelli in cui la competenza è invece di tipo concorrente. Con riguardo a quest’ultimi si evidenzia, oltre all’applicazione del principio di sussidiarietà, l’operatività di due clausole contenute nel TCE che fanno riferimento ad interventi degli Stati membri e che consentono a quest’ultimi da un lato, di mantenere o introdurre proprie misure nel campo dell’immigrazione dall’altro lato, di esercitare le responsabilità loro incombenti per il mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna. (artt. 63, II co., 64 TCE). Gli Stati membri sono inoltre competenti ad adottare misure nazionali in caso di afflusso improvviso di cittadini di Paesi terzi ( art. 64, par. 2 TCE). Si chiariscono inoltre gli obblighi di cooperazione e di rispetto del diritto comunitario che gravano sugli Stati membri nell’esercizio delle competenze non attribuite alla Comunità. Rivolgendo l’attenzione alla normativa attuata a livello comunitario sulla base delle norme del Trattato CE rilevanti in materia di immigrazione, si sono analizzati i principali atti di diritto derivato sulla disciplina del trattamento dei cittadini non comunitari entro il territorio dell’Unione che sono stati adottati e che hanno reso possibile ricostruire un regime giuridico generale, e vari regimi settoriali, di cui i cittadini di Stati terzi, legalmente soggiornanti entro il territorio comunitario, sono beneficiari. In particolare, si sono analizzate le direttive sul ricongiungimento familiare, sui soggiornanti di lungo periodo, nonché le direttive riguardanti le condizioni di ammissione dei cittadini di Stati terzi che intendano fare ingresso entro il territorio comunitario per motivi di studio, scambio di alunni, tirocinio non retribuito o volontariato nonché a fini di ricerca scientifica. Attraverso un’analisi del contenuto di tali direttive si è tentato di individuare quali siano i risultati raggiunti soprattutto in riferimento al livello di armonizzazione realizzato e quale l’incidenza che su di esso hanno le disposizioni che fanno rinvio al diritto nazionale. (v. cap. III, parr. 2.1 - 2.2 - 2.3 -5). Un ulteriore ambito di indagine ha riguardato le competenze comunitarie in materia di migrazione economica e di diritti dei cittadini di Stati terzi che soggiornano legalmente nel territorio degli Stati membri. Si è cercato di porre in rilievo come la migrazione economica abbia sempre rappresentato e, rappresenti tutt’ora, uno dei settori in cui l’intervento comunitario incontra i limiti più consistenti. (v. cap. III, par. 3). Si è in presenza infatti di un ambito in cui non è stata ancora raggiunta l’armonizzazione delle regole sull’ammissione e soggiorno per motivi di lavoro, se non per taluni aspetti settoriali. Allo stato attuale infatti, nonostante sia in discussione l’adozione di una serie di atti riguardanti specifiche categorie di immigrati, nonché una proposta di direttiva quadro relativa al rilascio di un permesso unico di soggiorno e lavoro, gli Stati membri - fatta eccezione per i limiti derivanti da accordi internazionali conclusi dalla Comunità con Stati terzi - sembrano intenzionati a conservare la loro competenza in materia e a decidere sulle modalità e sulle conseguenze inerenti la sussistenza o la decadenza del contratto di lavoro. Inoltre, per gli aspetti relativi all’integrazione degli immigrati, si applica il metodo aperto di coordinamento, non vincolante, e trovano spazio solo misure di incentivazione finanziaria, con esclusione di ogni armonizzazione legislativa (art. 79, par. 4 TFUE). Quanto al profilo esterno della competenza interna dell’Unione in materia di immigrazione, in particolare in riferimento al potere di concludere accordi internazionali con Stati terzi, è opinione comune che, in base al noto principio del parallelismo di poteri, la Comunità, pur in mancanza di un’espressa attribuzione di poteri, è competente a concludere accordi internazionali in materia di immigrazione. Si è tentato a tal fine, di individuare il carattere esclusivo o concorrente di tale competenza. Si è osservato come, in linea generale, non sia possibile riconoscere in capo alla Comunità una competenza di tipo esclusivo. Da un lato infatti, la prassi applicativa seguita per la conclusione dei suddetti accordi è quella degli accordi misti, dall’altro lato, posto che la Comunità, in taluni ambiti, deve limitarsi a stabilire norme minime, gli Stati membri sono, in linea di principio, lasciati liberi di concludere accordi con Stati terzi che prevedano norme maggiormente garantiste di quelle comuni. In ogni caso, la sussistenza della competenza esterna degli Stati è prevista in maniera espressa in materia di controlli sulle persone alle frontiere. In particolare, il Protocollo n. 31 sulle relazioni esterne degli Stati membri in materia di attraversamento delle frontiere esterne, prevede che le competenze comunitarie non pregiudichino la competenza degli Stati membri a negoziare o concludere accordi con gli Stati terzi, semprechè tali accordi rispettino il diritto comunitario e gli altri accordi internazionali pertinenti. A ciò si aggiunga la prassi in materia di rimpatrio e immigrazione illegale, in cui accordi degli Stati membri con gli Stati terzi di origine o di transito coesistono con quelli conclusi dalla Comunità e con accordi che contengono clausole di riammissione. (v. cap. II, parr. 1 e 4). Relativamente invece, al contrasto dell’immigrazione irregolare si è sottolineato come, sebbene occorra prendere in considerazione le posizioni prevalenti a riguardo degli Stati membri, si registra un buon potenziamento dell’acquis di Schengen il quale si pone in stretta connessione con la cooperazione per il controllo delle frontiere. Ciò sostanzialmente deriva dalla constatazione dell’inadeguatezza degli strumenti nazionali di contrasto del fenomeno rispetto alle esigenze generali di sicurezza. Da ultimo, nella parte finale del presente lavoro, si sono analizzate le principali modifiche prospettate in materia dal Trattato di Lisbona e dalla più recente normativa comunitaria adottata nel settore. In particolare, si è evidenziato come l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona dovrebbe comportare indubbi vantaggi per il settore dell’immigrazione sia per l’estensione della procedura di codecisione, che consentirebbe di consolidare il livello di integrazione e di superare il deficit democratico attraverso un maggior coinvolgimento del Parlamento europeo e un maggior dialogo tra le istituzioni, sia soprattutto per il venir meno dei limiti della competenza della Corte di giustizia previsti dall’attuale art. 68 Trattato Ce. Si ritiene dunque, che le novità introdotte dal Trattato di Lisbona nei settori in parola, possano non solo favorire un rilancio della politica di immigrazione dell’Unione europea attraverso un maggior livello di armonizzazione legislativa, ma anche contribuire ad una ridefinizione del sistema di tutela giurisdizionale dei diritti al fine di garantire una parità di trattamento tra cittadini comunitari e non comunitari. Inoltre, il Trattato di riforma oltre a gettare le basi per una futura adesione dell’Unione europea alla Cedu, determinerà un significativo passo in avanti nella tutela dei diritti soprattutto grazie alla norma che rende vincolante la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Tale strumento potrà infatti favorire oltre che un generale rafforzamento dei diritti, una più ampia tutela degli immigrati.6611 6615 - PublicationLa confisca nel diritto penale e nel sistema di responsabilità da reato degli enti(Università degli studi di Trieste, 2012-04-20)
;Stabile, RiccardoPittaro, PaoloIl modello di ablazione patrimoniale predisposto dal legislatore del Codice penale – identificato nella misura di sicurezza ex art. 240 c.p. ed imperniato sulla discussa nozione di pericolosità reale, intesa come probabilità che la res confiscanda, ove lasciata nel possesso del soggetto autore del reato-presupposto, fornisca incentivo per la perpetrazione di ulteriore attività criminale – mostra una notevole “persistenza” nell’ambito sia delle principali figure speciali di confisca, che nella peculiare ipotesi ablativa “antimafia” di cui all’art. 12-sexies l. n. 356 del 1992, che pure da esso significativamente divergono per struttura, modalità operative e finalità perseguite. Il segnale più evidente della vis attrattiva esercitata dall’archetipo codicistico è costituito dall’affievolito statuto garantistico che la prassi riconosce alle richiamate figure ablative ed, in particolare, dall’applicazione della disciplina contenuta all’art 200 c.p., che ammette l’operatività retroattiva delle misure di sicurezza. Per converso, l’analisi della più recente giurisprudenza di legittimità e costituzionale consente di registrare l’emersione di un alternativo paradigma, nella misura in cui, movendo dall’adozione di un approccio sostanzialistico al tema della natura giuridica dei rimedi sanzionatori (evidentemente ispirato dalle elaborazioni giurisprudenziali della Corte EDU), si è riconosciuto, in determinate ipotesi di confisca (e, in primis, nella c.d. confisca per equivalente), un carattere eminentemente punitivo, portando a recidere ogni residuo legame formale e funzionale con la misura di sicurezza ex art. 240 c.p. A simile “agnizione”, tuttavia, non sempre consegue una compiuta applicazione del corredo garantistico proprio della pena in senso stretto: se, da un lato, la prassi è ormai consolidata nell’estendere alla confisca-pena il principio di legalità, nei suoi corollari di tassatività ed irretroattività, affiorano, d’altro lato, significativi profili di tensione rispetto alle garanzie inscritte all’art. 27 Cost. (personalità-colpevolezza e proporzione). A conferma del segnalato “mutamento di paradigma”, si pone, infine, la confisca prevista nell’ambito del sistema di responsabilità da reato degli enti, in cui, da un canto, lo smarcamento dalle cadenze spiccatamente preventive della misura di sicurezza è testimoniato dalla sua collocazione a pieno titolo nel novero delle sanzioni principali a carico della persona giuridica; dall’altro, il ruolo essenziale ma “complementare” – consistente nell’azzeramento dei benefici economici effettivamente percepiti dall’ente responsabile per mezzo dell’attività criminosa, in chiave di riequilibrio dell’ordine economico violato – affidatole nel contesto del complessivo apparato sanzionatorio del d.lgs. n. 231 del 2001, dovrebbe impedire che essa assuma un surplus di afflittività, tale da trasformarla in una inedita “pena patrimoniale”, incompatibile con i principi costituzionali. In attesa che il legislatore intervenga a razionalizzare la quanto mai frammentaria e disorganica disciplina dell’ablazione patrimoniale, e pur nella consapevolezza della natura proteiforme – e quindi difficilmente riconducibile ad una matrice unitaria – che tale istituto da sempre possiede, si reputa nondimeno che già per via ermeneutica si possa addivenire ad un rovesciamento dell’impostazione finora invalsa in relazione alla natura giuridica della confisca: non più una misura preventiva, che solo in termini di stretta eccezione assume un volto marcatamente afflittivo, ma una misura schiettamente punitiva (una pena sui generis) – con tutto ciò che ne deriva in termini di garanzie applicabili – dalla quale si distinguono singoli (ormai esigui) casi, in cui la confisca è ancora sostanzialmente riconducibile all’originario modello codicistico.1643 18738 - PublicationI conflitti di giurisdizione e di competenza nel processo penale(Università degli studi di Trieste, 2013-04-19)
;Cocuzza, Valentina ;Gialuz, MitjaMarandola, Antonia AntonellaIl principio del giudice naturale precostituito per legge, sancito dall’art. 25, comma 1, Cost., eleva a rango costituzionale l’intero meccanismo conflittuale e attribuisce un senso profondo a regole che, come quelle di competenza, potrebbero, a un primo approccio, sembrare molto tecniche e di carattere puramente operativo. Nell’analizzare le implicazioni tra il principio del giudice naturale precostituito e l’apparato di regole concernenti la competenza, il punto focale è consistito nel chiarire se il concetto di precostituzione alluda solo alla garanzia che gli organismi giurisdizionali debbano essere istituiti prima del fatto commesso, oppure se il medesimo concetto afferisca anche alle regole di competenza, funzionali alla specifica individuazione del giudice competente a decidere la singola regiudicanda. Sicché, il divieto di distrarre i cittadini dal proprio giudice naturale risulterebbe violato, non solo in caso d’istituzione di un giudice ex post facto, ma anche in caso di modificazione delle regole di competenza con effetto retroattivo. Nell’ambito di un’analisi dei concetti di giurisdizione in materia penale e di competenza, si è rilevato come le teorie ad essi relative sfuggano ad una individuazione teorica coerente con le scelte fatte dal legislatore ordinario. A livello teorico, infatti, tali concetti risultano intersecarsi, sovrapporsi ed escludersi vicendevolmente, originando una serie ampia quanto complessa di interpretazioni e definizioni. A livello di prima approssimazione alla disciplina compendiata negli artt. 28 ss. c.p.p., non si è mancato di adottare una prospettiva sistematica, per svolgere un’indagine “comparativa” tra gli strumenti creati dal legislatore processuale penale e quelli previsti nell’ambito del codice di procedura civile, sotto forma di regolamento di giurisdizione e di regolamento (facoltativo o necessario) di competenza. Ne è derivata la considerazione secondo cui, a differenza di quanto accade nel processo civile, il legislatore processuale penale ha attribuito rilevanza al conflitto solo quando esso è reale, senza lasciare alcuna possibilità alle parti di impugnare le pronunce che decidono solo sulla competenza e sulla giurisdizione. Ove fosse stata prediletta tale ultima soluzione, sarebbe senz’altro prevalso, in modo preponderante, il diritto del singolo alla riaffermazione del proprio giudice naturale ma, per certi versi, sarebbe stata sacrificata l’esigenza della celerità del processo, in quanto si sarebbe offerta alla parte una più ampia gamma di possibilità di impugnare, con le ovvie conseguenze sui tempi dell’iter processuale. In quest’ottica, si è concluso che il congegno predisposto dal legislatore all’interno del processo penale non sembra avere come unica finalità la riaffermazione del corretto ordine delle competenze. Conferme di tale assunto si sono rinvenute nell’istituto della desistenza, contemplato dall’art. 29 c.p.p., e nella notazione secondo cui, tra i modelli che riguardano i possibili modi di configurare il rapporto procedimento incidentale/processo, quello che caratterizza l’istituto dei conflitti non abbia alcuna influenza sui tempi del processo di merito, in quanto privo di effetti sospensivi. Si è, dunque, concluso che il sistema processuale penale non si spinge, attraverso l’istituto dei conflitti, sino ad assolutizzare il valore costituzionale del giudice naturale ma opera un ragionevole bilanciamento tra le garanzie costituzionali in gioco: da un lato, la riaffermazione del giudice naturale precostituito e, dall’altro, la ragionevole durata del processo. Lo studio analitico dei conflitti di giurisdizione ha richiesto i dovuti approfondimenti preliminari sulla dicotomia unità/pluralità della giurisdizione, nonché sull’esatta definizione del concetto di giudice speciale, in relazione (e parziale contrapposizione) a quelli di giudice ordinario e di sezione specializzata. In termini di sintesi, si è concluso che la giurisdizione speciale non può contraddistinguersi per una carente attuazione di alcuni principi e valori fondanti in tema di giurisdizione, i quali attengono al concetto stesso di giurisdizione e la cui mancanza non consente di qualificare tali organi o procedimenti né come “ordinari” né come “speciali” in quanto, ancor prima, non rientrerebbero tra gli organi o procedimenti “giurisdizionali”. Al fine di verificare gli effettivi spazi di operatività dell’art. 28 lett. a) c.p.p. si è poi focalizzata l’attenzione sulla giurisdizione in materia penale, la quale risulta affidata ai giudici ordinari ma anche ad altri giudici speciali muniti, ad oggi, di competenze giurisdizionali penali. Nel dettaglio, si sono prese le mosse da alcuni organi che, in passato, hanno avuto giurisdizione penale e che rivestivano ruolo di parte nei conflitti di giurisdizione, come l’intendente di finanza e il comandante di porto, per riservare poi uno spazio ai tribunali militari, fino a giungere al delicato e controverso tema della Corte costituzionale come giudice speciale in materia penale. In tema di conflitti di competenza, si sono analizzati i possibili casi di conflitto di competenza per materia, territorio e connessione. Lo studio di tali conflitti di competenza si è svolto riservando spazio e attenzione ad ipotesi qualificate, quali dissenso tra tribunale in composizione monocratica e tribunale in composizione collegiale (concludendo per la sussistenza di un conflitto analogo), il conflitto che insorga nella fase delle indagini preliminari, l’ipotesi di dissenso tra giudice dell’udienza preliminare e giudice del dibattimento, fino ad un caso di conflitto, affrontato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, tra magistrato di sorveglianza e giudice dell’esecuzione. Si è inoltre riservato uno spazio ai dissidi tra giudice penale e giudice civile che la Suprema Corte, in alcune occasioni, ha qualificato come conflitti di competenza. In conclusione, lo studio ha riguardato le dinamiche procedimentali tipiche dei conflitti e, segnatamente, le elaborazioni della dottrina e della giurisprudenza in merito al rilievo d’ufficio e alla denuncia di parte, agli adempimenti successivi al rilievo o alla denuncia, alla comunicazione ai giudici in conflitto, nonché al divieto di sospensione dei procedimenti in corso. Inoltre, prima di soffermarsi sulle possibili risoluzioni del conflitto e sugli effetti della relativa decisione, è stato riservato un approfondimento al particolare istituto della cessazione spontanea del conflitto, sotto forma di “desistenza”.4098 7150 - PublicationLa conoscibilità dell'accusa nel procedimento penale(Università degli studi di Trieste, 2011-04-15)
;Malacorti, GiuliaGaruti, GiulioCon il varo della Costituzione si affermava nel nostro ordinamento l’inviolabilità del diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento. Ora come allora, l’effettività di questo diritto ha quali ontologiche premesse, da un lato, la possibilità per la persona accusata di un reato di compiere investigazioni parallele a quelle condotte dal p.m., la necessità che la stessa possa conoscere, in tempi contenuti, l’esistenza di un’inchiesta giudiziaria a carico e l’addebito contestato in via provvisoria. Su questi presupposti veniva coniata la nozione di “diritto di difendersi provando”, quale più completa e dinamica espressione del diritto di difesa, da garantire fin dalla fase prodromica al processo. Muovendo dalla prospettiva di realizzare un processo di parti, il codice tendenzialmente accusatorio del 1988 fissava il principio dispositivo della prova (art. 190 c.p.p.) e riconosceva alla difesa la facoltà di compiere indagini private tese all’individuazione e al reperimento degli elementi di prova a discarico (art. 38 disp. att. c.p.p.). Facoltà successivamente rafforzata dalla compiuta disciplina (artt. 391 bis e ss. c.p.p.) delle investigazioni difensive introdotta con la l. 7 dicembre 2000, n. 397. Difettava, tuttavia, la previsione di meccanismi che garantissero, al contempo, anche la condizione primaria e ineliminabile affinché il diritto di difendersi provando nella fase delle indagini preliminari non rimanesse un diritto di carta. E le novelle susseguitesi nell’arco di oltre un ventennio, nonostante i dichiarati intenti di conferire maggiore consistenza alle prerogative difensive dell’indagato, hanno stentato ad affermarla. Benché la conoscibilità dell’accusa sia stata assurta al rango di principio costituzionale (art. 111 comma 3 Cost.), quale diritto che, sulle linee da lungo tempo tracciate dall’ordinamento internazionale, concorre a delineare la fisionomia di un giusto processo, il sistema codicistico non sembra, ancora oggi, annoverare istituti idonei a rendere certa e indiscriminata, in capo alla persona sottoposta alle indagini, la “tempestiva” consapevolezza dell’avvio di indagini nei propri confronti e a porre la stessa nella possibilità di operare concretamente le scelte defensionali più adeguate alla propria posizione. In altri termini, nonostante gli sforzi del legislatore volti a potenziare gli strumenti difensivi per la realizzazione di una par condicio effettiva tra le parti contrapposte, l’attuale normativa rischia di vanificare i poteri e le facoltà che la stessa pur conferisce all’indagato, impedendone il concreto e proficuo esercizio. La conoscenza di un’inchiesta giudiziaria a carico e del fatto di reato che ne costituisce la “regiudicanda” – pur fluida e perfettibile, in quanto necessariamente parametrata al grado di maturità di un’attività investigativa ancora in fieri – può non avvenire affatto o essere procrastinata sino a divenire oggettivamente intempestiva. Perdura una legislazione foriera di spazi discrezionali in capo all’organo inquirente a tutela del segreto istruttorio, a fronte del quale nessuna reale garanzia è riconosciuta alle aspettative dell’inquisito in relazione al momento cognitivo. Gli artt. 335 e 369 c.p.p. – che regolamentano i principali canali attraverso i quali la persona sottoposta alle indagini può acquisire contezza del procedimento penale a suo carico – anche dopo la riforma introdotta con la l. 8 agosto 1995, n. 332, si sono rivelati inidonei ad assicurare sollecite iniziative della difesa. Il meccanismo di ostensione delle iscrizioni contenute nel registro delle notizie di reato (art. 335 c.p.p.) se, da un lato, presuppone l’attivazione della parte interessata, dall’altro, risulta fortemente condizionato da valutazioni arbitrarie e insindacabili del p.m. Né una maggiore sensibilità verso le istanze difensive sembra trasparire dalla disciplina dell’informazione di garanzia (art. 369 c.p.p.), istituto sorto dalle ceneri della previgente comunicazione giudiziaria, senza averne, tuttavia, mutuato le finalità puramente informative nei confronti di ogni persona accusata di un reato. Nell’attuale assetto normativo, essa parrebbe configurasi quale atto precipuamente funzionale a consentire la nomina di un difensore di fiducia in occasione del compimento (eventuale) di atti garantiti, piuttosto che ad assicurare una tempestiva conoscenza delle indagini in corso in capo all’indagato. Rispetto al codice del 1930, infatti, l’art. 369 c.p.p. non soltanto ha sensibilmente posticipato il momento d’invio dell’avviso, impoverito, altresì, nel suo contenuto descrittivo, ma lo ha, altresì, vincolato all’espletamento di un’attività investigativa garantita, governata da logiche puramente inquisitorie e, dunque, non imposta ai fini dell’esercizio dell’azione penale. In base al combinato disposto degli artt. 335 e 369 c.p.p., può, dunque, accadere che, qualora il p.m. non ritenga necessario procedere ad atti istruttori al cui compimento il difensore ha diritto di intervenire, l’indiziato – il quale non sospetti di essere destinatario di un’indagine giudiziaria e, dunque, non si attivi ex art. 335 comma 3 c.p.p. – rimanga il protagonista ignaro di un procedimento penale, per lungo tempo ovvero sino alla conclusione delle investigazioni, senza avere avuto, di conseguenza, la possibilità di ricercare, tanto prontamente quanto utilmente, elementi di prova a discarico e predisporre una ponderata strategia difensiva in vista del successivo ed eventuale giudizio. Il suo diritto a un’informazione completa e tendenzialmente stabile è garantito unicamente nell’ipotesi in cui l’organo dell’accusa, all’esito delle indagini preliminari, intenda promuovere l’azione penale nelle forme ordinarie della richiesta di rinvio a giudizio ovvero del decreto di citazione a giudizio (artt. 416 comma 1 e 552 comma 2 c.p.p.). In questi casi, il magistrato del pubblico ministero dovrà inoltrare all’indagato (e al suo difensore) l’avviso di conclusione delle indagini e, se v’è richiesta in tal senso, invitarlo a presentarsi per rendere l’interrogatorio (art. 415 bis c.p.p.). La l. 16 dicembre 1999, n. 479 – finalizzata, in parte qua, a colmare il deficit difensivo residuato dalla precedente riforma (l. 16 luglio 1997, n. 234) – ha, infatti, garantito all’inquisito, oltre alla “sommaria” cognizione dell’addebito, in facto e in iure, la preventiva discovery degli atti di indagine raccolti dal p.m., ai fini di un oculato e consapevole esercizio delle facoltà che lo stesso art. 415 bis c.p.p. attribuisce alla difesa. Tuttavia, l’avviso in parola si colloca, nella maggior parte dei casi, in un momento troppo avanzato rispetto all’avvio del procedimento penale perché possa assicurare proficue ed efficaci iniziative difensive, spesso irrimediabilmente pregiudicate se intraprese tardivamente. Né integra una garanzia per tutte le persone sottoposte alle indagini, incontrando limiti operativi in relazione sia ai procedimenti speciali che al “rito di pace”, limiti, invero, non sempre pienamente condivisibili in ragione delle connotazioni tipiche degli stessi. Rappresenta, dunque, un istituto per molti aspetti inidoneo a dare completa attuazione alle affermazioni di valore consacrate nell’art. 111 comma 3 Cost., destinato a rimanere desolatamente irrealizzato nella parte in cui riconosce a ogni persona accusata di un reato il diritto di esserne informata «nel più breve tempo possibile». Sotto quest’ultimo profilo, se l’imperativo costituzionale evoca la necessità di un giusto contemperamento tra istanze difensive e garanzie di efficienza delle indagini preliminari, lo sforzo del (coevo) legislatore verso l’individuazione di un equilibrio tra le opposte esigenze è stato, a ben vedere, pressoché impercettibile. Nel momento in cui, conclusa l’attività investigativa dell’organo inquirente, il segreto è, in ogni caso, destinato a cadere, non potrebbe più invocarsi alcuna pretesa di tutela della genuinità dei risultati. Se il codice contempla altri meccanismi idonei, in concreto, a notiziare l’inquisito dell’esistenza di un procedimento penale a carico e, con gradi diversi di specificità, dell’addebito contestato in via provvisoria, è da osservare che essi, eterogenei e variabili sotto il profilo temporale, rimangono sempre caratterizzati dall’eventualità e da valutazioni di opportunità legate alle dinamiche investigative. Una realtà normativa siffatta se, con molte riserve, poteva considerarsi accettabile nell’assetto originario del codice del 1988 – nell’ambito del quale l’inchiesta di parte del p.m. acquisiva, di regola, una rilevanza meramente interna alla fase delle indagini preliminari –, nell’attuale sistema – ove ogni risultanza investigativa può, non solo, costituire la piattaforma probatoria in sede di riti deflattivi del dibattimento, ma essere variamente spesa, a fini decisori, nelle successive fasi del giudizio – risulta difficilmente giustificabile e certo distonica rispetto alla prospettiva costituzionale di garantire il diritto di difesa e l’egalité des armes in ogni stato e grado del procedimento.2053 18313 - PublicationConsiderazioni sul problema dei rigassificatori tra aggregazione del consenso e conflitto ambientale(Università degli studi di Trieste, 2011-04-29)
;Lodoli, FlavioCoccopalmerio, DomenicoConsiderazioni sul problema dei Rigassificatori tra Aggregazione del Consenso e Conflitto Ambientale 1. Il nostro Paese, per scelta politica e per una sostanziale limitata capacità di innovazione del mondo industriale, ha una quota attuale di produzione di energia da fonti rinnovabili poco significativa nonostante gli investimenti, i contributi e le agevolazioni fiscali che dovrebbero incentivare opportunamente ad esempio, l’utilizzo dell’energia solare che rappresenta una peculiarità del nostro territorio. Devono essere attuate velocemente le scelte strategiche e programmatiche che permettano di guardare al futuro, caratterizzato da una già quantificata scarsità di fonti fossili, con sufficienti margini di prevedibilità e di sostenibilità dello sviluppo, gli obiettivi da raggiungere entro il 2015 per il fabbisogno energetico nazionale dovrebbero essere quantificati nel 25% da fonti di energie rinnovabili, il 25% di energie da fonte nucleare e il rimanente 50% da fonti energetiche tradizionali. In attesa di potenziare la produzione di energia da fonti rinnovabili, come il solare, sarà scelta obbligata la costruzione di infrastrutture energetiche tradizionali, tra cui la necessità di dotarsi di alcuni terminali di rigassificazione con progetti attentamente valutati sia per la logistica che per la dislocazione, la riduzione degli impatti ambientali (non dimentichiamo la vocazione turistica del nostro paese), la massimizzazione delle ricadute per l’area interessata in termini di indotto e occupazione. Infatti, la flessibilità, offerta dal Gas Naturale Liquefatto, rappresenta un fattore di successo non solo per la diversificazione delle fonti, ma anche per la maggiore possibilità di modulare gli approvvigionamenti. Benché l’Italia sia tra i Paesi meglio posizionati per ricevere gas via tubo, la realizzazione di nuovi terminali di rigassificazione consentirebbe di potenziare la capacità di ricezione del sistema, incrementandone la flessibilità, con il risultato non solo di diversificare le fonti di approvvigionamento, ma anche di favorire la concorrenza, agevolando l’ingresso nel mercato di nuovi operatori e riducendo la possibilità di “colli di bottiglia” dal lato dell’offerta. La tecnologia del GNL consente ai Paesi non collegabili per motivi logistici ai mercati di consumo tramite i tradizionali gasdotti, di esportare la materia prima che altrimenti rimarrebbe non sfruttabile. La tecnologia di liquefazione ha permesso uno sviluppo accelerato dell’utilizzo del gas a livello globale: già oggi il GNL rappresenta circa il 25% degli scambi internazionali di gas. In Italia, invece, il GNL rappresenta oggi solo il 5% del gas importato, ma è destinato a giocare un ruolo crescente, diversificando le fonti tradizionali di importazione e quindi aumentando la sicurezza e la competitività degli approvvigionamenti. Il Gas Naturale è indispensabile al mondo moderno, in quantità sempre maggiori e la sua produzione, il suo trasporto, lo stoccaggio e la sua distribuzione non possono che essere effettuate in condizioni di sicurezza crescente ed a costi tendenzialmente moderati. Il mercato del gas naturale è forse quello che presenta maggiori complessità e profili particolarmente sensibili dal punto di vista ambientale, tecnologico ed economico. Queste complessità si traducono nell’esigenza di contemperare varie esigenze, tutte meritevoli di tutela ed attenzione, ed il quadro normativo che ne risulta pone non pochi problemi interpretativi ed applicativi agli operatori. La localizzazione, la costruzione e l’esercizio di un grande impianto di rigassificazione può portare vantaggi o disagi alla popolazione residente o non residente nell’area che ospiterà il rigassificatore. I vari profili connessi alla sua realizzazione si sono progressivamente fatti spazio nella legislazione di settore fino a rispecchiarsi, in vario modo, in vere e proprie fasi del procedimento autorizzativo. L’accettabilità sociale dei terminali di rigassificazione da parte delle comunità locali è uno dei fattori condizionanti la realizzazione di infrastrutture diventate una delle priorità dell’agenda politica italiana. La capacità di comprendere e interagire con le dinamiche di conflitto ambientale che si sviluppano intorno ai progetti di realizzazione di infrastrutture energetiche da parte dei diversi attori coinvolti, è un fattore cruciale che appare ancora fortemente sottovalutato. Tale capacità chiama in causa il rapporto delle imprese con il territorio in cui operano e, in questa prospettiva, l’uso che viene fatto degli strumenti di informazione e partecipazione che sono presenti nei procedimenti autorizzativi. La sottovalutazione circa il ruolo di questi strumenti è sicuramente uno degli elementi che hanno reso particolarmente critico l’andamento dei processi autorizzativi dei terminali di rigassificazione. Il corretto ed efficace uso di questi strumenti, che coinvolge gli attori pubblici con ruoli determinanti nei processi decisionali, le imprese proponenti e il pubblico interessato dovrebbe essere una preoccupazione prioritaria sia della pubblica amministrazione che delle imprese. Bisogna provare a cambiare mentalità ed atteggiamento verso nuove iniziative, nuovi progetti, nuove tecnologie e nuove idee. E’ necessario superare la c.d. sindrome di NIMBY (acronimo inglese per Not In My Back Yard, lett. “Non nel mio cortile”) e l’atteggiamento che si riscontra nelle proteste contro opere di interesse pubblico che hanno, o si teme possano avere, effetti negativi sui siti in cui verranno realizzate, come ad esempio grandi opere pubbliche. L’atteggiamento consiste nel riconoscere come necessari, o comunque possibili, gli oggetti del contendere ma, contemporaneamente, nel non volerli nel proprio territorio a causa delle eventuali controindicazioni sull’ambiente locale. Sarà questa la sfida da affrontare in futuro: aggregare il consenso per opere come i Rigassificatori. Opere che non sono rinviabili nel quadro della razionalizzazione dell’uso delle fonti energetiche intesa come risparmio e riduzione progressivi della dipendenza nazionale da paesi terzi. 2. Il problema dei rigassificatori non è un problema locale, poiché dovrebbe essere inquadrato nelle scelte strategiche che interessano in primo luogo il piano energetico nazionale (PEN). Tale piano, di fatto, è obsoleto e non aggiornato, e nello stesso manca di una visione strategica degli investimenti e delle diverse forme di approvvigionamento del paese (combustibili fossili, idroelettrico, geotermico, eolico, solare e da ultimo nucleare previsto nel programma dell’attuale governo). In merito al fabbisogno di approvvigionamento di gas metano, difatti, non esiste un piano che preveda il numero necessario di rigassificatori ed una corretta pianificazione sull’ubicazione degli stessi. Oggi la pianificazione è fatta dalle società private e lo Stato è soggetto passivo che deve solo esprimersi sulla compatibilità ambientale di detti impianti, senza un intesa tra i vari ministeri (Ambiente, Sviluppo Economico, Economia, Lavori Pubblici, Rapporti Comunitari ecc), denotando, perciò, un deficit di coordinamento. 3. In Friuli Venezia Giulia, esiste un Piano Energetico Regionale (PER) che è stato approvato con Decreto del Presidente della Regione 21 maggio 2007, n. 0137/Pres. (Legge regionale 30/2002, art. 6). In tale piano non sono evidenziate le scelte pianificatorie sulla costruzione in Regione di impianti di rigassificazione e non si fa riferimento specifico alla costruzione di impianti di rigassificazione, che sembra lasciata a "scenari di offerta spontanea" come definiti dal piano. La Regione FVG, al fine di favorire la diversificazione delle fonti energetiche, ha inserito nel Piano Territoriale Regionale (PTR) la possibilità di insediare impianti di rigassificazione all'interno delle zone industriali programmatiche regionali e negli ambiti portuali. Detti impianti non sono previsti dal PER pur non essendo esclusi dal PTR. In base al Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152, i progetti devono essere sottoposti a Valutazione Ambientale Strategica e a Valutazione d'Impatto Ambientale, rientrando gli impianti nell'applicazione del combinato disposto degli articoli 6 e 7 del citato decreto. In particolare: l'art. 25 prevede che la competenza sui progetti di opere ed interventi sottoposti ad autorizzazione statale e per quelli aventi impatto ambientale interregionale o internazionale, spetta al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, di concerto con il Ministro per i beni e le attività culturali; l'art. 26 prevede altresì che il committente o proponente l'opera o l'intervento deve inoltrare all'autorità competente apposita domanda allegando il progetto, lo studio di impatto ambientale e la sintesi non tecnica. Copia integrale della domanda di cui al comma 1 e dei relativi allegati deve essere trasmessa alle regioni, alle province ed ai comuni interessati e, nel caso di aree naturali protette, anche ai relativi enti di gestione, che devono esprimere il loro parere entro sessanta giorni dal ricevimento della domanda. Decorso tale termine l'autorità competente rende il giudizio di compatibilità ambientale anche in assenza dei predetti pareri. Un caso concreto in Friuli Venezia Giulia: il progetto “Zaule” relativo alla costruzione di un impianto di rigassificazione, sito nel Vallone di Muggia, progetto presentato dalla multinazionale “Gas Natural”. Su di esso si sono espressi i seguenti enti: a. Parere Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Soprintendenza prot. n01020/15.0 di data 25.02.2005; b. Conferenza del 19.10.2005 convocata dalla Pianificazione Regionale, Energia, Mobilità e Infrastrutture di Trasporto delle Regione Friuli Venezia Giulia. Enti invitati presenti: Ministero dell'Ambiente - Servizio VIA (Valutazione Impatto Ambientale), Ministero delle Infrastrutture e Trasporti –Capitaneria di Porto, Agenzia delle Dogane, Ministero dell'Interno Vigili del Fuoco, Autorità Portuale di Trieste, EZIT, Comune di Trieste, Provincia di Trieste. Enti invitati assenti:Ministero delle attività produttive, Ministero dei beni culturali - Soprintendenza, Ministero della Salute. (Comune di Muggia non invitato); c. Delibera del Consiglio Comunale di Muggia n° 31 di data 26 maggio 2006 e n2. di data 18 gennaio 2007; d. Delibera del Consiglio Comunale di San Dorligo di data 17 gennaio 2007; e. Delibera del Consiglio Comunale di Trieste di data 18.01.2007; f. Delibera della Giunta Regionale del Friuli Venezia Giulia n01996 di data 25.08.2006. Dai pareri e delibere sopra riportati, si evidenziano la positività o negatività al progetto di cui sintetizzo alcune motivazioni: a. Parere negativo espresso dal Ministero per i Beni e le attività culturali – Soprintendenza prot. n01020/15.0 di data 25.02.2005, con le seguenti motivazioni: degrado paesaggistico, modifiche linee di costa ed anche alla sola costruzione del pontile di attracco delle navi metaniere, illogico sovrapporre ulteriore degrado al degrado esistente; b. Conferenza del 19.10.2005 - Segnalazione del sindaco di Trieste sull'opportunità di invitare alle successive riunioni anche il Sindaco di Muggia. Potrà essere ammesso ma senza diritto di voto. La società proponente illustra il progetto. Il Ministero dell'ambiente fa presente che è propedeutica a qualsiasi attività l'approvazione del piano di bonifica delle aree interessate, che la società non ha presentato formale istanza di VIA al Ministero, precisa inoltre che la VIA dovrà essere eseguita sia per le parti a mare che a terra compreso collegamento gasdotto alla rete nazionale. Dovrà essere inoltre richiesta una variante al Piano Regolatore Portuale, previo assenso del Ministero LL.PP.; c. Le deliberazioni del Comune di Muggia - nn. 31 e 1 datate rispettivamente 26 maggio 2006 e 18 gennaio 2007 - hanno bocciato il progetto onshore di rigassificazione GNL " Gas Natural Intemational SDG" per motivazioni legate a fattori di sicurezza, ambientali, socio economici e a carenze progettuali. La seconda delle due delibere aggiunge la mancanza di tempo necessario per esaminare un così complessa e copiosa documentazione. Per gli stessi motivi le deliberazioni del Consiglio Comunale di Muggia n. 30 di data 26 maggio 2006 e n. 2 di data 18 gennaio 2007 hanno espresso un parere non favorevole al terminale offshore di rigassificazione; d. La delibera del Comune di San Dorligo della Valle ha espresso in data 17 gennaio 2007, all'unanimità parere non favorevole sulla compatibilità ambientale del progetto del rigassificatore della Gas Natural di Zaule. Tra i motivi del "no" vi sono il cambiamento nel progetto che indica in un condotta sottomarina fino a Grado il sistema del trasporto del gas, il perdurare dei timori sulla sicurezza, ma anche la mancanza di tempo per un approfondimento puntuale della documentazione presentata; e. Delibera del Consiglio Comunale di Trieste di data 18.01.2007 in merito alla pronuncia di compatibilità ambientale del progetto – con cui è stato espresso parere negativo con le seguenti motivazioni: progetto carente della "prospettazione del rapporto tra costi preventivati e benefici stimati" (analisi costi-benefici); f. Delibera della Giunta Regionale del Friuli Venezia Giulia n01996 datata 25.08.2006 in merito alla Valutazione d'impatto ambientale - non si esprime parere perche' di non competenza regionale ma si evidenziano al ministero tutta una serie di carenze documentali e progettuali chiedendo integrazioni. Le principali carenze del progetto della Società Gas Natural in esame, riportate nella relazione istruttoria del Servizio Valutazione Impatto Ambientale della Regione riguardano i seguenti punti: • Quadro programmatico: effetti sul versante dell'offerta e dei consumi di gas e quindi sulla contemporanea presenza di altri impianti, sul sottoutilizzo di detti impianti, effetti sul traffico marittimo, ragioni della scelta del sito rispetto ad altre soluzioni, connessioni delle attività di programmazione con sito inquinato, compatibilità con il piano regolatore di Trieste e del Porto, ricaduta sulle attività di pesca, sul turismo e sulla nautica da diporto. • Quadro progettuale:ragioni della scelta sotto il profilo dell'impatto ambientale, analisi dei costi benefici, numero degli occupati nella fase di esercizio, attività economiche esistenti (turismo, pesca, traffici marittimi) per l'intero ciclo di vita dell'impianto proposto. • Quadro ambientale: In generale: attività correlate alla bonifica del sito inquinato a mare e a terra afferente alla realizzazione dell'impianto; Suolo e sottosuolo: posizionamento dei cantieri, impatti causati dalla realizzazione del terminal, provenienze e destinazione dei materiali di risulta (scavi, dragaggi), provvedimenti ed azioni di mitigazione dell'impatto ambientale; Ambiente marino e costiero: descrizione e distribuzione popolazioni ittiche, dati meteomarini del golfo (venti, correnti, geometria della costa, batimetrie, moto ondoso, ecc.), descrizione situazione ex-ante impianto, definizione modello di dispersione scarichi acque clorate, effetti diretti ed indiretti attività a medio-lungo periodo, alternative alla clorazione dell' acqua, impatti sull'ecosistema marino dei dragaggi, impatti sull'ecosistema dovuto alla movimentazione delle gasiere; Atmosfera: dati meteoclimatici, studi approfonditi, descrizione relativa situazione ex-ante, emissioni in atmosfera, ecc.; Rumore: valutazione dell'impatto del rumore, studi ad hoc ai fini della valutazione del progetto, descrizione relativa situazione ex-ante, analisi dei rumori provocati dai cantieri e dal successivo esercizio dell'impianto; Paesaggio: simulazioni visive dell'intero impianto di giorno e di notte, soluzioni mitigatrici; Aspetti relativi alla sicurezza: impatti derivanti dai possibili rischi (tecnologici, di funzionamento nelle fasi di esercizio e manutenzione, atti terroristici, ecc.), anche in correlazione con gli altri impianti esistenti, quantificazione in particolare del rischio derivante dalla collisione delle metaniere con altre navi, indicazione dei sistemi di controllo del traffico marittimo. 4. Il Piano energetico regionale (PER), già citato sul punto 3, è lo strumento di pianificazione primaria e di indirizzo fondamentale per le politiche energetiche regionali. Esso riveste un ruolo di primo piano nello sviluppo socio-economico della regione, e per questo è essenziale il suo raccordo con la programmazione economica regionale. È quindi essenziale che la Regione individui i punti di forza e fissi gli interventi prioritari in materia di energia che forniscano valide indicazioni per una pianificazione integrata delle risorse in una visione d’azione intersettoriale: l’energia è occasione per cogliere le opportunità di crescita del territorio. L’energia, in quanto motore di sviluppo economico e sociale, rappresenta quindi un tema strategico per l’azione di governo del Friuli Venezia Giulia. La liberalizzazione e privatizzazione dei mercati dell’elettricità e del gas, sancita con i decreti “Bersani” del 1999 e “Letta” del 2000, e la progressiva devoluzione di competenze dallo Stato alle Regioni nella logica del principio di sussidiarietà, a partire dalla riforma Bassanini sino a quella costituzionale del Titolo Quinto, hanno inciso in modo significativo e determinante sulla competenza delle Regioni. Con la riforma costituzionale del Titolo Quinto alle Regioni è stato attribuito in materia di energia un ruolo nuovo e attivo, affidando alle stesse la potestà legislativa concorrente su produzione, trasporto e distribuzione nazionale di ogni forma di energia, lasciando allo Stato il potere di legiferare sui principi generali (sicurezza nazionale, concorrenza, interconnessione delle reti, gestione unificata dei problemi ambientali). Le amministrazioni regionali hanno quindi potuto, a seguito di tale nuovo scenario normativo, utilizzare i loro piani energetici come strumenti attraverso i quali predisporre un progetto complessivo di sviluppo dell’intero sistema energetico, coerente con lo sviluppo socio-economico e produttivo del loro territorio. Accanto agli obiettivi iniziali, di incremento e di sviluppo delle fonti rinnovabili e di un uso più razionale dell’energia che spinsero il legislatore nazionale ad istituire, con la legge n. 10/1991, lo strumento dei Piani Energetici Regionali relativi alle fonti rinnovabili, l’avvento della liberalizzazione del mercato, il peso delle questioni relative alla tutela e salvaguardia dell’ambiente, dello sviluppo sostenibile e dei temi del Protocollo di Kyoto, e la devoluzione di competenze energetiche Stato-Regioni hanno determinato l’esigenza di trasformare la programmazione energetica regionale in uno strumento di programmazione strategico e interdisciplinare. Il PER della Regione Friuli Venezia Giulia, approvato con Decreto del Presidente della Regione 21 maggio 2007, n. 0137/Pres. (Legge regionale 30/2002, art. 6), elabora, anzitutto, l'analisi dello scenario energetico regionale attuale, con dati a consuntivo relativi all’anno 2003 sostanzialmente applicabili anche alla data odierna, riguardanti l’offerta di energia relativamente a fonti convenzionali, infrastrutture energetiche e fonti rinnovabili, e la domanda complessiva di energia, con infine un bilancio dell’attuale situazione elettrica regionale complessiva. Viene quindi fornito un completo quadro della disponibilità energetica regionale potenziale relativamente alle fonti convenzionali, alle infrastrutture energetiche e alle fonti rinnovabili sulla base degli studi e delle analisi svolte dai consulenti. Il PER delinea una proiezione dei principali dati energetici in assenza di interventi regionali. Fa una previsione sull’evoluzione del libero mercato energetico tenendo conto dei finanziamenti in corso, regionali, nazionali o comunitari. Vengono quindi definiti gli obiettivi di politica energetica regionale. Per ogni singolo obiettivo strategico vengono individuati i relativi obiettivi operativi e per ognuno di essi vengono individuate azioni. Il Piano passa quindi a delineare una sintesi degli scenari globali di domanda ed offerta (attuale, spontaneo e programmato) mettendoli a confronto. Vengono indicati gli investimenti necessari per la realizzazione di impianti e di interventi energetici programmati, calcolati sulla base della differenza tra le azioni previste nello scenario programmato e quelle relative allo scenario di previsione spontanea. E’ previsto, infine, per ogni tipologia di fonte rinnovabile e per ogni settore di risparmio energetico, una percentuale di incentivazione pubblica al fine di rendere sufficientemente attraente l’investimento privato e al fine di avviare gli investimenti del mercato. Per attuare il Piano secondo gli obiettivi indicati e secondo le azioni selezionate vengono previste specifiche schede di programmi operativi riguardanti gli adempimenti di diverse Direzioni centrali della Regione, competenti per materia. Le schede danno attuazione sia alle azioni di incentivazione pubblica (azioni da scenario programmato), sia alle azioni comunque derivanti dagli obiettivi fissati (azioni derivate). Il PER quantifica l’impatto delle scelte pianificatorie relativamente alle emissioni inquinanti e climalteranti imputabili alle attività energetiche programmate. La Regione, a seguito della liberalizzazione dei mercati elettrico e del gas e del trasferimento di competenze dallo Stato alla Regione, ha avviato un processo di pianificazione energetica che ha portato ad una definizione concertata con associazioni di categoria, sindacati, associazioni ambientali dei principali obiettivi del Piano. 5. L’aspetto di primaria rilevanza per quanto riguarda gli impianti di rigassificazione è quello dei rischi connessi con la loro realizzazione. Per avere un quadro chiaro dei rischi di un impianto di rigassificazione è opportuno, prima di tutto, esaminare le tre direttive “Seveso” sugli incidenti industriali rilevanti. La “Seveso 1” è una direttiva europea che in Italia è stata recepita con il DPR 175 del 1988. Essa ha imposto il censimento degli stabilimenti a rischio, con l'identificazione delle sostanze pericolose. Tra le tipologie degli stabilimenti che svolgono "attività a rischio di incidente rilevante" sono compresi i rigassificatori. Successivamente, con la legge 137/97 (articolo 1, comma 1) è stato introdotto l'obbligo per i sindaci di informare preventivamente la popolazione sulle misure di sicurezza da adottare in caso di incidente. Con la "Seveso 2" (ossia il decreto legislativo 334 del 1999 che recepisce la direttiva comunitaria 96/82/CE), gli obblighi per le attività a rischio di incidente rilevante sono diventati ancora più stringenti imponendo: • per ogni stabilimento a rischio di incidente rilevante la redazione di un piano di prevenzione e di un piano di emergenza; • la cooperazione tra i gestori per limitare l'effetto domino (ossia le possibili "reazioni a catena" fra impianti vicini a rischio di incidente rilevante); • il controllo dell'urbanizzazione attorno ai siti a rischio; • l'informazione degli abitanti delle zone limitrofe; • la costituzione di un'autorità preposta all'ispezione dei siti a rischio. Infine, con la “Seveso 3”, che ha recepito la direttiva europea 2003/105/CE sugli incidenti rilevanti, viene ad aggiungersi l’obbligo di consultare la popolazione interessata per una più efficace redazione dei piani di emergenza e l’introduzione di misure per la salvaguardia di eventuali vie di trasporto presenti nell’area circostante lo stabilimento. Le tre direttive Seveso impongono dunque precisi obblighi da rispettare al fine di prevenire ogni rischio possibile per la costruzione di un impianto di rigassificazione. Tali rischi sono stati ampiamente studiati ed ipotizzati da numerosi addetti ai lavori nel mondo. Fra i tanti studi internazionali cito solo, in questo testo, quello autorevole condotto nel 2003 dalla Commissione Energia della California. 6. I rischi e la loro tipologia, che sono stati sintetizzati nel paragrafo precedente, generano a loro volta il conflitto ambientale. Il conflitto genera il dissenso e il dissenso deve essere riportato a un consenso motivato e partecipato sui progetti della rigassificazione, sulla loro praticabilità e sostenibilità. L’approccio interpretativo ai fenomeni di conflitto ambientale che viene preso come riferimento è quello adottato nelle analisi di carattere generale più rilevanti condotte sulle infrastrutture energetiche in Italia relative al settore elettrico. La natura del conflitto può essere ricondotta a quattro modalità fondamentali che lo caratterizzano: - conflitto di valori; - conflitto di interessi; - conflitto di tipo cognitivo; - conflitto di rapporto. Il conflitto di valori emerge quando si ritiene che la realizzazione di un impianto o la tecnologia adottata ledano qualcosa che non è considerato negoziabile, i casi più tipici sono costituiti dalla minaccia alla salute, alla sicurezza o a particolari valori paesaggistici culturali o naturalistici. In questo caso il conflitto si struttura su elementi profondi che rendono più radicale la contrapposizione e difficile il dialogo tra le parti coinvolte. Il conflitto di interessi mette in evidenza la dimensione economica coinvolta dagli effetti che la realizzazione di un infrastruttura può avere sugli attori presenti nel territorio coinvolto. E’ questo il caso degli effetti negativi sul valore dei patrimoni immobiliari e/o della compromissione delle condizioni che consentono lo svolgimento di determinate attività economiche. Il riconoscimento o meno degli interessi messi in gioco è un elemento che può incidere in modo decisivo sulle relazioni tra gli attori dello scenario di conflitto. Il conflitto di tipo cognitivo caratterizza le situazioni in cui la dinamica conflittuale si fonda sulla mancanza di conoscenza e informazioni circa gli impatti di un progetto. In questo caso le azioni volte a fornire un adeguato livello di conoscenza e informazione a tutti gli attori coinvolti, sulla natura del progetto, possono incidere sulle motivazioni dell’opposizione. Infine, il conflitto di rapporto coinvolge il carattere delle relazioni che intercorrono tra gli attori degli scenari di conflitto in termini di fiducia e credibilità, in particolare quando vi sono dei precedenti negativi nelle relazioni. Questo può essere il caso in cui l’impresa proponente o l’autorità pubblica abbiano precedenti negativi nel fornire informazioni dovute o nel garantire il rispetto delle norme di tutela ambientale. Questi quattro profili nella natura delle dinamiche di conflitto ambientale non caratterizzano in modo esclusivo le situazioni che si presentano concretamente ma sono invece in vario modo compresenti. Saper riconoscere nelle situazioni concrete quanto e come questi profili caratterizzano le relazioni tra i protagonisti degli scenari di conflitto è essenziale per qualsiasi forma di intervento. Per ciò che concerne il rischio e la sua percezione, c ’è da evidenziare che uno degli aspetti più critici che condizionano le dinamiche di conflitto ambientale e che rimanda in larga misura agli aspetti di tipo cognitivo, riguarda la discrepanza che in genere esiste tra il rischio oggettivamente definito (ambientale, sanitario, incidentale) tramite strumenti tecnicoscientifici dal proponente o dalle autorità pubbliche che lo devono valutare, e il rischio soggettivamente percepito da parte del pubblico interessato che diventa protagonista del dissenso. Ancora troppo spesso sia i proponenti che le autorità pubbliche, con funzioni di valutazione tecnico scientifica, ritengono che la mancanza di adeguate conoscenze e strumenti di valutazione del rischio effettivo da parte del pubblico interessato, diminuisca la percezione soggettiva del rischio che viene espressa come motivazione del dissenso. Un tipo di atteggiamento che in genere aggrava le dinamiche di conflitto ambientale compromettendo le possibilità di dialogo. E’ invece fondamentale, sia per l’impresa proponente che per la pubblica amministrazione, comprendere quale sia la percezione soggettiva del rischio legata alla realizzazione di un impianto da parte del pubblico interessato, perché solo così è possibile dare delle risposte ai motivi del dissenso che non hanno fondamento tecnico-scientifico e che alimentano il conflitto. 7. Il problema dell’aggregazione del consenso intorno ai progetti sopradescritti, o meglio il problema politico-sociale, dell’accettabilità sociale, come si può ben comprendere, non è di facile soluzione. La cd. direttiva Seveso 3 aveva messo in luce la necessaria congiunzione tra i progetti relativi ai rigassificatori e la consultazione ed informazione delle popolazioni interessate: trasponendo, o meglio ravvivando e rafforzando a livello del diritto comunitario e nazionale quella nozione di sviluppo sostenibile che non può prescindere dalla partecipazione dall’intervento e dalla stessa presenza fisica dei soggetti che da quei progetti potrebbero trarre dei vantaggi ovvero degli svantaggi. La nozione di sviluppo sostenibile, che viene rapidamente analizzata nel testo finale permette di introdurre anzitutto il concetto di persona umana, e quindi la procedura partecipativa all’interno del discorso, più tecnico, affrontato sinora, nonché la problematica relativa alla aggregazione del consenso. 8. Prendendo a prestito dalla terminologia anglosassone il termine di stakeholders, che si riferisce a quei portatori di interesse che nella teoria della Responsabilità Sociale di Impresa sono i diretti interessati alle decisioni dell’impresa stessa pur non essendone azionisti, ho cercato di ricostruire la nozione di “consenso” in relazione alla costruzione dei rigassificatori, evidenziando limiti e prospettive della partecipazione dei cittadini. In buona sostanza, il tema dell’aggregazione del consenso può essere trattato facendo riferimento al grado ed alla profondità della partecipazione dei cd. stakeholders, e quindi dei portatori di interessi: ad esempio dipendenti delle imprese costruttrici degli impianti e delle imprese che li gestiscono una volta attivi, cittadini delle zone limitrofe, associazioni ambientaliste interessate alla tutela della salute e del paesaggio intaccato da quelle opere. La partecipazione, nell’ambito delle esperienze maturate all’interno dei circuiti dei sistemi democratico-rappresentativi, si svolge per lo più nell’ambito dell’istruttoria procedimentale, secondo gli schemi tracciati dagli istituti di partecipazione disciplinati dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, e secondo alcuni Autori, come si è visto con Crisafulli e Paladin, attraverso ulteriori istituti previsti dalla stessa Costituzione italiana. Tuttavia si tratta di una tipologia di intervento e di partecipazione dei cittadini limitata al momento amministrativo e quindi esecutivo, ovvero al momento indiretto dell’esercizio della sovranità, senza alcuna influenza sul momento realmente politico, di programmazione e decisione generale. La sfida posta dalle dottrine neo-partecipazioniste (definiremmo in questi termini quegli studi che si sono occupati di analizzare i limiti del sistema rappresentantativo) ha a che fare, invece, con l’intervento e la partecipazione dei cittadini interessati, e più in generale dei portatori di interesse ad un altro livello, quello cioè della decisione, del programma, il momento più genuinamente politico. Già da qualche anno la dottrina giuspubblicistica guarda con interesse alle questioni poste dalla cd. democrazia partecipativa e dalla cd. democrazia deliberativa: ragionando astrattamente, però, ho operato una distinzione tra i termini di partecipazione e di deliberazione, soprattutto per quanto riguarda la loro struttura teoretica: è indubbio tuttavia che in entrambi i casi la partecipazione dei soggetti interessati può trasformarsi in una mera ingegneristica del consenso, in grado di favorire decisioni già prese altrove, invece di suscitare una sincera adesione piuttosto che una schietta opposizione dei cittadini, debitamente informati. In questo senso può distinguersi tra una nozione di partecipazione in senso formale ed un’altra, intesa in modo sostanziale. L’intero argomento ovviamente può dar luogo a facili fraintendimenti ed esasperazioni, in quanto la partecipazione, come ho cercato di spiegare, degenera facilmente sino a diventare strumentale e quindi formale. L’aggregazione del consenso e quindi la partecipazione in senso sostanziale dev’essere così sviluppata secondo due direttrici fondamentali: Anzitutto i portatori di interessi devono essere messi in grado di giudicare un progetto di pubblica utilità com’è un impianto di rigassificazione avendo bene in mente gli argomenti a favore e quelli contrari, e ricordando che l’approvigionamento energetico è un tema di primissimo piano in un periodo storico come quello in cui viviamo, condizionato dall’endemica scarsità di materie prime e quindi di energia. In secondo luogo ogni decisione deve essere presa nelle sedi istituzionali opportune, prevedendo una fase all’interno della quale debbano essere obbligatoriamente prese in considerazione le posizioni di tutti gli stakeholders titolati a partecipare attraverso l’iscrizione ad un registro all’uopo predisposto per un periodo di tempo stabilito. Corollari di questa impostazione sostanziale, sono invece i termini di sviluppo sostenibile, cittadinanza e responsabilità: infatti, secondo l’ottica di una partecipazione di tipo politico (e quindi non meramente amministrativa, né formale), l’orizzonte di crescita all’interno del quale quelle stesse decisioni devono essere prese dai portatori di interessi è quello dello sviluppo sostenibile, uno sviluppo cioè concreto ed integrale della persona umana e dell’ambiente in cui si trova a vivere; sviluppo possibile soltanto rivisitando lo statuto di cittadinanza così com’è inteso dal pensiero moderno, rivestendo il cittadino della responsabilità che gli è richiesta per poter veramente prendere parte ad un più ampio sviluppo dell’umanità. 9. In ragione della vicinanza del progetto al confine sloveno, secondo le disposizioni della Convenzione sulla valutazione dell’impatto ambientale in contesto transfrontaliero, fatto a Espoo il 25.02.1991 e dell’articolo 7 della direttiva 85/337, l’avvio della procedura di valutazione di impatto ambientale è stato comunicato con nota del Ministero dell’Ambiente italiano n. DSA/2006/9866 del 31/1/2006 al Ministero dell’ambiente e al Ministero degli affari esteri della Repubblica di Slovenia. A seguito della detta notifica di avvio del procedimento di valutazione dell’impatto ambientale sono state avviate consultazioni con il Ministero dell’ambiente della Repubblica di Slovenia. Nell’ambito delle suddette consultazioni, il Ministero della Repubblica di Slovenia, ha trasmesso le proprie osservazioni e valutazioni sul progetto contenute in un documento intitolato “Rapporto sugli impianti transfrontalieri prodotti dai due Terminali di rigassificazione nel Golfo di Trieste e sulla zona costiera”. In particolare è stato acquisito il parere favorevole con prescrizioni n. 73 del 2008 formulato dalla Commissione tecnica di verifica dell’Impatto Ambientale VIA - VAS successivamente integrato a seguito del proseguimento della consultazione transfrontaliera con il Ministero dell’ambiente della Repubblica Slovena. E’ stato acquisito, altresì, il parere n. 251 del 13.03.2009 formulato dalla Commissione tecnica di verifica dell’Impatto Ambientale VIA – VAS. A seguito della riunione di data 16.06.2009 con le Autorità della Repubblica di Slovenia, la Commissione Tecnica di Verifica dell’impatto ambientale VIA-VAS ha integrato ed aggiornato il quadro prescrittivo del parere n. 251 del 13.03.2009 poi votato in Assemblea Plenaria del 03.07.2009. A conclusione del procedimento in esame il Ministero dell’Ambiente e della tutela del mare, di concerto con il Ministero per i beni culturali, con decreto n. 808 del 17.7.2009 ha pronunciato parere di compatibilità ambientale, con prescrizioni, al progetto presentato dalla Società Gas Natural International SDG su cui è subentrata la Società Gas natural Rigassificazione Italia Spa . Con ricorso numero di registro generale 564 del 2009, nei confronti: - del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare - del Ministero per i Beni e le Attivita' Culturali; - della Regione Friuli Venezia Giulia; - della Societa' Gas Natural Rigassificazione Italia Spa - della Societa' Gas Natural Sdg Sa; - della Repubblica della Slovenia; - del Comune di Muggia; il Comune di San Dorligo della Valle ha chiesto l’annullamento del citato decreto n. 808 di compatibilità ambientale relativo al progetto del rigassificatore di Zaule del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare dd. 17.7.2009. Il TAR Fvg, Sez I, con sentenza n. 167 di data 11 marzo 2010, si è pronunciata in merito, affermando che la materia “rigassificatori”, per la sua rilevanza in relazione alla tutela di pubblici interessi di portata generale e nazionale, oltre che internazionale (posto che coinvolge interessi anche di nazioni vicine), indubbiamente trascende quell’interesse territorialmente limitato che è il presupposto per la competenza territoriale dei singoli Tribunali Regionali. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli Venezia Giulia, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente e ha ritienuto la propria incompetenza e ai sensi dell’art. 41 della L. 99/09 disponendo la trasmissione del fascicolo al competente TAR del Lazio, sede di Roma, per le conseguenti determinazioni, in rito, nel merito e in ordine alle spese.2087 14364 - PublicationDal difensore inquirente al difensore istruttore.Genesi, evoluzioni e involuzioni del diritto di difendersi indagando.(Università degli studi di Trieste, 2008-04-11)
;Lorenzetto, ElisaPresutti, AdonellaABSTRACT A dispetto di un’intitolazione tutt’altro che equivoca, le «disposizioni in materia di indagini difensive», innestate con l. 7 dicembre 2000, n. 397, nel tessuto dei codici di diritto penale – sostanziale e processuale –, introducono nuove prerogative per i soggetti della difesa che vanno ben oltre il riconoscimento espresso della facoltà investigativa, dovendo osservarsi come il tratto saliente dell’interpolazione sia rappresentato dall’estensione al difensore del potere di formazione unilaterale della prova. Innovazione epocale, quest’ultima, che viene attuata quasi in sordina dal legislatore, attraverso una disposizione di collegamento – l’art. 391 decies c.p.p. – che legittima il passaggio delle risultanze difensive attraverso i canali di comunicazione che tuttora intercorrono tra la fase preliminare e il processo, consentendo l’eccezionale trasfigurazione dell’elemento d’indagine in prova. Un autentico potere creativo compete, in perfetta simmetria all’accusatore, anche al difensore, complice un sistema votato negli intenti all’accoglimento del contraddittorio forte per la formazione della prova (art. 111 comma 4 Cost.) ma, di fatto, propenso a darvi attuazione lasciando sopravvivere – nelle ipotesi impossibili, consensuali ovvero inquinate (art. 111 comma 5 Cost.) – il pieno valore probatorio dell’atto di matrice unilaterale. A scontarne gli eccessi, tuttavia, è proprio la dimensione puramente inquirente dell’agire difensivo che sfuma i propri confini sovrapponendosi a inusitate doti istruttorie, delle quali si trova a condividere investiture formali, tassatività di previsioni, rigide forme d’azione e di documentazione nonché il severo regime di sanzioni, processuali e penali, smarrendo l’agilità di movimento che per definizione connota la fase di investigazione. Un effetto anomalo che svilisce il ruolo parziale e privatistico del difensore proprio mentre ritiene di elevarlo a profili pubblicistici di partecipazione – addirittura di collaborazione – con l’amministrazione della giustizia, secondo una combinazione dissonante che condanna il sistema all’insanabile contraddizione. Urge il recupero di una funzione privata, quella difensiva, cui competono nella fase preliminare l’attività di ricerca, in quanto strumentale alla successiva impostazione della strategia – anche probatoria – ovvero l’acquisizione di elementi, da spendere variamente negli incidenti procedimentali, senza soffrire limitazioni o inibizioni derivanti dall’inappropriato riconoscimento di un’attitudine creativa unilaterale in punto di prova. La strada da percorre per pianificare una simile rivoluzione, quindi, non può che snodarsi lungo il versante oggettivo del metodo dialettico, da attuare pienamente attraverso il deciso ripudio del potere di formare unilateralmente la prova ad opera delle parti, unico presupposto cui ancorare un progetto di tendenziale emancipazione del diritto di difendersi indagando. Questa è l’impostazione che si è cercato di imprimere al seguente studio, volto a individuare ragionevoli spazi di liberalizzazione e deformalizzazione dell’agire difensivo, autenticamente inquirente e non più istruttorio. A cominciare dal confronto con l’apparato delle fonti del diritto di difendersi indagando (Parte Prima), articolato nelle sue componenti di principio, normative e deontologiche, la cui evoluzione e stratificazione ha consentito di porre in luce come la genesi del libero potere inquirente privato riposi sull’implicazione oggettiva di sistema che riconosce valore indefettibile al contraddittorio nella formazione della prova, attraverso l’irrigidimento del rapporto tra regola e sue eccezioni e l’ostruzione dei canali che consentono all’elemento unilaterale di essere apprezzato come prova in vista della decisione sul merito dell’imputazione. Particolare attenzione si è dedicata, quindi, alla disamina puntuale del dato normativo attuale (Parte Seconda), tramite la ricognizione e l’esegesi delle singole disposizioni – segnatamente, gli artt. 391 bis e ss. c.p.p., ma non solo – introdotte nel codice di rito dalla nuova legge, ove il dato sorprendente è rappresentato dall’estrema cavillosità che ha accompagnato l’innesto codicistico del “microsistema” delle investigazioni difensive, agli antipodi del libero agire inquirente che dovrebbe potersi riconoscere al difensore. All’evidenza, un ansiogeno horror vacui ha indotto il legislatore a non lasciare sforniti di previsione i molteplici aspetti dell’inchiesta privata, adoperandosi alacremente a disciplinare i profili soggettivi e temporali di legittimazione, le forme d’azione e di documentazione, i canali di presentazione e utilizzazione delle risultanze nonché le patologie sanzionabili in via processuale, penale o disciplinare. Un’opera mastodontica, eppure insoddisfacente. Invero, nella preoccupazione di varare un efficiente statuto di legalità formale, idoneo a sopperire al deficit di genuinità sostanziale che non consentirebbe alla risultanza privata – in quanto unilaterale – di assurgere al rango di prova in giudizio, si è tralasciato di dotare la difesa di incisivi poteri inquirenti nel momento dell’effettivo bisogno, condannando alla sterilità dimostrativa, anche nei contesti procedimentali, i materiali raccolti senza l’osservanza di protocolli formali (art. 391 bis comma 6 c.p.p.). A conferma dell’assunto, si è ritenuto di analizzare gli approdi applicativi cui è giunta – o si prevede perverrà – la prassi giurisprudenziale (Parte Terza), autentiche involuzioni che segnano una drastica battuta d’arresto a quella che avrebbe dovuto rappresentare la sospirata evoluzione del diritto di difendersi indagando. Anomalie, queste utlime, germinate dall’avarizia di un dettato normativo restìo a riconoscere strumenti d’azione efficaci al difensore inquirente ovvero – sul versante opposto – fin troppo generoso nell’approntare lo statuto di legalità formale che supporta l’utilizzabilità processuale della risultanza privata. Eppure irrigidimenti imposti, fin tanto che l’«elemento» investigativo, ancorché unilaterale, è idoneo a valere come «prova» sul tema della responsabilità. Prioritario, quindi, recuperare il massimo tasso di dialetticità del sistema nel momento deputato alla pronuncia sul merito dell’imputazione, restituendo rigidità al rapporto tra metodo dialettico di elaborazione della prova (art. 111 comma 4 Cost.) e sue eccezioni (art. 111 comma 5 Cost.), presupposto indefettibile per progettare un’ipotetica rivoluzione che svincoli da formalismi inadeguati il potere inquirente del difensore (Parte Quarta). Una via, peraltro, che affonda le proprie radici nel dibattito autorevolmente fiorito all’epoca della primordiale iniziativa di riforma che avrebbe condotto all’emanazione del nuovo codice di rito, proseguito altrettanto validamente nei primi anni di vigore del rinnovato modello processuale onde correggere le vistose disfunzioni applicative che ne sconfessavano l’effettiva dimensione accusatoria. Attraverso un tentativo di mediazione tra le diverse soluzioni prospettate, dunque, si è giunti a enucleare alcune linee guida che potrebbero orientare un’opera ragionata di emancipazione del diritto di difendersi indagando, suddividendo i diversi gradi di intensità attribuibili all’agire investigativo nelle fasi della ricerca, dell’acquisizione di elementi nonché della precostituzione della prova, limitata ai casi di ontologica impossibilità originaria di ripetizione ovvero alla procedura incidentale di elaborazione dialettica anticipata. Un programma di liberalizzazione che, si vedrà, sfuma alquanto la propria autonoma portata innovativa al cospetto con il presupposto primo che ne legittima l’attuazione: il ripudio generalizzato del potere di formazione unilaterale della prova, culla autentica in cui riposa ogni idea di rivoluzione.1632 13103 - PublicationData protection law: recent developments(Università degli studi di Trieste, 2010-04-26)
;Kasneci, DedeHattenberger, DorisPrivacy and data protection concern everyone and are issue of profound importance around the World. Privacy has been hailed as “an integral part of our humanity” the “hart of our liberty” and “the beginning of all freedoms” (Solove, 2008). Given its importance, privacy is recognized as a fundamental human right according to many International Instruments such as: the United Nations Universal Declaration of Human Rights of 1948 (Article 12), International Covenant on the Civil and Political Rights (Article 17) The European Convention of Human Rights of 1950 (Article 8), the Charter of Fundamental Rights of the European Union of 2007 (Article 8) and the Treaty of Lisbon of 2008 (Article 16 of the TFEU). However, beyond this worldwide consensus about the importance of privacy and the need for its protection, there is difficulty to conceptualize the privacy. Privacy is a contested legal concept, with several understandings and more misunderstandings. Privacy is actually shorthand for a complex bundle of issues, ranging from dignity to discrimination, and rooted in our need to control what we tell others about ourselves. The main difficulty to reach a satisfying conceptualization of the privacy is that there are some eternal privacy tensions, namely, the interests protected by privacy and data protection laws are inherently in conflict with other legitimate interests such as the freedom of speech, public security and the free flow of information. While, it is impossible to belong to a community and withhold all data, the collection and the processing of our data carry with it many risks and dangers. One such risk is that the data will be abused by those who access it, either by authorization or not. Data which was consensually provided for one purpose might be used against us in a different context. Other privacy tensions are driven by technology which gave rise to the emergence of the data protection law: the falling cost of data storage and communication makes it easier for merchants and governments to collect more data on people and thus to become more efficient to violate the privacy. The development of the Computer technology in the 1960’s and 1970’s and the enormous potential of the digital revolution made the civil libertarians worry. The nightmare of all-seeing, all-knowing “Big Brother” of George Orwell’s “1984” did not belong anymore to the realm of the fiction, but was a reality. And as the enormous potential of the digital revolution became more apparent and together with it the dangers posed to privacy, so the calls for the specific measures to protect individuals became louder. The data protection rules originally developed, at national level in the 1970s, as a response to the threats posed to the privacy by the technological developments of the 1960s and 1970s. It emerged as a new legal field, separate from the privacy law but dependent upon it. The task of the personal data law is to provide a legal framework which is capable of reconciling the needs and interests of those who make use of personal data (data controllers or data processors) with those of persons to whom these data relate (data subjects). Europe has proven to be the leader in protecting privacy and personal data of the individuals in the digital age. At the EU level, the first legal instrument in this field was Data Protection Directive, which was passed in 1995 to harmonize national data protection laws within the European Community, with the aim of protecting the fundamental rights and freedoms of individuals including their privacy and personal data. After 15 years the question is whether the Data Protection Directive 95/46/EC fit the objectives for which it was adopted in 1995. The European Commission considers that the Directive 95/46/EC fulfils its original objectives and therefore does not need to be amended. This thesis questions this static approach of the European Commission to the data protection regime and argues that the increasing pressure on privacy due to the development of privacy destroying technologies and the growing use of and demand for personal information by public and private sectors, requires quick legal answer and constant change of the data protection legislation. The research carried out for this thesis shows that, over time the social and regulatory environment surrounding the creation, management and the use of personal data has evolved significantly since the adoption of the Directive 95/46/EC. The Directive is showing its age and is failing to meet the new challenges posed to privacy by factors such as the huge growth of personal information on line and the growing availability and ability of the new technologies to process, use and abuse personal information in many ways. These factors have challenged the means and the methods used by Directive to protect personal data and have altered the environment for the implementation of the Directive. Thus, it is clear that the context in which the data protection Directive was created has been changed fundamentally and certain basic assumptions of the Directive have already been challenged in approach, in law and in practice. All these factors show that the Directive is out of touch to meet the technological, social and legal challenges of 21st century and therefore need to be reviewed and amended.2165 4463 - PublicationDIRITTO ALL'INFORMAZIONE SULL'ACCUSA E PROCESSO PENALE(Università degli studi di Trieste, 2009-04-02)
;Tagliani, Ida ;Bernasconi, AlessandroBernasconi, AlessandroE’ rintracciabile, nell’attuale sistema processualpenalistico, un paradigma del diritto alla “informazione sull’accusa”, quale consacrato nell’art. 111 comma III Cost.? La risposta a simile quesito – cui si propone di giungere la presente ricerca – impone di saggiare gli istituti funzionali, nella fase investigativa, a concretizzare tale diritto alla luce del connotati del “giusto processo”, mediante un duplice percorso che, per un verso, esplora la possibilità di reductio ad unum dell’apparato informativo e, per altro verso, ne sonda il grado di effettività. L'opera si articola nelle tre parti di seguito illustrate. La prima sezione è dedicata alla definizione del concetto di “diritto all’informazione sull’accusa” nella teoria delle fonti. Il primo capitolo è dedicato alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e al Patto internazionale sui diritti civili e politici che, per primi, hanno configurato una organico modello di fair trial, ove il diritto all’informazione sull’accusa partecipa della duplice natura di precipitato del diritto di difesa e presupposto per l’esercizio, all’interno del processo, delle singole facoltà difensive. A fronte della laconica previsione dell’art. 6 § 3 lett. a CEDU – che, al pari dell’omologa disposizione contenuta nell’art. 14 § 3 lett. a ICCPR si risolve in una mera enunciazione dei caratteri della comunicazione –, si impone la ricostruzione del paradigma informativo attraverso l’analisi della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. La giurisprudenza di Strasburgo affronta la tematica senza atteggiamenti preconcetti e sviluppa un modello di informazione, per un verso, dinamico e duttile, atto a modularsi attraverso le diverse fasi procedimentali, e, per altro verso, conforme ai canoni della tempestività e della efficienza. A tal fine, il concetto stesso di accusation, cui il diritto all’informazione è ancorato, non pare postulare formule o atti sacramentali, ma si traduce nella attività dell’organo inquirente che, nel caso concreto, sia abbia a determinare «ripercussioni importanti» sulla sfera personale della persona sottoposta alle indagini: l’avvio del procedimento, l’iscrizione della notizia di reato, l’esecuzione di una perquisizione o di un sequestro. Il secondo capitolo è dedicato alla definizione del diritto all’informazione sull’accusa all’interno della nostra Carta costituzionale, muovendo dalla sua “archeologia”. Invero, sin dai primi anni ’60, la dottrina e la giurisprudenza si sono interrogate in ordine alla possibilità di enucleare un modello di fair trial dalle disposizioni contenute nella Costituzione. Lo sforzo euristico degli interpreti si è inizialmente incentrato sull’art. 24 Cost., fino a giungere, nel 1996, all’esplicitazione, ad opera della giurisprudenza costituzionale, di un canone del “giusto processo” quale formula scaturente dal coordinamento dei «principi che la Costituzione detta in ordine tanto ai caratteri della giurisdizione, sotto il profilo soggettivo e oggettivo, quanto ai diritti di azione e difesa in giudizio». Parallelamente al consolidarsi di una via costituzionale ante litteram al due process of law, si assiste al progressivo manifestarsi dell’influenza delle norme contenute nelle convenzioni internazionali in materia di diritti della persona e processo penale. Simile fenomeno – che intreccia la tematica del rango rivestito, nella gerarchia interna delle fonti, dalle disposizioni pattizie – assume particolare rilievo nelle pronunce della Consulta, ove l’art. 6 § 3 CEDU viene evocato, con crescente frequenza, quale parametro “ausiliario” nel giudizio di conformità delle norme subordinate alla Costituzione. L’escalation culmina, nel 1987, con l’inserzione dell’ossequio ai principi enunciati nelle convenzioni internazionali di riferimento tra i criteri direttivi atti guidare, ai sensi dell’art. 76 Cost., il legislatore delegato alla redazione dell’attuale codice di procedura penale. La questione della diretta precettività, nel nostro ordinamento, delle norme pattizie – elette a principio informatore del codice di rito – viene, peraltro, messa in secondo piano dalla introduzione, ad opera della l. cost. n. 2 del 1999, della disciplina del giusto processo nel tessuto costituzionale. In controtendenza rispetto alla concezione “minimalista” postulata dai giudici costituzionali, da ultimo, con la sentenza n. 361 del 1998, il legislatore del 1999 introduce, nell’art. 111 Cost., un concetto “forte” di contraddittorio, che partecipa della duplice natura di canone oggettivo di esercizio della funzione giurisdizionale, in quanto fulcro del giusto processo, e di garanzia soggettiva operante nell’ambito penale. La centralità del diritto di contraddire consente di attribuire spessore teleologico alla prerogativa, riconosciuta a ogni persona sottoposta a procedimento, di essere informata, nel più breve tempo possibile e in via riservata dell’accusa elevata a suo carico: si attua in tal modo quel “diritto a difendersi conoscendo” che costituisce imprescindibile prodromo per imbastire qualsivoglia tutela processuale delle ragioni dell’imputato. Esaurita la disamina dei principi, la ricerca si impernia sulla ricognizione della fenomenologia informativa nell’attuale sistema codicistico, con riferimento a quegli istituti che sono funzionali a consentire la conoscenza “sul processo” e “nel processo” nella fase investigativa, che, sulla scorta dell’esegesi operata sull’art. 111 comma III Cost., costituisce la naturale sedes materiae del diritto all’informazione sull’accusa. Viene in rilievo l’istituto della informazione di garanzia, funzionale nell’impianto originario del codice di rito, a squarciare la segretezza investigativa con una seppur embrionale parentesi di discovery connessa all’espletamento di un atto cui il difensore abbia diritto ad assistere. Lo strumento informativo in argomento permette di focalizzare l’attenzione sul canone della riservatezza, oggetto di positivo richiamo da parte dell’art. 111 comma III Cost. Dotato di un requisito interno atto, in tesi, a consentire il massimo riserbo – ossia l’invio mediante piego chiuso raccomandato – l’istituto in argomento ha patito, nei primi anni novanta, una sistematica strumentalizzazione che, da presidio di garanzia per la persona sottoposta alle investigazioni quale era stato concepito, l’ha trasformato in veicolo di condanna anticipata. Il conseguente tentativo, operato dal legislatore del 1995, di restituire respiro all’informazione di garanzia ha, invece, finito per comprimere il diritto della persona indagata alla conoscenza della sussistenza di un’investigazione a suo carico attraverso la compressione dell’ambito di operatività dell’art. 369 c.p.p. Contestualmente alla modifica della disciplina dell’informazione di garanzia, in una logica di “pesi e contrappesi” si è inteso recuperare uno spazio di discovery mediante la modifica della disciplina del registro delle notizie di reato, regolato dall’art. 335 c.p.p., il cui accesso, nella lettera originaria del codice di rito, era interdetto sino alla formulazione dell’imputazione. Il riconoscimento del diritto della persona cui il reato è attribuito di ricevere comunicazione delle iscrizioni a proprio carico non ha, invero, sortito un effetto compensativo, atteso che la disciplina dell’accesso – lungi dal configurare una inviolabile prerogativa – patisce due testuali eccezioni. La prima, connessa alla tipologia della notitia criminis, è funzionale ad interdire ex ante la conoscibilità delle iscrizioni relative a procedimenti che abbiano ad oggetto reati di particolare gravità. La seconda è ricondotta al potere, attribuito al pubblico ministero, di secretazione delle inscrizioni in presenza di specifiche esigenze investigative. In una logica di disorganica stratificazione degli istituti, nel 1999 – dopo il fallimento dell’esperienza della contestazione della “imputazione provvisoria” di cui alla l. n. 234 del 1997 – fa il suo ingresso, sulla scena processuale, l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, ai sensi del quale si onera il pubblico ministero, nell’ipotesi in cui non intenda richiedere l’archiviazione, di provvedere, a pena della nullità del successivo atto di esercizio dell’azione penale, di notificare alla persona sottoposta alle indagini un’informativa in cui l’ostensione degli atti di indagine si coniuga al riconoscimento di un corredo di facoltà difensive. L’avviso in argomento, contrariamente agli auspici del legislatore, lungi dall’attestarsi quale strumento principe per l’attuazione del diritto all’informazione sull’accusa, si è rivelato un «garanzia incompiuta» che, seppur dotata dei requisiti della comprensibilità e del dettaglio, contraddice il richiamo al «tempo più breve possibile», in tal modo deprivando il suo destinatario (anche) del beneficio della fruizione del tempo e delle facilitazioni necessarie per la predisposizione della strategia difensiva. A tale aporia funzionale si assomma la progressiva compressione, anche sulla scorta dell’esegesi giurisprudenziale, dell’ambito di operatività dell’istituto che, pertanto, non è idoneo a fungere da paradigma del diritto all’informazione sull’accusa. Dopo una breve analisi della disciplina dell’informazione sul diritto di difesa, regolato dall’art. 369-bis c.p.p., e sugli strumenti informativi operanti nel procedimento per l’accertamento della responsabilità amministrativa degli enti dipendente da reato (d.lgs. n. 231 del 2001), il presente lavoro si chiude con un bilancio sulla funzionalità dell’apparato informativo configurato nel codice di rito penale alla concretizzazione del principio consacrato nell’art. 111 comma III Cost. Sul profondo deficit della strumentazione – al di là della mancata rispondenza ai singoli connotati della tempestività, del dettaglio e della riservatezza – pare pesare la carenza di organicità nell’affidare l’attuazione del diritto all’informazione ad una pluralità di istituti privi di coordinamento e suscettibili di applicazione solo eventuale.2165 9237 - PublicationIl diritto penale europeo a tutela dell'ambiente(Università degli studi di Trieste, 2010-04-16)
;Campeis, Carlotta ;Pittaro, PaoloPittaro, PaoloLo studio si prefigge di indagare come la produzione normativa comunitaria abbia influenzato il diritto penale nazionale fino a delineare i tratti di un diritto penale di matrice europea. Ai fini dell’individuazione dei rapporti intercorrenti tra i due sistemi, è stata prescelta come chiave di lettura trasversale la materia ambientale. L’introduzione mira a porre le basi dell’analisi, ripercorrendo, seppur in forma riassuntiva le tappe dell’evoluzione dell’Unione europea, sotto il profilo del progressivo ampliamento delle finalità e delle competenze della stessa: nata con finalità prevalentemente economiche, quali la creazione di un mercato unico diretto alla libera circolazione delle merci, delle persone e capitali, l’Unione espanse le sue competenze verso la creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, inaugurando nuove forme di cooperazione, prefissandosi finalità politiche generali e servendosi per questi fini di un solido quadro istituzionale. Al progresso economico e sociale, alla creazione di uno spazio senza frontiere interne ed ad un’unione monetaria si affiancò la prospettiva di una politica estera di sicurezza e di difesa comune, di una tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini dei suoi Stati membri, mediante una cittadinanza comune dell’Unione, nonché di una cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni. A fianco delle politiche comunitarie (primo pilastro) attuate per mezzo di una cessione di sovranità dei singoli Stati a vantaggio delle Istituzioni europee, sorsero nuove forme di cooperazione, di natura intergovernativa, in materia di politica estera e di sicurezza comune (secondo pilastro) e di giustizia e affari interni (terzo pilastro), poi mutata in cooperazione di polizia giudiziaria in materia penale. La nascita e l’espansione delle Comunità Europee fece emergere, svilupparsi ed affermarsi una serie di beni giuridici meritevoli di tutela su più livelli, a carattere nazionale e sovranazionale. Se ne distinguono principalmente due categorie: i beni “istituzionali”, c.d. comunitari, strettamente funzionali all’esistenza dell’Unione ed allo svolgimento dei compiti ad essa connessi, ed i beni “satellite” rispetto ai precedenti, c.d. di estensione comunitaria, originariamente tutelati dagli ordinamenti nazionali e solo recentemente attratti nei piani di tutela comunitaria, con la caratteristica di essere beni “normativi” e connessi ad un sistema giuridico di riferimento ma destinatari di una tutela integrata da parte del diritto comunitario derivato. Trova poi posto una nuova categoria di beni, nascenti dalla regolamentazione comunitaria e comprendente i diritti derivanti dalla cittadinanza comunitaria, il diritto di circolazione e soggiorno, nonché la tutela del consumatore e dell’ambiente. La domanda di tutela dei beni di rilevanza comunitaria si trasforma inevitabilmente in una richiesta di intervento effettivo che comprende, in base ad una valutazione qualitativa, di sussidiarietà, di meritevolezza della pena e di necessità della stessa, anche ipotesi di tutela penale. Infatti, la “necessità di pena” in queste ipotesi deve essere intesa quale necessità di pena sovranazionale, ai fini di evitare un inefficace e disarmonico intervento rimesso agli Stati. Un tanto ha portato nel corso degli anni ad una europeizzazione dei diritti penali nazionali, vincolando le scelte dei legislatori interni in ordine ai comportamenti da sanzionare, alla natura ed alla misura della sanzione, nonché alla prospettiva di un diritto penale europeo, che conferisse all’Unione, e poi anche alla Comunità, un effettivo e diretto potere di intervento. Ne è esempio il bene ambiente che si caratterizza per una significativa “bidimensionalità”, possedendo rilevanza nazionale e sovranazionale e rientrando peraltro tra quei beni di rilevanza comunitaria per cui si richiede una efficace ed uniforme tutela. L’interesse giuridico in questa direzione si rinviene nella comunanza dei tipi di condotte illecite che pongono in pericolo o ledono il bene giuridico tutelato. Tali condotte sono la fonte dei c.d. spillowers o effetti transnazionali, eventi in senso naturalistico o giuridico che si riverberano all’interno dei paesi della Comunità Europea, senza che operino barriere politico-geografiche di sorta. Le conseguenze fisiche ed economiche che una tale criminalità transnazionale porta con sè rende necessario un intervento comunitario, non risultando invece efficace né possibile l’intervento del singolo Stato membro. E’ per tali motivi che il diritto ambientale ha avuto anche storicamente una dimensione in primis internazionale ed europea e solo successivamente nazionale. La tutela ambientale ha rappresentato una costante dell’azione della Comunità che ha consentito una progressione verso la normativizzazione in materia ambientale, inizialmente attraverso convenzioni, decisioni quadro, regolamenti e direttive, poi in misura sempre più vincolante a livello dei Trattati, divenendo con il Trattato di Maastricht politica fondamentale dell’Unione e con Amsterdam un valore autonomo, indipendente dalle scelte economiche. L’interesse crescente a livello europeo e comunitario ha contribuito all’implementazione e all’armonizzazione delle normative nazionali, destinatarie degli impulsi di sensibilizzazione e di orientamento verso obiettivi comuni di tutela. La normativa interna ne ha subito gli influssi, presentando fattispecie costruite tramite il rinvio, in forma definitoria o di completamento, di norme extrapenali di derivazione comunitaria. Un tale meccanismo normativo, pur consentendo un agevole mutamento della norma penale, ha posto di fronte a problemi interpretativi e di legittimità costituzionale, le Corti nazionali ed europee. L’influenza comunitaria si è fatta ancora più evidente nella misura in cui le Istituzioni europee hanno formulato una specifica domanda di criminalizzazione, nella formulazione del precetto e della sanzione, aprendo il varco alla prospettiva di un vero e proprio diritto penale europeo. Sotto queste premesse, il primo capitolo si propone di indagare se, nonostante l’assenza di un’affermazione sulla potestà punitiva comunitaria possa esistere un’influenza dell’attività normativa delle Istituzioni europee nella formazione del precetto e della sanzione penale. Si prendono le mosse dall’attività di una cooperazione giudiziaria in materia penale”, attuata attraverso “posizioni comuni” ed “azioni comuni” e la cooperazione in materia penale, nell’ambito, c.d. Terzo pilastro, che, seppure distinto da quello propriamente comunitario, rientra a pieno titolo nelle competenze dell’Unione europea. Gli strumenti del terzo pilastro sono espressivi di un sistema misto, lasciando ad ogni singolo Stato un ulteriore livello di discrezionalità sia nella fase della firma e della ratifica, con riserve o eccezioni, sia nella fase successiva alla sua adesione, consentendo la scelta di mezzi funzionali al raggiungimento del risultato, e rispettando così il principio di riserva di legge e di sovranità nazionale. Ma gli strumenti utilizzati, la mancanza di diretta efficacia degli stessi, la discrezionalità nella fase attuativa e il carattere facoltativo della competenza pregiudiziale della Corte di Giustizia, hanno reso progressivamente necessario, o quantomeno auspicabile, nelle materie comunitarie in senso proprio, un intervento più cogente, con capacità di penetrazione nell’ordinamento interno e prerogative giurisdizionali affidate alla Corte di Giustizia, azionabile solo con gli strumenti del primo pilastro. Si ripercorrono, dunque, le tappe essenziali in base alle quali viene affermato e riconosciuto il principio di prevalenza dell’ordinamento comunitario, al quale, neppure il diritto penale, con la sua forza di resistenza, risulta impermeabile. Si è di fronte a due ordinamenti coordinati ma autonomi e separati per cui l’ordinamento comunitario è considerato come integrato negli ordinamenti giuridici degli Stati membri, con la conseguente impossibilità per gli Stati membri di far prevalere contro un ordinamento giuridico da essi accettato a condizione di reciprocità, un provvedimento unilaterale ulteriore. Vi è dunque una modifica de facto dell’assetto costituzionale delle fonti del diritto, risultando una ritrazione degli ambiti normativi di pertinenza dell’ordinamento interno ed una contestuale affermazione di alcuni ambiti propri invece dell’ordinamento comunitario. La prevalenza del diritto comunitario deve però conciliarsi con il principio di legalità in quanto la valenza garantistica del principio, derivante dall’attribuzione all’organo democraticamente eletto del potere di individuare le condotte da sottoporre a pena, non risulta adeguatamente rispettata dall’attribuzione di una potestà penale ad un’entità, quale la Comunità, il cui assetto istituzionale ed operativo non soddisfa a pieno i criteri di democraticità e rappresentatività che tale potestà esige. Dal punto di vista nazionale, il mancato rispetto del principio di legalità, sotto l’aspetto della riserva di legge e di quello della determinatezza si pone come ostacolo primo all’applicazione diretta delle norme comunitarie al fine di comminare una sanzione penale: la potestà punitiva è sempre stata soggetta al rispetto dei limiti del principio di legalità nelle forme della riserva di legge e tassatività e non può cedere neppure di fronte agli interventi normativi diretti o riflessi della Comunità. La conclusione che sembra soddisfare tutte le istanze e conciliare le problematiche nascenti dall’incontro dei due sistemi punitivi, deve ricercarsi in una tutela mediata degli interessi, assicurata tramite l’intervento dell’apparato sanzionatorio degli Stati membri. Infatti, le fisiologiche lacune di tutela dell’ordinamento comunitario che appare sprovvisto di autonomi strumenti di tutela idonei ad assicurare il corretto funzionamento risultano colmate dal ricorso alle risorse sanzionatorie degli Stati membri che vengono chiamati a mettere il proprio sistema giuridico al servizio delle esigenze di tutela degli interessi dell’ente sovranazionale. Il diritto penale subisce, dunque, alla pari di tutti gli altri settori normativi, gli effetti scaturenti dal processo di integrazione europea fondanti sul principio di prevalenza e diretta efficacia del diritto comunitario. Allo stato attuale, ciò che può essere definito come diritto penale europeo, dunque, è caratterizzato “dall’incontro tra il principio di prevalenza del diritto comunitario e quello di riserva di legge del diritto penale, che determina un universo giuridico paradossale, composto per un verso da norme, quelle comunitarie, prevalenti ma incompetenti e per altro verso da altre norme, quelle penali nazionali, competenti in via esclusiva ma subordinate alle prime”. Ad una domanda espressa del diritto comunitario a tutela dei beni creati dalle sue attività, deve corrispondere un’offerta di tutela del legislatore nazionale, formando in tal modo un diritto penale comunitario risultante dalla stratificazione di più livelli normativi. Nonostante le problematiche sottese all’intervento penalistico, non si può negare come si sia attuata una progressiva armonizzazione delle sanzioni nel quadro europeo, in seno alle organizzazioni internazionali, nell’ambito del terzo pilastro e dunque, nella sede comunitaria. In questo ambito la prima armonizzazione è avvenuta ad opera dell’attività creatrice della giurisprudenza, e solo successivamente a livello normativo. La Corte ha incrementato la domanda di tutela fino a giungere, non solo alla richiesta di sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive ma anche di natura penale. La rivoluzionaria sentenza del 13 settembre 2005 ha legittimato, infatti, una competenza normativa comunitaria in materia penale, prevedendo la possibilità di una domanda esplicita di tutela penale per mezzo di direttive. L’assenza di una specifica indicazione in merito alla scelta del contenuto delle prescrizioni penali ha lasciato che si sviluppasse, in seno alla Commissione, l’idea che la Comunità potesse giungere fino ad indicare misura e specie delle sanzioni, vincolando il legislatore nazionale in limiti edittali predeterminati. E’ però la Corte di Giustizia, in una successiva statuizione a chiarire il punto e specificare che il contenuto delle direttive oltre a segnalare agli Stati l’opzione della tutela penale in talune materie di rilevanza comunitaria, ed a descrivere i requisiti costitutivi delle fattispecie incriminatrici, garantendo uno standard di tutela penale, non possa giungere a stabilire la tipologia delle sanzioni penali e i correlativi minimi e massimi edittali. Riassumendo la questione ai minimi termini si può affermare che l’Unione europea diviene definitivamente competente a svolgere il giudizio di necessità di pena, ma non ad esercitare la potestà punitiva, concezione accolta anche dal neonato Trattato di Lisbona. Il secondo capitolo si occupa quindi di indagare quale sia la risposta nazionale a fronte della domanda operata in sede comunitaria e dunque di delineare quali mutamenti operino a livello normativo penale. Si distingue a tal proposito tra l’influenza diretta e l’influenza riflessa. La prima consiste in quegli obblighi di criminalizzazione espressa a cui l’ordinamento ha dato ingresso solo recentemente al fine di tutelare beni ed interessi riconducibili alla Comunità europea, con provvedimenti vincolanti e precisi. L’attività normativa comunitaria così strutturata condurrebbe alla creazione di vere e proprie norme incriminatrici e disposizioni sanzionatorie di produzione sovranazionale direttamente applicabili nell’ordinamento interno. Si è già sottolineato come questo rappresenti però il punto più problematico, nell’affidare ad Istituzioni non democraticamente elette il potere punitivo, tradizionalmente detenuto dallo Stato nazionale. Si ritiene che possa ricomprendersi nell’influenza lato sensu diretta anche quell’attività normativa di natura comunitaria che si concretizza in obblighi di criminalizzazione, sia a livello del precetto che della sanzione, contenute in atti vincolanti, seppur non direttamente efficaci. Le ipotesi di influenza riflessa, invece, indicano tutte quelle interferenze che non sono perseguite come scopo primario dal diritto comunitario ma che ugualmente si producono, senza alcun intervento dei legislatori nazionali, in forza del normale incontro del diritto sovranazionale col diritto penale interno. Il fondamento dell’efficacia riflessa è da rinvenire nel principio di preminenza del diritto comunitario secondo cui “le disposizioni del Trattato e gli atti delle Istituzioni, qualora siano direttamente applicabili, hanno l’effetto, nei rapporti col diritto interno di rendere ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, nonchè di impedire la valida formazione di atti legislativi nazionali, nella misura in cui questi fossero incompatibili con norme comunitarie”. Spetterà, dunque, a qualsiasi giudice nazionale “applicare integralmente il diritto comunitario e tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, disapplicando le disposizioni eventualmente contrastanti della legge interna, sia anteriore, sia successiva alla norma comunitaria”. Il primo tipo di influenza riflessa del diritto comunitario è rappresentato dall’influenza c.d. interpretativa che, proprio in forza del principio del primato del diritto comunitario, comporta che il diritto interno debba essere interpretato conformemente alle fonti comunitarie: il giudice, dunque, ravvisato un contrasto tra norme nazionali e disposizioni comunitarie ha la facoltà di risolverlo, ricercando un’interpretazione comunitariamente conforme della norma nazionale senza giungere alla disapplicazione della stessa. Il secondo aspetto di incidenza riflessa del diritto comunitario sul diritto penale è da rinvenirsi negli elementi normativi della fattispecie. Vi è, infatti, l’ipotesi che le norme extrapenali che integrano la fattispecie punitiva nazionale siano norme comunitarie, antecedenti o successive alla norma nazionale: in tal modo la normativa interna subisce un processo di influenza comunitaria in forza della definizione degli elementi normativi da parte della norma sovranazionale. La normativa comunitaria, sostituendosi o integrando la normativa extrapenale richiamata ai fini definitori può determinare una diversa estensione dell’incriminazione. La forma maggiormente incisiva di influenza è operata in forza dell’integrazione ad opera della fonte comunitaria che, a fronte della tecnica del rinvio, completa con elementi specializzanti il precetto nazionale. Nell’ambito degli effetti riflessi del diritto comunitario, l’intervento maggiormente incisivo sul diritto interno è esercitato dall’influenza disapplicatrice, promanante da un’incompatibilità a livello normativo tra diritto interno e diritto comunitario. In forza del principio di prevalenza dell’ordinamento comunitario sull’ordinamento interno, è ormai consolidato che le norme interne, e, dunque, anche le fattispecie penali, debbano essere disapplicate se in contrasto con gli atti comunitari, dotati dei requisiti di efficacia diretta e di diretta applicabilità. In presenza di due norme contemporaneamente applicabili ed in contrasto tra di loro, il giudice nazionale dovrà procedere alla disapplicazione della norma interna contrastante così operando una vera e propria modifica dell’ambito del penalmente rilevante. La disapplicazione produce, pertanto, il risultato di riplasmare e comprimere in maniera significativa gli ambiti del penalmente rilevante. Il contrasto della norma interna può derivare dall’incompatibilità con norme o principi, espliciti o impliciti, a carattere generale, con fonte nel diritto comunitario primario, sia con disposizioni più o meno specifiche, contenute in atti di diritto comunitario derivato, quali regolamenti e direttive chiare, precise, dettagliate e incondizionate. La disapplicazione può coinvolgere il precetto o la relativa sanzione e può essere di carattere totale, causando un’integrale inapplicabilità della fattispecie, o parziale, comportando l’incompatibilità solo di alcune fattispecie o soluzioni sanzionatorie. Ed ancora, la disapplicazione può produrre effetti riduttivi o espansivi del penalmente rilevante: nel primo caso la norma sovranazionale che riconosce un diritto, una facoltà legittima al cittadino, opera come esimente, riducendo l’area di applicazione della fattispecie sanzionatoria, diversa è l’ipotesi in cui l’influenza, ancora discussa su tal punto dell’ordinamento comunitario, comporti un’espansione dei comportamenti penalmente rilevanti. Più problematici risultano quelli che autorevole dottrina definisce “conflitti triadici” ove una norma nazionale in attuazione di un principio comunitario sia sostituita da una successiva norma nazionale più favorevole ma in contrasto con gli obblighi comunitari. Il contrasto tra la norma comunitaria e la norma nazionale sopravvenuta ha come effetto, in queste ipotesi, di provocare l’applicazione di un’altra norma nazionale e non la diretta applicazione della norma comunitaria, sprovvista di effetti diretti. Il terzo capitolo giunge infine al fulcro del problema trattando la materia ambientale come il fil rouge che consente di ripercorrere l’evoluzione del diritto penale europeo ed indagare sulle prospettive di un possibile intervento penale da parte degli organi comunitari. L’intervento europeo, proprio per la trasversalità della materia ambientale, si è manifestato con differenti intensità: a seconda dello strumento normativo prescelto è variata la discrezionalità lasciata agli Stati nell’attuazione delle previsioni comunitarie. La normativa europea ha, quindi, interessato anche il diritto penale nazionale, nell’ambito della costruzione della fattispecie ambientale, operando in chiave sanzionatoria di condotte definite altrove. La fonte sovranazionale, sia pure a mezzo del legislatore nazionale, contribuisce a delineare il nucleo di disvalore della fattispecie, in particolare quella ambientale eterointegrata da fonti di natura tecnicistica, e pertanto costantemente soggetta ai mutamenti normativi ed alle indicazioni delle Istituzioni comunitarie. Un tanto ha condotto ben presto ad affrontare numerosi problemi interpretativi, di compatibilità tra norme così ad evidenziare la costante incidenza degli effetti riflessi esercitati dal diritto comunitario sul diritto nazionale. Infine, di primario interesse, anche in un’ottica de iure condendo, sono gli effetti diretti, progressivamente più incisivi, che a partire dal perseguimento della finalità di armonizzazione dei sistemi penali con gli strumenti del terzo pilastro, hanno aperto un varco ad un sistema di tutela rafforzato a livello strettamente comunitario degli illeciti connessi alla protezione dell’ambiente. Si può legittimamente affermare che i più significativi passi per un’armonizzazione dei diritti penali nazionali, e per la creazione di un diritto penale europeo abbiano riguardato proprio la materia ambientale. La questione ambientale, quindi, è divenuta non solo punto cruciale della politica economica, ma ha segnato il dibattito istituzionale sulle competenze dei pilastri comunitari e sull’eventuale legittimazione al ricorso degli strumenti comunitari anche in campo penale. Nell’ambito degli effetti che l’ordinamento comunitario ha esercitato nel diritto interno in materia ambientale, deve aversi riguardo alla complicata evoluzione normativa e giurisprudenziale della definizione di rifiuto, fulcro della specifica disciplina di settore e di numerosissimi atti normativi che ad essa rinviano o che la presuppongono. Infatti, proprio in tema di rifiuti, vi è stata una delle prime concretizzazioni dell’esigenza di armonizzazione in materia ambientale, dettata dalla potenziale attitudine offensiva degli stessi, nei confronti dell’ambiente e della salute umana, in assenza di un apparato normativo che consentisse di disciplinarne la gestione e lo smaltimento finale. La delimitazione dei confini della nozione di rifiuto si rivela particolarmente determinante in quanto condiziona e determina l’operatività di tutta la normativa in materia, nonché l’efficacia della stessa, risultando nozione di riferimento dell’intero sistema giuridico di protezione ambientale. Il concetto di rifiuto concorre alla determinazione dell’illiceità penale delle condotte, delimitando, nel suo espandersi e comprimersi, i confini della protezione, in campo amministrativo e penale, dei beni ambientali. Accanto al meccanismo di influenza riflessa, è da ravvisare come in materia ambientale si sia sviluppata l’evoluzione di un possibile diritto penale europeo, e dunque di una esplicita influenza dell’ordinamento sovrannazionale nelle scelte di criminalizzazione nazionali. L’occasione di contrasto deve rinvenirsi nell’annullamento da parte della Corte di Giustizia della decisione quadro, adottata dal Consiglio il 27 gennaio 2003, sul presupposto che la Comunità ha un potere di armonizzazione delle legislazioni penali degli Stati membri in tutte le materie nelle quali esista già una normativa comunitaria di settore extrapenale: i provvedimenti in materia penale possono pertanto essere adottati in ambito comunitario ove strumentali ad assicurare una maggiore efficacia alle politiche comunitarie. La competenza penale e la possibilità di istituire un espresso obbligo diretto di criminalizzazione comunitaria, si spostano dal terzo al primo pilastro in quelle materie di evidente interesse comunitario, quali appunto la tutela ambientale. L’argomento ha portata rivoluzionaria nella misura in cui indirettamente apre il varco al riconoscimento di una competenza “generale” della Comunità in funzione del ravvicinamento delle legislazioni di carattere penale, laddove questo miri all’effettività del diritto comunitario, minacciato da gravi violazioni. La decisione riconosce il potere alle Istituzioni comunitarie, sottraendolo ai settori di cooperazione intergovernativa, di obbligare gli Stati ad introdurre sanzioni penali armonizzate, proporzionali, effettive e dissuasive in risposta alle violazioni gravi delle proprie disposizioni. Non solo, dunque, viene riconosciuto alla Comunità un potere di incriminazione attraverso direttive, ma è altresì legittimato un ampio ricorso agli strumenti normativi del diritto comunitario classico, con un corrispondente ed inevitabile declino degli ambiti di operatività del terzo pilastro, per l’armonizzazione delle norme penali interne agli ordinamenti nazionali nelle materie rientranti nelle competenze comunitarie, provocando una conseguente comunitarizzazione delle misure volte a fissare gli elementi minimi delle fattispecie incriminatrici e delle correlative sanzioni. Pochi anni dopo la Corte ha ridimensionato in modo significativo il dictum della precedente statuizione, negando alla Comunità il potere di definire la tipologia e la misura delle pene attraverso atti normativi vincolanti: alle direttive compete la facoltà di obbligare gli Stati a garantire uno standard di tutela penale in taluni settori, attraverso l’apprestamento di sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive, senza avere la facoltà di vincolare la scelta del legislatore nazionale in relazione alla species ed al quantum. La decisione, seppur di compromesso segna un punto di volta nel riconoscere l’incidenza effettiva del diritto comunitario sul diritto penale: il divieto di indicare le sanzioni è limitato alle direttive, lasciando invece alle decisioni quadro la possibilità di prescrivere il quantum delle sanzioni penali da adottare a livello nazionale per il perseguimento degli obiettivi comunitari, vincolando le scelte nazionali. Dal punto di vista degli obiettivi di criminalizzazione, non viene pertanto superata la frammentazione tra precetto e sanzione, permanendo, a causa della persistente resistenza degli Stati membri a detenere la potestà punitiva in materia penale, una divisione tra il momento precettivo, deferito alle istituzioni comunitarie, e quello sanzionatorio, di competenza nazionale. Le due statuizioni trovano la loro applicazione pratica, proprio nella direttiva 2008/99 sui reati ambientali risultando terreno di sintesi tra le spinte espansionistiche provenienti dalla Commissione e quelle conservatrici del Consiglio, nonché luogo di mediazione tra i diversi modelli di incriminazione degli ordinamenti nazionali, fornendo un minimo comune denominatore di tutela di fonte sovranazionale. Si è così configurato un sistema multilivello ove i legislatori nazionali sono condizionati nel loro potere discrezionale dalle indicazioni formalizzate dalle Istituzioni comunitarie. Dal punto di vista funzionale, l’obiettivo della direttiva è quello di ottenere che gli Stati membri introducano nel diritto penale disposizioni che possano garantire un adeguato livello di tutela ambientale. La direttiva presenta rilevanti elementi di novità, in primis appunto per gli obblighi formali di penalizzazione imposti, nell’ambito del primo pilastro . Il Trattato di Lisbona accoglie sotto alcuni aspetti l’evoluzione giurisprudenziale della Corte ma non ne sviluppa le problematiche in modo soddisfacente, deludendo le aspettative in merito al riconoscimento di una vera e propria potestà punitiva comunitaria. Il Trattato seleziona, come si è visto, tre ambiti di intervento per le direttive a contenuto penale per i fenomeni criminali tassativamente indicati al par. 1 dell’art. 83, per i fenomeni criminali diversi da quelli tassativamente elencati, per i quali occorre una decisione del Consiglio adottata all’unanimità e previa approvazione del Parlamento, ed in tutti i casi in cui la fissazione di norme minime su reati e pene risulti indispensabile per dare efficace attuazione alle politiche comunitarie, per i settori già oggetto di armonizzazione (art. 83 par. 2). L’ambiente, pur avendo avuto un ruolo nevralgico nell’evoluzione della competenza penale, e risultando oggetto di una incrementata tutela nel Trattato, non compare tra le materie tassativamente elencate, riscontrando un’evidente battuta d’arresto, deferendo inevitabilmente l’individuazione delle linee evolutive all’attività giurisprudenziale. Il quarto capitolo, infine, si ripropone di evidenziare le prospettive di un possibile penale europeo, unificato o quantomeno armonizzato, partendo dai pregressi tentativi di codificazione, quali il Corpus Juris, gli Europa delikte, il progetto alternativo, ed infine la Costituzione europea. I tentativi di armonizzazione e unificazione sopra citati hanno costituito banco di prova per un diritto penale europeo, seppur settoriale, ponendo, nell’esame dei pregi e dei limiti dei diversi progetti, le basi per un nuovo intervento sovrannazionale più mirato. La prospettiva che si deve prendere in considerazione al momento non riguarda solamente la possibile concretizzazione dei progetti qui delineati, quanto piuttosto l’esigenza che tale unificazione ed armonizzazione si spinga verso differenti ed ulteriori settori che progressivamente hanno acquisito una rilevanza comunitaria. I beni istituzionali della pubblica funzione europea, la moneta unica, gli interessi finanziari dell’Unione nonché l’ambiente possono già essere considerati, ad esempio, come un nucleo, condiviso, di interessi sovrannazionali per i quali sussistono in capo agli ordinamenti nazionali penetranti obblighi di tutela penale. Anche in ordine a tali beni si dovrebbero prospettare dei micro-sistemi di tutela penale ulteriore e sovraordinati che, proprio in ragione del carattere settoriale, pur rispettando le identità nazionali, si imporrebbero alla normativa nazionale, sostituendola o integrandola, nei settori di competenza. La finalità auspicata sarebbe quella di giungere ad una “mise en compatibilité” degli interventi nazionali con quelli sovrannazionali in determinati settori, diretta ad instaurare un “pluralisme juridique ordonnè” ed a garantire la coesistenza di una pluralità di norme di natura e valenza differenti, regolata da un sistema di criteri ordinatori ispirati alla flessibilità ed alla complessità che consentano di tradurre le inevitabili interferenze ed i reciproci rinvii da un ordinamento istituzionale all’altro. La politica criminale europea dovrebbe, dunque, risultare come un sistema misto e graduato su diversi livelli di incidenza, con forme di normazione sovrannazionale direttamente vincolante, per quei beni che risultino meritevoli e necessitanti una tutela penale esaustivamente definita a livello sovrannazionale ed, invece, forme di normazione armonizzatrice di diversa intensità sui sistemi nazionali, nel caso di beni di interesse comune o di beni sovrannazionali non necessitanti la predisposizione di una tutela accentrata e unificata a livello sovrannazionale. Sarebbe necessario, piuttosto, a tal fine far ricorso ad alcuni principi generali in materia penale che possano ispirare l’intero ordinamento sovrannazionale, chiamati ad orientare, vincolandoli, gli interventi europei di penalizzazione diretta e di armonizzazione, nonché le misure nazionali di tutela ed assicurare una coerenza complessiva della politica criminale europea. In tale prospettiva gioca un ruolo di prim’ordine la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione in quanto referente primario dei valori fondanti l’Unione e dunque, per ciò stesso, condivisi. La formalizzazione dei principi ivi contenuti, in particolare di quelli relativi alla materia penale potrebbe fornire la base per costituire una teoria generale dell’intervento penale, quale consacrazione e concretizzazione a livello sovrannazionale di quel patrimonio comune di ideali e tradizioni politiche, di rispetto delle libertà e di preminenza del diritto. La prospettiva più realistica, nel breve periodo è proprio quella di procedere ad un’unificazione ed un’armonizzazione riguardo a beni e interessi condivisi, lasciando un margine di discrezionalità al legislatore nazionale. Prendendo le mosse dal Trattato di Lisbona, non si può escludere, invece, come, accanto alle misure di armonizzazione fin ora attuate col tramite delle direttive, vi possa essere la prospettiva sul lungo periodo della creazione di un diritto penale di tipo federale, accanto ai codici penali nazionali, demandando alla Comunità la definizione di norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in alcune determinate materie in sfere di criminalità particolarmente grave. Allo stato, quindi, si può ritenere che vi sia stata un’opera visibile di armonizzazione, anche a livello normativo, evolutasi nella scelta degli strumenti del primo pilastro, maggiormente vincolanti, e nelle materie da sottoporre a tutela. Ne abbiamo l’esempio visibile in materia ambientale con tre direttive in settori differenti che hanno imposto norme minime, definizioni, fattispecie incriminatorie e obblighi di penalizzazione, proprio accogliendo i presupposti di una normativa comunitaria settoriale. Il riscontro a livello nazionale, che si attende in tempi brevi, dovrebbe portare ad una chiarificazione, seppur parziale, del diritto interno ambientale, introducendo modifiche in linea con gli standards europei e consentendo, anche a livello processuale “di usare efficaci metodi di indagine e di assistenza, all’interno di uno Stato membro o tra diversi Stati membri”. E’ indiscutibile come il diritto penale non sia più una materia riservata in modo esclusivo al legislatore di ciascuno Stato membro, e si stiano delineando dei campi di azione in cui il diritto europeo può concorrere alla effettiva configurazione del sistema penale nazionale.3061 3902 - PublicationLa disciplina giuridica del trasporto e della distribuzione del gas naturale: profili pubblicistici(Università degli studi di Trieste, 2011-04-29)
;Fonda, EdoardoCrismani, Andrea«Da una lettura complessiva del d.lgs. n. 164 del 2000 (e cioè del provvedimento con il quale ha preso compiutamente avvio il processo di liberalizzazione del mercato italiano del gas naturale) sembra potersi ricavare che, nel sistema del d.lgs. medesimo, le varie fasi che precedono la vendita (di gas) rappresentano segmenti di attività meramente strumentali e funzionali a rendere possibile lo svolgimento in concorrenza della vendita stessa». Così affermavano, a pochi mesi dall’entrata in vigore del cd. decreto Letta, il Prof. Giuseppe Caia ed il Prof. Stefano Colombari al Convegno nazionale organizzato dal CISDEN (Centro Italiano di Studi di Diritto dell’Energia): Problemi attuali del diritto dell’energia: gas e onde elettromagnetiche, tenutosi in Roma il 27 ottobre 2000 presso l’UNIDROIT. Da tale affermazione si evince chiaramente la strumentalità delle attività a monte della filiera rispetto all’attività più a valle della stessa. Tra tali attività, peraltro, particolare importanza assumono il trasporto e la distribuzione. Il gas naturale che viene estratto dai giacimenti italiani e stranieri, infatti, per poter giungere alle nostre case, deve necessariamente transitare all’interno di gasdotti ad alta e bassa pressione. Le attività che vengono esercitate per il tramite delle infrastrutture di rete, quindi, sono strumentali anche allo svolgimento di altre attività della filiera, e cioè della produzione e dell’importazione. Tali infrastrutture, come è noto, vengono annoverate tra i cd. monopoli naturali. Ragioni tecniche, oltre che ambientali, infatti, ne sconsigliano la duplicazione. Alla luce di queste brevi considerazioni si comprende già la ragione che ha spinto il legislatore della liberalizzazione a dettare una disciplina particolare per le attività di trasporto e distribuzione del gas. Se, infatti, le infrastrutture di rete sono strumentalmente necessarie all’esercizio di un’attività economica, l’impossibilità di accedere a tali infrastrutture impedisce lo svolgimento dell’attività. Se, poi, si tratta di un’attività liberalizzata (come la vendita, ma anche la produzione e l’importazione), è necessario che l’infrastruttura venga gestita in maniera neutrale. Una gestione che tenda a favorire alcuni operatori economici rispetto ad altri, infatti, impedisce lo sviluppo della concorrenza nel mercato in cui tali soggetti operano. Il legislatore della liberalizzazione, quindi, dettando una disciplina particolare per le attività di trasporto e distribuzione del gas naturale, ha perseguito due obiettivi: quello di permettere lo svolgimento delle attività liberalizzate e quello di garantire un’effettiva competizione nei relativi mercati. Nel corso del presente lavoro si è cercato di verificare se tali obiettivi sono stati effettivamente raggiunti.1183 6419 - PublicationLa discrezionalità del giudice nella commisurazione della pena nei paesi dell'Europa dell' Est.(Università degli studi di Trieste, 2008-04-11)
;Bertoli, MarildaPittaro, PaoloI modelli del diritto penale degli ex Stati socialisti europei sono stati sostituiti nell’ultimo decennio con nuovi atti legislativi strutturati attorno ai modelli tradizionali delle codificazioni europee (e, in particolare sull’esperienza tedesca). È naturale, nonostante l’abrogazione dei vecchi testi legislativi, che essi destino un particolare interesse per lo studioso, offrendo l’opportunità di comprendere a meglio l’evoluzione e i momenti di passaggio dal vecchio al nuovo, nonché le ripercussioni sociali delle transizioni giuridiche. Questo è il risultato di un processo di intercomunicazione tra i differenti sistemi penali ed è ciò che muove l’attuale processo di transizione dei paesi ex-socialisti. Ecco, quindi, la necessità, soprattutto alla luce dei rapporti passati tra le varie legislazioni dei paesi dell’area balcanica e quella sovietica, di un’analisi comparativa, che sottolinei i momenti di distacco rispetto ai modelli del passato e faccia emergere anche eventuali elementi di continuità tra i paesi dell’area balcanica nel loro cammino verso la costruzione della legislazione post-socialista. Lo scopo è anche quello di sottolineare e far emergere eventuali tratti che caratterizzano in modo originale i nuovi sistemi postsocialisti.1407 20336 - PublicationL'esiguità dell'illecito penale: soluzioni a confronto in un'analisi di diritto comparato(Università degli studi di Trieste, 2009-04-02)
;Kapun, Ales ;Folla, NatalinaFolla, NatalinaDa anni ormai si va facendo strada l'idea di introdurre nel nostro sistema penale una disposizione di carattere generale che preveda l'esclusione della procedibilità o della punibilità per fatti che pur essendo tipici, antigiuridici e colpevoli risultano, sulla base di criteri legislativamente indicati, privi di un significativo disvalore. Di qui la scelta di sondare le diverse coordinate culturali che convergono in seno alle clausole di irrilevanza in un'ottica comparata. L’elaborato, in particolare, ha lo scopo, da un lato, di analizzare gli istituti con cui i diversi ordinamenti europei rinunciano ad applicare la sanzione o, ancora prima, a celebrare il processo volto a stabilire se ed in quale misura irrogarla, prestando particolare attenzione all'istituto sloveno del fatto di scarsa rilevanza penale, e ciò per sondarne le peculiarità e le eventuali convergenze con gli istituti introdotti dal legislatore italiano e, dall’altro, di verificare se le soluzioni elaborate dai legislatori stranieri si prestino ad essere esportate, in tutto o in parte, nel sistema penale italiano. Particolare attenzione è stata prestata all’evoluzione della giurisprudenza della Suprema Corte slovena, al fine di cogliere eventuali mutamenti emersi dal recente pragmatismo processuale. Ancor prima, però, è stato necessario sciogliere il quesito attinente alla natura giuridica dell’istituto de quo, fonte – in questi ultimi anni – di rinnovati e serrati dibattiti dottrinali. Cumulando, poi, i risultati dell’elaborazione dottrinale con la prassi applicativa dei diversi istituti si è cercato di comprendere se l’accentuata indeterminatezza delle colonne su cui poggia l’edificio dell’irrilevanza penale del fatto possa minare le istanze di certezza del diritto e di uguaglianza fra tutti i cittadini. Non si è potuto prescindere, poi, già nella stessa parte introduttiva, da una considerazione critica delle esperienze già fatte in diversi ordinamenti penali europei e delle feconde prospettive di riforma succedutesi in Italia negli ultimi decenni. Infine, si è cercato di arricchire il percorso di ricerca con alcuni spunti comparatistici, analizzando i parametri di riferimento degli istituti di depenalizzazione in concreto attualmente vigenti nel sistema penale italiano - ossia il congegno dell’irrilevanza del fatto nel rito penale minorile e la declaratoria di “particolare tenuità” prevista dall’art. 34 d.lgs. 28 agosto 2000 n. 274 – e comparandoli con gli indici di esiguità dell’omologo istituto sloveno, per verificare l’eventuale necessità di affinamento e di calibratura del Tatbestand bagatellare elaborato dal legislatore sloveno. Da ultimo, poi, utilizzando i dati e le impressioni colte lungo il tortuoso percorso, si è cercato di abbozzare un modesto spunto propositivo per futuribili conquiste.1678 8904 - PublicationL'evoluzione della nozione di rifiuto e i suoi riflessi penali(Università degli studi di Trieste, 2011-04-15)
;Guerri, Daniele ;Pittaro, PaoloGiunta, FaustoIl lavoro ripercorre le tappe dell’evoluzione della nozione di “rifiuto” nella normativa, giurisprudenza e dottrina italiane, a partire dal suo ingresso nel nostro ordinamento con la disciplina tracciata dal diritto pretorio prima dell’introduzione di una disciplina ad hoc, per proseguire con le definizioni contenute nel d.P.R. 915/1982 prima, nel decreto Ronchi poi, e infine nel codice ambientale del 2006, attraverso l’aggiornamento ad opera del d.lgs. n. 4 del 2008 e, da ultimo, del recentissimo d.lgs. 205/2010. Al contempo la ricostruzione storica si occupa di analizzare i rapporti tra la normativa interna e quella comunitaria: a tal fine viene presa in esame anche la legislazione europea, a partire dalla direttiva n. 442/1975/CEE fino all’ultima direttiva n. 98/2008/CE. La portata della nozione di rifiuto, delimitando l’applicazione di tutte le fattispecie penali di cui essa è elemento costitutivo, è stata oggetto di acceso dibattito per oltre un trentennio: l’importanza del tema è rispecchiata dall’incredibile numero di pronunce di legittimità che nel tempo si sono occupate della questione. La tesi, pertanto - e primariamente - analizza il susseguirsi delle modifiche normative e delle interpretazioni dottrinarie e giurisprudenziali della nozione di rifiuto, nonché, ed in particolar modo, dei concetti contigui di sottoprodotto e materia prima secondaria, limiti esterni della prima. L’analisi è svolta con particolare attenzione ai numerosi interventi legislativi, alla giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte di giustizia delle Comunità europee, di cui si è tentato di delineare e ripercorrere le linee evolutive, avendo cura di correlare gli ambiti tra loro, e prestando particolare attenzione al rispetto della cronologia con cui interventi normativi ed interpretazioni giurisprudenziali si sono susseguiti nel tempo. Il lavoro, inoltre, cerca di inserire la tematica della nozione di rifiuto nel contesto del diritto penale ambientale. Sotto questo profilo prende in esame i principi alla base della politica europea in materia e il loro influsso, quali direttrici di politica legislativa, sull’applicazione del diritto penale nazionale con specifico riferimento alla disciplina dei rifiuti. La tesi, in particolare, ritiene di individuare un legame fondamentale tra principio di precauzione, obiettivi di elevata tutela ambientale ed indeterminatezza della definizione di rifiuto, in certa misura necessitata dall’impostazione adottata dalle istituzioni europee sulla materia. Da questa angolazione, l’evoluzione comunitaria della nozione di rifiuto è analizzata sotto la lente della progressiva relativizzazione dei suddetti principi e sul loro venire in bilanciamento con quelli contrapposti della praticabilità economica, della fattibilità tecnica e della protezione delle risorse, che ha condotto alla codificazione, anche in ambito europeo, della definizione di sottoprodotto, e ad un complessivo avvicinamento tra direttiva quadro sui rifiuti ed istanze provenienti dal legislatore nazionale. Nel ripercorrere l’evoluzione della portata della nozione di rifiuto, il lavoro ha cercato comunque di non limitarsi al problema esegetico, prendendo le mosse dalle questioni sollevate dalla formulazione della definizione, per evidenziare e approfondire i nodi problematici da esse messi in luce. In particolare, la tesi affronta le questioni sollevate dal’indeterminatezza della nozione di rifiuto con riferimento al principio di tassatività; indaga i riflessi sul processo penale del sistema definitorio di ispirazione comunitaria; si occupa dei rapporti tra fonti nazionali ed europee e tra giurisdizione nazionale ed europea. Per questa via la tesi individua e cerca di analizzare le tensioni create nel sistema di garanzie del nostro ordinamento dalle istanze di tutela provenienti dalla Comunità europea, segnatamente in materia ambientale. Sotto quest’ultimo profilo, risulta di particolare interesse il contrasto tra normativa nazionale ed europea avviato dall’interpretazione autentica di rifiuto di cui al’art. 14 d.l. 138/02: la ricognizione delle reazioni di dottrina e giurisprudenza all’iniziativa del legislatore nazionale consente di interrogarsi sui limiti di soggezione del legislatore italiano a quello europeo e sui percorsi istituzionalmente corretti per far valere la preminenza del diritto comunitario non autoapplicativo, segnatamente quando questo possa avere ricadute in malam partem in materia penale. Da questo punto di vista, rivestono grande interesse le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai giudici di legittimità e di merito per contrasto della normativa nazionale con quella comunitaria e, da ultimo, la posizione adottata dalla Consulta con la sentenza n. 28 del 2010.2401 15584 - PublicationIl fallimento del "piccolo imprenditore": profili penali(Università degli studi di Trieste, 2013-04-19)
;Gentile, ElisaPittaro, PaoloLa disciplina fallimentare dettata nel r.d. 16 marzo 1942, n. 267 è rimasta per oltre un sessantennio sostanzialmente immutata. Il legislatore, infatti, è restato a lungo sordo alle richieste della dottrina che lamentava l’inadeguatezza del sistema normativo in parola rispetto alla nuova realtà economica. Soltanto con il D.Lvo 9 gennaio 2006 n. 5 si è realizzata una riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali contenuta nella legge fallimentare. Nell’ambito di questa novellazione vengono rivisti i requisiti soggettivi di fallibilità, modificati nuovamente con il successivo decreto correttivo n. 169/2007. Viene, infatti, riscritto l’art. 1 L.fall., abolendo ogni riferimento alla nozione di “piccolo imprenditore” e fissando dei parametri dimensionali per l’esclusione dal fallimento. Tale novazione legislativa ha inciso anche sulle fattispecie di bancarotta sanzionate negli artt. 216 e 217 L.fall. In particolare, si è posto un problema di successione di norme integratrici in relazione ai casi in cui, dopo la riforma, il soggetto attivo del reato avrebbe rivestito la qualità di piccolo imprenditore. Su questo tema sono intervenute le Sezioni Unite con la famosa sentenza Niccoli, in quanto si era creato un contrasto giurisprudenziale tra chi riteneva si fosse verificata un’ipotesi di abolitio criminis parziale e chi, al contrario, riteneva si dovesse applicare ancora la vecchia legge fallimentare. Il Supremo Collegio ha liquidato in poche righe la questione della successione mediata ed ha affermato l’insindacabilità in sede penale della sentenza dichiarativa di fallimento circa la qualifica di imprenditore ai sensi dell’art. 1 L.fall. La posizione assunta dalla giurisprudenza non sembra, tuttavia, coerente con i principi ispiratori del codice di procedura penale e lesiva del diritto di difesa garantito al livello più alto della gerarchia delle fonti.1884 8473 - PublicationLa famiglia nel diritto penale: un concetto unitario?(Università degli studi di Trieste, 2008-04-11)
;Fantuzzi, Federica RomanaPittaro, PaoloL’attuale e molto sentito problema delle sempre crescenti violenze in ambito familiare, con il conseguente aumento delle pronunce giurisprudenziali sul tema, nonché la crisi dell’istituto familiare in sé, ha comportato, negli ultimi anni, che particolare attenzione sia stata dedicata ai reati contro la famiglia. L’importanza dell’istituto familiare e della sua funzione all’interno della società ne aveva suggerito, sin da principio, la tutela anche in sede penale, sicché è stato inserito, nel Codice Rocco, il Titolo XI, che si prefigge lo scopo di tutelare la famiglia da tutte le forme di aggressione che possano provenire, sia dall’esterno, sia, in quelle ipotesi caratterizzate da un maggior disvalore, dagli stessi membri del medesimo aggregato familiare, riservando una particolare attenzione alla tutela dei minori. Ad ogni buon conto, non ci si può esimere dall’osservare che la rilevanza del legame parentale travalica gli angusti confini del Titolo del Codice penale dedicato ai delitti contro la famiglia, rinvenendosi sparse, in più parti, numerose altre fattispecie delittuose all’interno delle quali è possibile ravvisare conseguenze discendenti dall’esistenza di un legame parentale intercorrente tra il soggetto attivo del reato e quello passivo, vuoi ai fini della stessa sussistenza del fatto tipico, vuoi per la determinazione della pena, potendo persino, in casi dettagliatamente individuati e circoscritti, la sussistenza di un legame familiare comportare la non punibilità di alcune ipotesi criminose. Scopo precipuo dell’opera si ravvisa, da un canto, nella ricerca e nella individuazione di una definizione di famiglia penalmente rilevante, la quale non può essere mutuata, sic et simpliciter, dal diritto civile, all’interno del quale non è possibile rinvenire, a ben vedere, un concetto II unitario e, da altro canto, nella identificazione dei rapporti familiari che assumono rilievo nel sistema delineato dal Codice Rocco. Come si avrà modo di osservare, pur tuttavia, non pare possibile, così come del resto accade nel diritto civile, trovare un concetto unitario di famiglia, atteso che il Codice penale, ci sia concesso, non senza discriminazioni che siano giustificate da un adeguata differenza di situazioni concrete, attribuisce rilevanza, a volte, a determinati tipi di rapporti e, altre volte, a diverse relazioni familiari. Attraverso l’analisi delle singole fattispecie, che in una certa qual misura richiamano l’esistenza di un vincolo parentale, si tenterà di trovare un denominatore comune, il quale funga, per il giurista, da guida nella interpretazione e nelle esegesi delle disposizioni codicistiche. Le difficoltà riscontrate, non solo in campo penale, ma in tutte le branche del diritto, nella identificazione di un concetto unico e durevole di famiglia discendono, sine dubio, dalla variegata realtà sociale, ove il consorzio familiare può assumere sfumature sempre diverse, nonché dal mutato assetto politico sociale del Paese, che, parallelamente al continuo evolversi della società, comporta una costante trasformazione di quello che si intende per nucleo familiare, un tempo identificato con la famiglia tradizionale, quand’anche allargata ai figli naturali equiparati ai figli legittimi, e oggi esteso finanche alla famiglia di fatto e alla stessa sola convivenza. L’innegabile esistenza di tale ultima realtà non permette di trascurare la sua rilevanza nelle singole fattispecie penali, onde verificare in quali casi e con quali limiti questa possa essere equiparata alla famiglia legittima. Nella parte finale dell’elaborato ci si è, da ultimo, soffermati sull’allarmante e sempre più diffuso fenomeno della violenza in famiglia e sulla necessità sempre più pressante dell’introduzione, da un lato, di norme appositamente atte a disciplinare tali soprusi e, d’altro, di un III adeguato, effettivo ed efficace sistema di prevenzione e di repressione, in grado di offrire una reale protezione ai soggetti più deboli, quali donne e minori, che elimini o, quanto meno, riduca il pericolo di sopraffazione nei loro confronti.6214 137594 - PublicationLa frode nel settore asicurativo: profili problematici e prospettive di riforma(Università degli studi di Trieste, 2014-04-11)
;Kalaja, KlediFolla, NatalinaLa scelta della frode assicurativa, come oggetto della tesi di dottorato, nasce dalla curiosità di meglio conoscere il fenomeno fraudolento in un settore, quello assicurativo, in cui sono impiegato da più di due anni, e con attenzione ad un tema non approfondito dalla letteratura e dalla giurisprudenza. Allo scopo di determinare il fenomeno illecito si è proceduto da prima ad un’analisi statistica del fenomeno fraudolento in Italia, operando anche un’analisi comparativa con alcuni sistemi stranieri; secondariamente l’analisi si orienterà verso la sfera giuridica, in questo senso, di particolare interesse, sia da un punto di vista dottrinale che giurisprudenziale, sono gli istituti della frode di cui all’art. 640 c.p. e della frode assicurativa di cui all’art. 642 c.p. Al termine dello studio, in fase conclusiva, si procederà ad un’analisi dei dati emersi, prospettando alcune possibili riforme che paiono indispensabili per combattere uno dei più diffusi fenomeni illeciti del nostro paese.1205 7878
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