Opere d'arte d'Ateneo
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- PublicationCrocifisso(1954)Negrisin, GiuseppeLa presenza di quest’opera nelle collezioni dell’Università degli Studi di Trieste si deve probabilmente alla lungimiranza del professor Pio Montesi, direttore del dipartimento di Ingegneria Civile dal 1957 al 1975, che con la collaborazione di Antonio Guacci, si è più volte speso per incrementare le collezioni artistiche dell’istituzione da lui diretta, concentrandosi soprattutto sugli artisti cittadini. Il Crocifisso appartiene alla prima fase della produzione di Negrisin, che a queste date comincia progressivamente ad affrancarsi dalla lezione mascheriniana per raggiungere quella cifra stilistica più meditata e personale che lo porterà alla ribalta internazionale verso la fine del decennio. Sin dalle proposte iconografiche e specie nella scelta di sostituire la croce con un motivo a racemi stilizzati, si evidenzia la matrice neoromanica di questa realizzazione, in buona parte legata ai rilievi del portale della chiesa veronese di San Zeno. Una formula che trova un contraltare in un altro esemplare di piccolo Crocifisso montato su di una tavola rustica, questa volta non datato ma presente (e riprodotto in catalogo) alla Mostra Nazionale d’Arte Sacra allestita alla Stazione marittima di Trieste nel luglio 1956, che pare una meditata variazione sullo stesso tema. “Le opere dell’arte negra, le testimonianze dell’espressività primitiva giocano sull’ispirazione di Negrisin il ruolo di suggeritori per la realizzazione di molteplici varianti, dentro una sintesi di volta in volta sempre diversa” (E. Santese, Giuseppe Negrisin, in Giuseppe Negrisin 1930-1987, catalogo della mostra di Muggia, Museo d’arte moderna “Ugo Carà” 7 dicembre 2007 – 12 gennaio 2008, a cura di B. Negrisin Cociani, Trieste, Stella Grafica Edizioni, 2007, p. 17).
113 88 - PublicationForme – spazioCernigoj, AugustL’opera è stata acquisita agli inizi degli anni settanta in occasione dell’apertura del Centro di Fisica Teorica di Miramare, come ricorda anche il talloncino apposto sul verso dallo stesso artista. Tra i molteplici campi dell’inesausta ricerca di Cernigoj su tecniche e materiali, un ruolo tutt’altro che secondario spetta proprio alla tarsia lignea, sperimentata per la prima volta all’inizio degli anni trenta in alcuni pannelli decorativi per la motonave Victoria e più volte riprodotti sulle pagine dei giornali specializzati (cfr. S. Vatta, Le gallerie galleggianti. Cernigoj decoratore, in Augusto Cernigoj (1898-1985). La poetica del mutamento, catalogo della mostra di Trieste, Civico Museo Revoltella 19 dicembre 1998 – 28 febbraio 1999, a cura di M. Masau Dan, F. De Vecchi, Trieste, Lint, 1998, pp. 83-87). L’artista riprenderà la sperimentazione in tal senso negli anni sessanta, grazie alla collaborazione della pittrice triestina Emanuela Marassi, specialista nel campo della tarsia lignea, che tradurrà con grande efficacia i bozzetti del maestro, tra tutti quelli per i grandi pannelli per il nuovo edificio del Teatro Sloveno. Oltre alle grandi scene narrative, Cernigoj sperimenterà anche composizioni astratte di dimensioni più ridotte, come quella in esame, o Spaziale, del 1966 conservato presso la collezione del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia, che può essergli accostato per tematica, fornendo anche un possibile aggancio cronologico per la sua datazione. Non risulta che Forme – spazio sia mai stato presentato al pubblico.
102 75 - PublicationLi Fioretti di Sancto Francesco(1940)Pittoni, AnitaIl grande pannello, realizzato nel 1940 dal Laboratorio Artigiano Triestino su disegno di Anita Pittoni, venne esposto per la prima volta alla VII Triennale Internazionale d’Arte decorativa e fu il frutto del concorso indetto dall’Ente Triennale di Milano e dall’Enapi di Roma (il cui scopo era quello di indurre gli artisti a fornire disegni moderni d’arte applicata alle scuole e ai laboratori femminili di ricamo e merletto). Il concorso prevedeva che vi partecipassero 19 tende da esporre alle finestre dell’emiciclo del Palazzo delle Arti. Il tema risultava libero, uniche direttive da seguire: misure e tecniche. Anita Pittoni decise di illustrare in 8 riquadri la vita di San Francesco. Il manufatto reca iscrizioni in volgare umbro accompagnate da raffigurazioni dal carattere primitivo. Il risultato fu ottimale tant’è che il lavoro si aggiudicò la medaglia d’oro per il disegno e una menzione d’onore per il suo contributo all’Enapi. Alla Pittoni si deve l’invenzione di una nuova interpretazione delle tecniche della maglia e dell’uncinetto, usate sino ad allora per realizzare principalmente pizzi e merletti. Furono da lei adoperate per realizzare sofisticati tessuti d’arredamento. Alla mostra degli artisti triestini alla Permanente di Milano la Pittoni presentò, oltre al grande pannello, anche vari oggetti di moda femminile quali costumi per la spiaggia, mantelli, un abito estivo di rete gialla, una giacca di canapa, un costume da sera in rame, borsette, bandoliere, bottoni, tappeti ed altri accessori. Ciò che colpì delle creazioni di Anita fu la constatazione che era un’artista capace di creare forme e ritmi tessendo filati come altri usavano parole e suoni. Le parti figurative sono accompagnate da scritte ricamate che riportano alcuni passi tratti dai Fioretti di San Francesco. Nel primo riquadro si legge una parte tratta dal Capitolo 9 in cui San Francesco, essendo con fra Lione in un luogo dove non avevano libri e breviario col quale recitare le preghiere del mattutino, i due si accordarono affinché Fra Lione ripetesse quanto San Francesco diceva. San Francesco iniziò così: “O Signore mio del cielo e della terra, io ho commesso contro a te tante iniquità e tanti peccati, che al tutto son degno d’esser da te maledetto”. E frate Lione anziché rispondere come Francesco gli aveva indicato rispose con la frase ricamata sul pannello: “O frate Francesco, Iddio ti farà tale, che tra li benedetti tu sarai singolarmente benedetto”. Accanto a questa frase si può ammirare il ricamo decorato in cui San Francesco viene elevato da due figure angeliche. La grande tenda presenta una decorazione “a scacchiera”: alla parte scritta corrisponde una formella decorata e viceversa per quattro fasce orizzontali. Il ritmo delle due colonne è ulteriormente scandito dalla realizzazione, in senso verticale, di una sorta di rima incrociata (ABAB). La seconda formella illustra un passo tratto dal 16° Capitolo dei Fioretti in cui San Francesco, accogliendo gli inviti di Santa Chiara e San Silvestro di predicare a quante più genti possibili, iniziò a predicare anche agli uccelli. La terza formella scritta riprende nuovamente parte del Capitolo 9 caratterizzata dallo scambio di battute tra San Francesco e San Lione. Nella parte iconografica invece ritroviamo San Francesco circondato da fiori. Gli ultimi due riquadri, trattano un passo del 15° capitolo dei Fioretti. Quello illustrato a sinistra, si vede San Francesco in saio con di fronte Santa Chiara. La formella è impreziosita da un decoro, nella parte superiore, a motivo a stella, mentre nella parte inferiore, vi è un motivo decorativo floreale con degli uccellini. La parte scritta chiude invece il pannello decorativo nel quale sono riportate le parole di santa Chiara: “ed ella come figliuola di santa obbidienza avea risposto: “Padre, io sono sempre apparecchiata ad andare dovunque voi mi manderete”. Acquistato dall’Università degli Studi di Trieste nel 1951 è attualmente visibile nell’aula Magna della sede principale dell’Università.
243 131 - PublicationPolenaIntagliatore veneto della prima metà del XVI secoloL’insolito cimelio è giunto nelle collezioni dell’allora Facoltà di Ingegneria l’undici gennaio del 1955 montato su di un’ossatura in legno che cercava almeno parzialmente di ricostruire la primitiva destinazione della scultura, destinata a decorare la polena di una nave. La scultura è profondamente erosa nel corpo, mentre ha mantenuto in buono stato la testa, con l’eccezione del naso ormai perduto. Lo stato di conservazione impedisce di identificare la figura, probabilmente quella di un santo protettore, ma i dati stilistici ancora leggibili consentono di ipotizzare che sia opera di un intagliatore veneto attivo nella prima metà del Cinquecento.
104 103 - PublicationSigmund FreudRossi, AmletoLa placchetta commemorativa firmata nel 1968 dallo scultore romano Amleto Rossi rende omaggio al fondatore della psicanalisi: Sigmund Freud. Il suo ritratto di profilo, appena girato verso lo spettatore, segue fedelmente i tratti del volto corrucciato e dal mento allungato del grande maestro. Più che le medaglie della Roma imperiale, l’opera in esame sembra evocare la tipologia ritrattistica utilizzata nella prima parte del secolo per i cilpei funerari. Amleto Rossi, era uno scultore e marmista romano, originario del quartiere di San Lorenzo. Figlio della tradizione artigianale romana, era socio effettivo dell’Università dei Marmorari di Roma, artefice, insieme al suo allievo Antonio De Dominicis, di numerosi interventi nella capitale; infatti, nel primo dopoguerra, partecipò alla costruzione del ponte Flaminio su progetto dell’architetto Brasini. Socialista della prima ora, aderì giovanissimo al movimento degli Arditi del Popolo e partecipò alla Resistenza.
147 90 - PublicationStruttura modulareZavagno, NaneL’opera di Zavagno, artista di punta della ricerca artistica friulana, è giunta nelle collezioni dell’ateneo nei primi anni settanta, in occasione dell’apertura del nuovo Centro di Fisica Teorica. È datato agli inizi degli anni settanta, ma riprende la tessitura di altri lavori del decennio precedente, come un Senza titolo del 1962, strutturati su di un’analoga tipologia di intervento sulla superficie metallica. In quell’arco cronologico si colloca infatti la sua reiterata sperimentazione su materiali di estrazione industriale come l’alluminio: “il 1961 è anche l’anno nel quale Zavagno inizia a lavorare in allumini anodici in una trama tissutale seriale rigorosissima, tentando di utilizzare le incidenze luminose dovute alla variante di luce provocata dalla iterate lamelle rialzate di ciascun punto del tessuto. E in questa linea lavora fino circa al 1965, chiaramente in termini di programmazione di effetti «opticals». Negli ultimi anni Sessanta abbandona poi la tessitura tassellata seriale di riquadri per un’organizzazione strutturale a lame orizzontali estroflesse secondo precise volumetrie ritmiche che si affermano come evidenze iconiche formali, sempre utilizzando il gioco delle incidenze luminose variabili” (E. Crispolti, Il lavoro di Zavagno, in Enrico Crispolti, Giancarlo Pauletto, Nane Zavagno, Pordenone, Edizioni d’Arte Concordia, 1987, pp. 14-15). La ricerca di Zavagno, fatta anche di continue reiterazioni di moduli compositivi, rimarrà costante anche nel decennio successivo, cercando nel contempo nuove e più elaborate soluzioni: “oggi la sua inquietudine lo ha spinto ad andare oltre il «quadro», ad operare le sue analisi cinestetiche sui nuovi materiali tecnologici e sul loro porsi come condizionanti non solo dello spazio in cui vengono inseriti, ma della stessa capacità percettiva del fruitore: Quelli che egli crea non sono tuttavia gli «oggettisimbolo » dell’arte cosiddetta «povera», non sono sculture che ripropongano[…] un «oggetto» della realtà, ma campi geometrici in evoluzione visiva, campi d’impegno per l’osservatore, che si pongono oltre il quadro […] si tratta, in altre parole, di opere aperte all’infinita modularità del loro proporsi e della loro stessa capacità di autosvilupparsi in rapporto all’ambiente in cui vengono inserite” (A. Giacomini, in Seconda mostra degli artisti della regione Friuli-Venezia Giulia, catalogo della mostra di Gradisca, Sala Civica 15 luglio – 30 settembre 1972, Trieste, Tipografia Moderna, 1984, p. 114). In sede di valutazione critica verranno in seguito evidenziate le peculiarità di queste ricerche, in grado di offrire “strutture visive che, mediante la luce, si fondano sul movimento chiaroscurale ottenuto con la messa a punto di soluzioni ottico-illusionistiche, superfici lustre e modulate in grado di far scattare una reazione ottico-psicologica. Con gli allumini Zavagno arriva a comporre una spazialità algida che rimanda, per analogia, ad un’altra più ampia e di ordine cosmico, in linea soprattutto con al ricerca condotta negli stessi anni in area tedesca” (A. Panzetta, Nane Zavagno opere 1950-2002 cinquant’anni di attività artistica, catalogo della mostra di Passariano, villa Manin, estate 2002, p.14). L’opera in esame non risulta essere mai stata esposta ne riprodotta.
157 93 - PublicationUntitledBalbi, GiulianaL’opera è stata acquisita in occasione della mostra personale allestita dall’artista presso la Sala degli Atti della Facoltà di Economia tra il novembre del 2010 e il marzo dell’anno successivo. In quell’occasione Giuliana Balbi aveva presentato un’antologia delle sue creazioni più recenti nel campo della sua personalissima tecnica di fototessitura e fotointreccio, dove la fotografia viene trattata come fosse un filato: dopo aver scattato e scelto alcune fotografie queste vengono tagliate in tante striscioline, poi intrecciate seguendo la vitalità e le tensioni del colore, accostando nell’opera finale frammenti diversi e mutevoli del reale. In alcune opere vengono poi inseriti fili di nylon e di rame, plastiche, resine e tutto ciò che viene ritenuto opportuno per veicolare al meglio il suo messaggio. “Tali installazioni”, dice l’artista “devono essere libere di muoversi nello spazio, chi le osserva deve poter interagire con loro”. In questo caso la composizione, datata 2010, assume l’aspetto di un doppio vortice, che nelle intenzioni dell’artista vuole ricordare l’energia con cui operano le forze naturali. Alle striscioline fotografiche ha aggiunto, condensati in grumi, inserti metallici che sembrano indicare la traccia umana nella natura, da qui il titolo dell’opera in esame, Traccia, titolo comune a molti dei lavori recenti dell’artista. Come in molte altre testimonianze dell’attività artistica di Giuliana Balbi, si tratta di Tracce che volutamente alludono all’attività dell’uomo e alla sua interazione spesso violenta con la natura, tracce, testimonianze, e che una volta abbandonate tendono progressivamente a scomparire fagocitate dalla forza inarrestabile della natura e del tempo. In virtù di questo la riconoscibilità delle foto impiegate, che pure sono scelte con oculatezza, appare un dettaglio del tutto trascurabile nell’autonomia della creazione. È certamente molto più importante che queste rechino comunque una testimonianza: “la Balbi attraverso le sue opere vuole indurci a riflettere sulle modificazioni che l’uomo addotta sul pianeta e quindi sensibilizzarlo al ricongiungimento con la natura al fine di ricondurlo all’armonia con se stesso e con il mondo che lo circonda” (Giulia Jercog, “Vestigia”, pieghevole della mostra di Trieste, Sala degli atti della facoltà di Economia, 11 novembre 2010 – 31 marzo 2011).
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