Opere d'arte d'Ateneo
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- Publication281p510 Temni OtokHmeljak, MatjažL’opera in esame è giunta nelle collezioni dell’ateneo grazie a una donazione dell’artista dopo che nella sala atti della facoltà di economia era stata allestita tra il 15 marzo e il 20 luglio del 2007 una sua personale dal titolo Matjaž Hmeljak Proposta 51. In quell’occasione Hmeljak, allora docente di Fondamenti di informatica ed Elementi di grafica digitale alla Facoltà di Ingegneria dell’Università di Trieste, aveva presentato una serie di elaborazioni algoritmiche stampate con procedimento digitale su supporti rigidi, rinunciando alle potenzialità visive dell’immagine video ma allo stesso tempo rendendole immediatamente fruibili. Hmeljak infatti aveva iniziato a dedicarsi all’arte intorno al 1970 collaborando con Edward Zajec, uno dei pionieri della computer-art in Italia, e realizzando progetti che sfruttavano le funzioni algoritmiche dei processori per ottenere rappresentazioni grafiche. Dopo aver concluso intorno al 1984 questo percorso, l’artista ha iniziato a lavorare alla scrittura di programmi per la creazione di strutture visive per arrivare progressivamente all’animazione delle immagini stesse. Per quanto tutta la sua produzione sia frutto di algoritmi elaborati al computer, rimane evidente che ogni sua creazione derivi da una serie di ‘errori’ indotti dall’operatore e sia frutto di una selezione finale che spetta a lui e a lui soltanto. Hmeljak è diventato così uno degli interpreti più significativi di un orientamento dell’arte digitale che si può definire con buona approssimazione espressionismo geometrico astratto. Per questo suo procedere Matjaž Hmeljak può essere definito algorista, colui cioè che utilizza gli algoritmi generati da un elaboratore elettronico per creare le proprie opere. Dal punto di vista strettamente linguistico si tratta di una crasi tra algoritmo e artista, ma è anche una sintesi tra le capacità operative della macchina e quelle dell’uomo, oppure tra due sistemi possibili, entrambi con infinite possibilità. Algorista è lo stesso appellativo che molti studiosi, anche se con accezione diversa, attribuiscono al matematico pisano Leonardo Fibonacci: la sequenza numerica che porta il suo nome, dove ogni elemento è uguale alla somma dei due precedenti, aveva affascinato Mario Merz tanto da dedicarle installazioni che risalgono all’inizio degli anni settanta: gli stessi anni in cui Hmeljak si affacciava sul palcoscenico dell’arte digitale. Sembrerebbe paradossale pensare che un’operazione algebrica possa avere una qualche valenza artistica ma basta spostare il fuoco sulla musica e sulla sua continua interazione con i processi matematici per comprendere subito come sia possibile una tale commistione. Il risultato, per quanto riguarda l’opera in esame, è un caleidoscopio cromatico che può effettivamente ricordare l’isola suggerita dal titolo, un’isola che cambia natura a seconda della paletta di colori che viene proposta dall’elaboratore, diventando via via Otok (Island), Otok Otroških Sanj (Child Dream’s Island), o Temni Otok (Dark Island), variando progressivamente anche la matrice numerica che contraddistingue ogni suo “progetto”. Dare una forma grafica al libero fluire di dati è forse il principale punto di partenza dell’arte di Hmeljak: “più che di un processo di manipolazione del segnale elettronico, si tratta della progettazione e della creazione di nuove strutture visive, in buona sostanza, della restituzione ottica di flussi di energia piegati e ricondotti alla propria interna musicalità. Si disegna così un’inquieta parabola delle relazioni interne tra percezione e sogno, una coscienza che è altro dalla nostra. Ambiguità spaziale e senso di instabilità si coniugano nel procedere verso quella che potremmo definire una razionalità allargata e moltiplicata, un confronto tra la nostra interiorità e il caotico dispiegarsi di forme piegato alle esigenze del processore, uomo o macchina che sia” (De Grassi 2007).
145 81 - PublicationCanto dell'animaFamà, AldoIl dipinto è stato donato all’ateneo triestino dall’artista dopo la mostra personale allestita dall’artista nella sala atti della facoltà di economia tra il 13 ottobre 2006 e il 26 gennaio 2007, la prima di una serie di esposizioni che hanno visto nella sede accademica numerosi artisti, tutti presenti con loro lavori nelle collezioni dell’ateneo. L’opera in esame, firmata è datata 2001, è tra le più rappresentative degli ultimi anni del percorso dell’artista triestino, che ha progressivamente ridotto gli elementi formali dei suoi dipinti per approdare a una efficacissima sintesi visiva e a una “grande pulizia formale nella quale le campiture di colore puro fanno da piano di raccolta per colori altrettanto puri ai quali l’artista si affida in contrappunto reso possibile dall’accostamento di toni caldi e freddi alternati in perfetto equilibrio” (Martelli, L’essenziale e poetica astrazione di Aldo Famà, “Trieste Arte & Cultura”, IV, 9, ottobre 2001, p. 16). Una convergenza che trova puntuale riscontro in Canto dell’anima, frutto come di consueto di una lunga elaborazione formale e materiale. Apparentemente fredda e rigorosa, la pittura di Famà è infatti la risultante di un processo che vive di intuizioni successive, prima rapidamente schizzate, poi strutturate dal punto di vista cromatico, quindi ancora provate in scala ridotta su piccole tele, e infine proposte nel grande formato. Nei dipinti di questi anni gli inserti in rilievo che punteggiano le composizioni diventano costanti imprescindibili: nell’opera in esame sono costituiti da sezioni di cerchio realizzate con lo stesso colore a olio utilizzato normalmente, che viene steso a spatola, ripreso e lavorato a più riprese prima che si secchi. Queste aree vengono quindi incise e screziate da altre e contrastanti tinte. Le campiture geometriche di colore puro che le circondano vengono quindi opacizzate con metodiche tamponature di diluente fino a raggiungere l’equilibrio voluto. In questo apparentemente gratuito accanimento c’è senz’altro mestiere, applicazione e studio ma c’è anche e soprattutto sensibilità, sentimento e ricerca di interne armonie. In questo modo Famà individua un sistema di segni che gli consente di ricomporre i tasselli di un itinerario poetico che trova origine nei tratti di penna con cui immagina le sue tele e si sedimenta progressivamente con la pazienza certosina con cui studia, progetta e realizza, alimentando nel frattempo impressioni che ci vengono restituite con puntualità nei titoli dei suoi lavori: un’elaborazione che gli costa quasi altrettanta fatica.
116 60 - PublicationCase dei minatoriSpacal, LojzeL’opera è stata esposta all’antologica di grafica allestita al Museo Revoltella nel gennaio del 1968, nello stesso anno, un’incisione dello stesso soggetto era presente alla collettiva di artisti giuliani allestita al palazzo delle Esposizioni di Roma (Rassegna di arti figurative e di architettura della Venezia Giulia e della Venezia Tridentina, catalogo della mostra di Roma, Palazzo delle Esposizioni giugno-luglio 1968, Roma, De Luca, 1968, p. 40) Era quello, come ricorda Rodolfo Pallucchini, “il periodo in cui Spacal si provava a fare delle matrici lignee un oggetto tra la pittura e la scultura. Ebbi così la fortuna di entrare nel laboratorio magico in cui viveva e lavorava. Aveva riunito con grande amore i materiali per la sua trasfigurazione poetica e magica a un tempo: relitti di imbarcazioni, reliquie di cancellate, cioè legni corrosi dalle onde marine, dal sole e dalle intemperie, oggetti dove il tempo ha lasciato una traccia inesorabile […] Arricchiva insomma ogni visualizzazione di un alone di fantasia infinitesimale, in una sempre più dosata architettura anteriore […] risolta in un linguaggio di autentica poesia” (Il cammino di Spacal, in Luigi Spacal opera grafica 1936-1967, a cura di G. Montenero, Milano, Vanni Scheiwiller, 1968, pp. 4-5). Alla Galleria del castello di Stanjel si conserva Le case dei minatori in Istria (1967, mm 620x870), pressoché identica nella composizione ma tirata con colori diversi (blu al posto del rosso con l’aggiunta di una campitura in giallo) e un minuto tratteggio nella parte superiore, qui lasciata in bianco (cfr. Galleria L. Spacal. Katalog stalne Spacalove Razstave v Gradu Štanjel Castello di Stanjel. Catalogo della mostra permanente do Spacal nel castello di Štanjel, Trieste, Stella, 1988, n. 75).
192 93 - PublicationCirî gnòt (Cercare ciò che non può trovare)Valentinuz, EnzoL’opera si offre come una sintesi – tanto dal punto di vista formale che contenutistico – della poetica dell’artista che, in tutti i suoi lavori, intesse delle favole stimolate dall’osservazione delle quotidiane difficoltà della vita. Servendosi di leggeri pannelli rivestiti da spessi strati di intonaco sovrapposto, Valentinuz incide la superficie fino a far emergere il colore voluto servendosi di linee sinuose e scoppiettanti da cui discende una calibrata alternanza cromatica di forme. L’apparente astrattismo che ne deriva si trasforma, ad un’attenta analisi, nella ricerca dei protagonisti (umani o animali) di una sorta di danza di figure che si rincorrono contribuendo alla definizione e all’approfondimento del messaggio contenuto nel titolo dell’opera. Forme che si inseriscono l’una nell’altra e che vanno a comporre profili di maggiori dimensioni si possono dunque riconoscere in un gioco enigmistico infinito che, nel caso specifico, allude metaforicamente all’umana paura di fronte al futuro, all’impossibilità di riparare una volta intrapresa una strada, alla necessità della determinazione e della sicurezza in ogni azione. Nella vita come nell’arte ogni sbaglio si paga: impossibile, infatti, modificare l’opera una volta tolta la materia. Allievo di Cesare Mocchiutti all’Istituto d’arte di Gorizia “Max Fabiani”, dopo essersi diplomato in decorazione pittorica murale Valentinuz frequenta l’Accademia di Venezia (senza concluderla) sotto la guida di Bruno Saetti e Carmelo Zotti. Abbandonata la pittura all’inizio degli anni Settanta dopo alcuni significativi successi in concorsi di livello nazionale, si riavvicina all’arte attorno al 2004 riprendendo il proprio percorso nel medesimo punto in cui l’aveva interrotto. L’artista decide infatti di recuperare gli insegnamenti dei suoi maestri e, nel contempo, di cimentarsi in modo attuale con tecniche di sapore antico come la pittura murale e il graffito. Messa a punto una miscela di malta, pigmenti colorati e colle, Valentinuz elabora dei pannelli che gli permettono di raccontarsi e raccontare la vita di ognuno con uno sguardo disincantato e obiettivo senza per questo risultare eccessivamente spietato o pessimista: un equilibrio raggiunto grazie alla complicità dei colori vivaci che l’artista accosta secondo gradazioni armoniose. Donata all’Università degli Studi di Trieste a seguito della sua personale, Cirî gnòt è dunque un esempio della più recente produzione dell’autore che alterna una fitta attività espositiva in personali, collettive ed ex tempore alla definizione di una nuova fase di ricerca avente come fulcro le pietre, frammenti del vicino Carso che possono – anche in questo caso – permettere la narrazione di una storia universale costellata di una miriade di vicende particolari.
116 54 - PublicationCorpi vaganti vacantiCervi Kervischer, PaoloIl dipinto, composto di due tele accostate, è stato donato all’ateneo in occasione della mostra personale dell’artista allestita nella sala atti della sede dell’allora facoltà di Lettere e Filosofia, oggi Dipartimento di Studi Umanistici. Le tele erano state in precedenza esposte al Teatro Stabile Sloveno del capoluogo giuliano in occasione di una rassegna intitolata proprio Corpi vaganti vacanti. Il presupposto dialettico cui si rifà la composizione, un corpo evanescente nella parte alta e un provocante nudo femminile in basso, è quanto mai eloquente nel fissare le polarità di ogni possibile argomentazione: “il corpo e la ragione, il loro incontrarsi e scontrarsi reciproco e infinito, sono infatti i termini di confronto di oltre un secolo di attività artistica in quell’area mitteleuropea di cui Trieste è parte fondante e imprescindibile. Le sagome incerte di queste tele si muovono su questo orizzonte: il corpo nero, maschile, negato e inconoscibile se non nei suoi indefiniti contorni, è anche la memoria volutamente oscurata di quei momenti, il simbolo della negazione di un’appartenenza storica e culturale, oltre naturalmente a rappresentare, in chiave psicoanalitica, la supremazia dell’inconscio e tutto ciò che vi è sotteso. Il corpo nudo femminile, esibito, provocante, grondante di colore, ripaga invece – o meglio, tenta di ripagare – i debiti di una tradizione troppo a lungo dimenticata, si riappropria di qualcosa che è suo e lo è sempre stato, alludendo ancora una volta alla multipolarità delle proprie fonti pittoriche: da Tiziano a Vedova, da Klimt a Kokoschka” (De Grassi 2007). Freudianamente l’eros è l’occasione, la spinta di questa parte dell’operare artistico di Paolo Cervi Kervischer: un eros oscurato, alluso, allegoria dell’esistenza individuale in una società cha fa dell’individualismo un precetto fondante ma nel contempo ne disarticola i presupposti fino a negarli, mistificandone i contenuti. Nella pittura di Paolo Cervi Kervischer si sovrappongono così registri stilistici solo apparentemente contraddittori, in bilico come sono tra la sensualità del tonalismo veneto e la concitazione espressionistica di molta della cultura figurativa austriaca a partire da Schiele e Kokoschka: i corpi diventano così i corpi e i volti di un intero secolo di pittura e non solo. Paolo Cervi Kervischer racconta infatti della memoria storico-artistica troppo spesso tradita della sua città, e a questa tradizione l’artista prova da sempre a riallacciarsi, superando di slancio un secolo di oblio e recuperandone le radici profonde.
148 57 - PublicationDreamy Bule; Pacific Light, Red seaStrathdee, BarbaraSi tratta di due tele di identiche dimensioni, Dreamy Blue e Red Sea, pensate intorno al 1977 en pendant con il titolo complessivo di Pacific Light, e quindi donate dall’artista al Centro Internazionale di Fisica Teorica. Operatrice delle arti visive e pittrice, Barbara Strathdee, originaria di Wellington in Nuova Zelanda, a partire dal 1966 vive per numerosi anni a Trieste, prima di far ritorno alla sua terra d’origine. Si è formata in Nuova Zelanda e a Londra, studiando arte. Dopo aver seguito i corsi della Sommerakademie di Salisburgo diretti da Oskar Kokoschka, a Trieste frequenta la Scuola Libera della Figura del Civico Museo Revoltella, diretta da Nino Perizi. Con il pittore Augusto Cernigoj la Strathdee apprende le tecniche dell’incisione, perfezionate successivamente ad Urbino. È stata illustratrice di libri per bambini. L’artista ha preso parte, in varie parti del mondo, a qualificate rassegne collettive e performance. Ha presentato, inoltre, mostre personali a Ferrara, Trieste, Venezia, Londra, Roma, Bologna, Wellington, Auckland, Christchurch, Udine, Hamilton, Frosinone, Milano. Da iniziali esperienze nella figurazione espressionistica, il suo linguaggio si è evoluto verso le più attuali tendenze dell’arte figurativa, assimilando ogni tecnica che fosse consona alle sue esigenze espressive. Sue opere sono collocate presso il Museo e alla Victoria University di Wellington in Nuova Zelanda.
140 112 - PublicationElementi tecnologici (Elemento bionico 2)Velussi, AdrianoIl dipinto si configura come un momento della riflessione sul rapporto fra la natura e l’uomo, tema con cui l’artista si confronta sin dagli esordi della carriera. Mantenendosi fedele a una maniera astratta, che trova il suo legame con il reale nelle scelte cromatiche compiute, Velussi si è infatti costantemente interrogato sugli esiti della corsa al progresso osservandola con un pessimismo diffuso riscattato, negli ultimi cicli pittorici realizzati, dalla speranza di una rinnovata, futura armonia. Autodidatta, il pittore goriziano ha subito individuato in Max Ernst e Giorgio De Chirico i propri riferimenti ideali giungendo alla creazione dei “manichini meccanici” dopo aver attraversato una fase di arte materica e fortemente sperimentale, caratterizzata da inserzioni di legno e metalliche all’interno di tele contraddistinte da una potente gestualità. Artificiali evoluzioni e adattamenti dell’essere umano a un mondo che lui stesso ha contribuito a modificare, questi automi esprimono la dicotomia fra la naturale missione dell’uomo alla preservazione dell’ambiente in cui vive e la sua ansia di nuovo, un contrasto che pare inevitabilmente destinato a spezzare il legame con quella che originariamente e leopardianamente si presentava come una madre benigna. Al di là dell’astrattismo di fondo e della trasfigurazione che subisce, con il suo corredo di negatività l’uomo rimane comunque al centro dell’opera e della riflessione dell’autore offrendosi all’osservatore come un assemblaggio di pezzi di ricambio che gli permettono di sopravvivere nel caotico sottofondo da lui stesso plasmato. Come in altre tele del medesimo ciclo, in Elementi tecnologici la luminosità diffusa che si irradia dal denso agglomerato centrale simboleggia la fiducia in un riscatto capace di sanare il delicato equilibrio con la realtà. Donata all’Università degli Studi di Trieste a seguito della personale del 2008, l’opera sintetizza le qualità della pittura di Velussi, costruita su una gestualità potente e un cromatismo capace di ipnotizzare l’osservatore. L’intensa attività espositiva dell’artista, membro di diverse Accademie e Associazioni Culturali, si è articolata in una fitta serie di mostre collettive e individuali.
144 96 - PublicationGiardin Pubblico; Via Rossetti; Sacchetta; Largo Pitteri; Teatro Romano; Piazza Trauner; Chiesa di San Silvestro; Tor CuchernaGlanzmann, AmaliaGrazie ad alcune donazioni della Cassa di Risparmio di Trieste, avvenute in tempi diversi, sono giunte nelle collezioni dell’università otto litografie di Amalia Glanzmann raffiguranti diversi scorci di Trieste: la Sacchetta, piazza Trauner, il Teatro romano, la Tor Cucherna, la chiesa di San Silvestro, largo Pitteri e altre due vedute della città nuova, via Rossetti e il Giardin Pubblico. Quello delle vedute cittadine è un filone molto frequentato dalla pittrice triestina che con i mezzi più disparati (dalle tempere agli acquarelli, dai pastelli alle incisioni), non perde occasione di rappresentare scorci pittoreschi, dedicando un’attenzione particolare alla Città Vecchia. L’artista ha vissuto con profonda sofferenza i lavori di sventramento della parte antica della città che negli anni Trenta hanno spazzato via a colpi di piccone l’aspetto più antico di Trieste. La Glanzmann si è impegnata, quindi, a tramandare le vedute più caratteristiche di una città in piena trasformazione. Nelle incisioni dell’Ateneo triestino troviamo soggetti ricorrenti nella produzione della pittrice: vedute della Tor Cucherna, della chiesa di san Silvestro, di piazza Trauner, la piazza del Ghetto vecchio con l’inconfondibile casa con la bifora veneziana, sono contenute anche nel volume La nostra vecchia Trieste che nel 1942 viene dato alle stampe sotto gli auspici di Silvio Benco. Sono venticinque tavole a tempera estremamente gradevoli che rappresentano numerosi scorci cittadini. Il Civico Museo Revoltella di Trieste conserva, inoltre, una ventina di incisioni, alcune donate dalla stessa autrice. Amalia Glanzmann ha la grande capacità di rielaborare la veduta reale conferendole un’atmosfera pittoresca ed incantata. Sono immagini appassionate e di alto valore poetico che trasmettono l’amore della pittrice nei confronti della sua città. Ha scritto Silvio Benco: «per quante fotografie sieno raccolte dell’ultima ora di quella Trieste distrutta e di ogni particolare e quasi di ogni pietra e frammento delle sconvolte sue calli, non v’è nulla che possa farla rivivere nell’anima dei posteri al pari della visione di un’artista, in cui s’è trasmessa l’atmosfera che avvolgeva le cose insieme col sentimento commosso che le avvinceva allo spirito» (La nostra vecchia di Trieste: vedute di Amalia Glanzmann, introduzione di Silvio Benco, Udine, Del Bianco, 1951, p. 5). La formazione di Amalia Glanzmann nasce sotto il segno di Eugenio Scomparini e passa attraverso due preziosissimi soggiorni a Monaco e a Parigi che la mettono in contatto con le novità dell’arte contemporanea. Amalia, tuttavia, in un’epoca intensa, percorsa da molteplici orientamenti, trovò una sua personalissima strada, in sintonia con la sua delicata anima squisitamente femminile, accanto ad una volontà ferma e ad un piglio determinato. Un’altra affascinante figura di donna-pittrice di cui il panorama triestino è ricco, basti pensare ad Elena Germounig, Nidia Lonza e Leonor Fini.
238 419 - PublicationImprovvisazione(2009)Frausin, DanielaL’acquerello è giunto nelle collezioni dell’ateneo in occasione della mostra Danza evanescente allestita presso la Sala degli Atti della Facoltà di Economia tra il 24 giugno e il 12 novembre del 2011. Si trattava di una rassegna incentrata sul duplice interesse dell’artista per la danza e per l’acquerello. Per la prima si trattava di un suo sogno irrealizzato che ispira sottotraccia molte delle sue composizioni sin dagli esordi e affiora anche nei lavori apparentemente più astratti come quello donato all’ateneo triestino. L’acquerello, invece, è indubbiamente la tecnica più amata da Daniela Frausin, quella che meglio le permette di esprimersi con fluidità, lontana dalla severa disciplina imposta dalla grafica, che pure rimane tra i mezzi d’espressione preferiti, o ancora dalla complessità tecnica della pittura più tradizionale. Il termine Improvvisazione usato per il titolo risulta particolarmente adatto per descrivere l’opera in esame, ed evoca anche un immaginario, quello della musica afroamericana, particolarmente adatto per commentare le apparizioni fluttuanti suggerite dalle pennellate delicate e al tempo stesso impetuose che creano con linee morbide e sinuose vere e proprie figure danzanti. Si tratta di apparizioni che non poggiano su un piano preciso e sono solo in parte percettibili nella luce e nelle velature. Prendono forma e si dissolvono nel nulla e poi ricompaiono attraverso lontane trasparenze, come se fossero trascinate in un sogno lontano dai conflitti, dalle tensioni. In questa come nelle altre opere presenti alla mostra dell’ateneo triestino: «il colore acquisisce finalità poetiche, si dilata, si materializza e svanisce; mentre nella luce risiede un potere evocativo: L’artista utilizza luce e colore per dare libero sfogo ai sentimenti e alla tensione drammatica come fossero un eco di complesse scenografie, “intensificatori” dell’espressività» (G. Jercog, Danza evanescente, pieghevole della mostra di Trieste, Sala degli atti della facoltà di Economia, 24 giugno – 12 novembre 2011).
122 76 - PublicationInvernoOstrogovich, CarloL’Inverno della collezione dell’Ateneo triestino va accostato a un altro dipinto di Carlo Ostrogovich conservato nella stessa città: Autunno della collezione della Cassa di Risparmio di Trieste (cfr. Matteo Gardonio, La Collezione d’Arte della Fondazione CRTrieste, Trieste, Fondazione CRTrieste, 2012, p. 208). Si tratta in entrambi i casi di suggestivi brani paesistici che risentono delle atmosfere brumose della Lombardia che hanno incupito la tavolozza di Ostrogovich. Il pittore ha abbandonato la luminosità e i chiassosi accostamenti di colore del periodo fiumano ed è giunto ad una tecnica vibrante dove la pittura viene stesa energicamente con pennellate pastose e spatolate. Scriveva Arturo Marpicati nel 1926: “La sua pennellata è di impeto: focosa, larga, sempre calda. Egli afferra l’anima del paesaggio e la vita delle cose che nel paesaggio si disegna” (Arturo Marpicati, “Augustea”, 16 ottobre 1926). Un entusiasta Silvio Benco aveva recensito la mostra di Ostrogovich presso la Galleria Trieste del 1939 accostandolo alla scuola lombarda ottocentesca, da Fontanesi a Gola: “Fin dalle prime esposizioni sue, di una quindicina d’anni addietro o giù di lì, si vedeva in lui una felice disposizione a rendere lo spirito del paesaggio con immediatezza impressionista e a cercarvi soprattutto l’interpretazione dei momenti atmosferici annuvolati e nebbiosi. Il soggiorno milanese non ha fatto che rafforzare in lui questa tendenza, accostandolo direttamente a quella, che fu pure una delle più belle scuola italiane dell’Ottocento, iniziata dal Fontanesi, ma svoltasi con accento lombardo nel gruppo dei Carozzi, dei Mariani, dei Belloni, e successivamente dei Gola, che ne fu il pittore più forte. Potremmo chiamarla la scuola umida: poiché l’umidità delle atmosfere, la drammaticità particolare che ne acquistano gli impasti del colore, sono il suo elemento e il suo regno» (“Il Piccolo”, 9 settembre 1939). Una mostra tenutasi a cavallo tra il 2002 e 2003 a Fiume ha finalmente rivalutato la figura di Carlo Ostrogovich (Carlo Ostrogovich, 1884-1962: slikar Kvarnera, Rijeka 2002). È stato messo in luce il percorso artistico del pittore, nato a Veglia ma ben presto trapiantato a Fiume dove avviene la sua formazione pittorica da autodidatta e dove si svolge la sua prima attività espositiva, non sempre accompagnata dall’attenzione della critica. Le sue esperienze biografiche si incrociano con le pesanti vicende politiche che riguardano le sue terre tra le due guerre. Il 18 giugno 1931 partì alla volta dell’Italia, sostando, in un primo momento a Trieste, e legandosi successivamente a Milano, dove si stabilì definitivamente.
210 96 - PublicationL'ovale delle apparizioniCarrà, CarloL’ovale delle apparizioni è una litografia che riprende un disegno del 1916 e l’omonimo dipinto del 1918 conservato alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma. Nel secondo dopoguerra, Carrà ormai settantunenne, dopo il suo intenso percorso artistico vive un momento di riflessione sul proprio trascorso. Non è una nostalgica ripetizione di motivi passati ma una vera e propria rimeditazione e approfondimento che coinvolge soprattutto la sua opera grafica. La litografia in oggetto risale al 1952 ed è stata tirata in 200 esemplari oltre a 10 prove dalle Edizioni del cavallino di Venezia nel 1950; la lastra è stata successivamente cancellata. L’opera è ripresa dalla fase metafisica del pittore. È presente tutto l’armamentario attinente: il pesce di rame (che secondo suggestioni paleocristiane rimanda al significato di Cristo), la statua-tennista congelata nell’attimo prima di colpire una pallina ma soprattutto l’eroe della poetica metafisica, il manichino, raffigurato in primo piano in tutta la sua solidità e “misura”. La forma ovale accentua la suggestione di questa ambigua evocazione. Nella scena è calato il silenzio ma alla sconfortante desolazione di De Chirico, Carrà sostituisce un’accorata umanità. Il vivace colorismo è frutto di un’accurata ricerca di Carrà in questa direzione. Il pittore per la prima volta sperimenta il colore nelle incisioni ricercando trasparenze più delicate quasi da acquarello. Nella versione litografica, ci sono numerose variazioni rispetto al dipinto: manca il veliero all’orizzonte e il telegrafo a fili piramidali ed il manichino è più semplificato. Tutto appare più sgombro, spoglio e desolato. Forte è la tendenza alla semplificazione, alla riduzione degli elementi compositivi. La litografia riscopre il valore del silenzio, l’esigenza di fermare il gioco della vita per cercarne il senso, come sospesa è la partita della statua-tennista. L’ovale delle apparizioni dimostra come l’opera grafica di Carrà si intreccia profondamente con l’opera pittorica e non si tratta di una componente secondaria ma di un’importante mezzo di sperimentazione e di uno strumento utilissimo per diffondere il linguaggio dell’arte ed educare ed elevare il gusto della popolazione proprio perché è agile ed economico. Essa riveste quindi un importante ruolo didattico e sociale: «Che la stampa artistica – scrive – assai più del quadro sia di facile divulgazione e quindi assai più dei dipinti propagatrice del gusto, è cosa certa; […] Sono convinto che appunto per la sua dote divulgatrice, l’acquaforte e tutte le altre forme d’incisione-silografia, litografia, ecc. – sono le forze che meglio possono servire a rialzare il gusto della gente, ahimè, quanto mai incerto ed arretrato. Se non svilupperemo prima l’amore al bianco e nero, è difficile poter preparare quel rinnovamento del gusto collettivo che oggi tutti gli artisti dicono di avere a cuore» (C. Carrà, Bianco e nero di Fattai, “L’Ambrosiano”, Milano, 7 novembre 1928 riportato in I miei ricordi: l’opera grafica 1922-1964, catalogo della mostra di Milano, 25 marzo-29 maggio 2004, a cura di E. Pontiggia, Milano 2004, p. 10) Il pittore ha imparato l’arte dell’incisione da Giuseppe Guidi che aveva aperto un laboratorio calcografico proprio nella casa milanese in cui viveva Carrà. Il pittore, quasi pioniere dell’incisione negli anni ’20, riprende questo mezzo espressivo dopo il ’44, quando ormai era oggetto di attenzione da parte del pubblico e dei collezionisti. Carrà ha proseguito, quindi, incessantemente, la sua ricerca sulle potenzialità espressive e liriche dell’incisione rispolverando anche tutto l’armamentario metafisico. Del resto lui stesso lo diceva: «Forse che gli oggetti da disegno, i manichini, i pesci di rame, i biscotti, le carte geografiche sono meno degne di studio delle mele, delle bottiglie e delle pipe che hanno reso grande il pittore Paul Cézanne? » (Carrà, Tutti gli scritti, citato in Carlo Carrà (1881-1966), catalogo della mostra di Roma, 15 dicembre 1994- 28 febbraio 1995, a cura di A. Monferini, Milano 1994, p. 87).
3067 430 - PublicationL'uomo che attinge dell'acqua o Paesaggio con una grande stradaValli, AntonioLa stampa è una copia ottocentesca di un originale tardo seicentesco. L’Istituto Nazionale della Grafica di Roma conserva l’incisione originale realizzata a bulino del 1684 disegnata da Pierre Monier (Blois 1641 – Paris 1703; Monier Pierre, ad vocem, in Allegemeines Lexikon der Bildenen Künstler, Verlag von E. A. Seeman, Leipzig 1931, vol. XXV, p. 66) e incisa da Etienne Baudet (Vineuil les Blois 1638- Paris 1711; M. Préaud, ad vocem, Baudet Etienne, in Saur , Allgemeines Künstler-Lexikon…, 7, München-Leipzig, K. G. Saur, 1993, p. 518) tratta da un dipinto di Nicolas Poussin (cfr. Istituto Nazionale della Grafica Roma, inv. FC68084, vol. 43H24, mm 575 x 760, proprietà dell’Accademia Nazionale dei Lincei, in deposito dal 1895). Baudet, infatti, ha realizzato una serie di quattro incisioni da Paesaggi di Poussin nel 1684 (Le voyageur se lavant les pieds a la fontaine, ou La Grande route; L’homme puisant de l’eau, ou le Paysage au grand chemin; Une femme de Mégare recueille les cendres de Phocion; Les funérailles de Phocion, ou Deux Hommes portant le cadavre de Phocion), da disegni di Pierre Monier, dedicate al principe di Condé (G. Wildenstein, Les graveurs de Poussin au XVIIe siècle, in “Gazette des beaux-arts”, VI, vol. 45-46, 1955, pp. 323-329, nn. 182-185; G. Wildenstein, Catalogue des graveurs de Poussin par Andresen, in “Gazette des beaux-arts”, VI, vol. 46, 1962, pp. 199- 200, nn. A444-447). L’incisione qui esaminata, identificata con il titolo L’homme puisant de l’eau, ou le Paysage au grand chemin (Wildenstein 1955, pp. 325-326, n. 183) riprende in modo preciso l’analogo soggetto che Poussin aveva dipinto lo stesso anno e che Friedländer ha identificato con la tela del 1648 della collezione del cavalier Lorraine dal titolo The Roman Road (via Domitiana) e conservata alla Dulwich Picture Gallery di Londra (1914, p. 119). Il dipinto originale di Poussin, realizzato “au commencement de l’année 1648 il finit [...] un païsage où est un grand chemin, qui est dans le Cabinet du Chevalier de Lorraine” (A. Félibien, Entretiens sur les vie set les ouvrages des plus excellents peintres…, IV, 1685, ed. Londra 1705, p. 48) è andato disperso (J. Thuillier, L’Opera completa di Poussin, Milano, Rizzoli, 1974, n. 157, p. 105). Se ne ricordano più versioni: una – che Blunt riteneva essere l’originale – si conserva al Dulwich College di Londra, (Nicolas Poussin, catalogo della mostra di Parigi, Musée National du Louvre, a cura di A. Blunt, Paris, éditions des Musèes Nationaux, 1960, pp. 114-115, cat. 84); tra le altre numerose copie, una databile alla metà del Settecento, si conserva in Italia e appartiene alle collezioni di Banca Intesa San Paolo (inv. A.B- 00129A-D/IS, cm 98,5 x 135,5). Il dipinto da cui è tratta l’incisione è testimonianza della fase tarda della produzione di Poussin, del momento in cui l’artista francese si interessa alla pittura di paesaggio, a partire dal suo rientro a Parigi nel 1642, quando nelle composizioni la natura inizia ad assumere un ruolo predominante rispetto alla storia narrata, grazie all’influsso delle opere di Adam Elsheimer, Annibale Carracci e Domenichino che aveva potuto vedere a Roma (Nicolas Poussin 1960, pp. 268-300). Poussin realizza i quattro dipinti di argomento archeologizzante negli stessi anni in cui è impegnato nella seconda serie dei Sette Sacramenti di Chantelou, dove è evidente anche un forte interesse antiquario e dove la natura è riletta in chiave antichizzante. Cropper e Dempsey mettono a confronto i due dipinti londinesi che Poussin realizza in pendant, intitolati Strada greca della National Gallery e Strada romana della Dulwich Picture Gallery, notando come nella raffigurazione della strada romana, identificata con la via Domitiana che da Roma percorreva la costa campana, con i suoi ponti, le pietre miliari e le cisterne poste a beneficio dei viaggiatori che la percorrevano, l’artista francese fosse intenzionato a celebrare il genio dell’abilità costruttiva dei romani in grado di civilizzare – in questo modo – l’antica natura selvaggia. Ed è così che le strutture classiche e le antiche rovine che animavano la campagna romana vengono da Poussin poeticamente idealizzate nel tentativo di ricostruire idealmente il mondo del cristianesimo delle origini (E. Cropper, C. Dempsey, Nicolas Poussin, friendship and the love of painting, Princeton, Princeton University Press, 2000, pp. 281-289, 342 n. 11). Oltre ai numerosissimi incisori francesi e fiamminghi seicenteschi, tra i quali si ricordano gli Audran, Jean Le Pautre, l’olandese Cornelis Bloemaert e il suo allievo Etienne Baudet, Nicolas Poussin annovera anche una serie di incisioni meno numerose opera di artisti attivi nel Settecento fino ai primi decenni dell’Ottocento, tra i quali si può ricordare anche la stampa qui esaminata (Wildenstein 1955, pp. 81-92). Nel 1819 l’incisore faentino Antonio Valli (Faenza 1792-Roma 1827 ca.) esegue un’acquaforte intitolata Paesaggio con strada selciata (cfr. ING Roma, inv. FC52159, vol. 41H8, mm 327 x 402, proprietà dell’Accademia Nazionale dei Lincei, in deposito dal 1895) che riproduce il dipinto di Poussin e si rifà alla serie del Baudet, di cui l’Istituto Nazionale della grafica di Roma possiede la matrice calcografica (cfr. Istituto Nazionale della Grafica, Roma, inv. 685/5, Fondo Volpato, mm 329 x 407). L’artista, che aveva ricevuto la prima formazione alla scuola di Giuseppe Marri e Giovanni Folo, ha trascritto numerosi paesaggi da alcuni dei maggiori pittori del Seicento come Poussin e Claude Lorrain. Le sue stampe e alcuni suoi rami si conservano tra la Calcografia Nazionale di Roma, la Pinacoteca di Faenza e la Biblioteca di Forlì (Valli Antonio, ad vocem, Allegemeines Lexikon der Bildenen Künstler, Leipzig, Verlag von E. A. Seeman, 1926, vol. XXXIV, pp. 82-83; Comanducci 1945, IV, p. 1994; Petrucci 1953, p. 123; Dizionario enciclopedico Bolaffi dei pittori e degli incisori italiani: dall’XI al XX secolo, Torino-Milano, Bolaffi, 1972-1976, IX, p. 233). La sua attività si caratterizza anche per la collaborazione con il calcografo Antonio Testa attivo a Roma agli inizi dell’Ottocento, come testimoniato da questa incisione (Comanducci 1945, IV, p. 1908). La stampa presenta in basso oltre alle indicazioni di responsabilità anche una citazione delle Georgiche di Virgilio (II, vv. 485-486) “Rura mihi rigui placeant/ in vallibus amnes, flumina”, “piacciano a me le campagne e i fiumi che irrigano le vallate”, e continua dicendo “possa io amare anche senza gloria le selve ed i corsi d’acqua”.La stampa è una copia ottocentesca di un originale tardo seicentesco. L’Istituto Nazionale della Grafica di Roma conserva l’incisione originale realizzata a bulino del 1684 disegnata da Pierre Monier (Blois 1641 – Paris 1703; Monier Pierre, ad vocem, in Allegemeines Lexikon der Bildenen Künstler, Verlag von E. A. Seeman, Leipzig 1931, vol. XXV, p. 66) e incisa da Etienne Baudet (Vineuil les Blois 1638- Paris 1711; M. Préaud, ad vocem, Baudet Etienne, in Saur , Allgemeines Künstler-Lexikon…, 7, München-Leipzig, K. G. Saur, 1993, p. 518) tratta da un dipinto di Nicolas Poussin (cfr. Istituto Nazionale della Grafica Roma, inv. FC68084, vol. 43H24, mm 575 x 760, proprietà dell’Accademia Nazionale dei Lincei, in deposito dal 1895). Baudet, infatti, ha realizzato una serie di quattro incisioni da Paesaggi di Poussin nel 1684 (Le voyageur se lavant les pieds a la fontaine, ou La Grande route; L’homme puisant de l’eau, ou le Paysage au grand chemin; Une femme de Mégare recueille les cendres de Phocion; Les funérailles de Phocion, ou Deux Hommes portant le cadavre de Phocion), da disegni di Pierre Monier, dedicate al principe di Condé (G. Wildenstein, Les graveurs de Poussin au XVIIe siècle, in “Gazette des beaux-arts”, VI, vol. 45-46, 1955, pp. 323-329, nn. 182-185; G. Wildenstein, Catalogue des graveurs de Poussin par Andresen, in “Gazette des beaux-arts”, VI, vol. 46, 1962, pp. 199- 200, nn. A444-447). L’incisione qui esaminata, identificata con il titolo L’homme puisant de l’eau, ou le Paysage au grand chemin (Wildenstein 1955, pp. 325-326, n. 183) riprende in modo preciso l’analogo soggetto che Poussin aveva dipinto lo stesso anno e che Friedländer ha identificato con la tela del 1648 della collezione del cavalier Lorraine dal titolo The Roman Road (via Domitiana) e conservata alla Dulwich Picture Gallery di Londra (1914, p. 119). Il dipinto originale di Poussin, realizzato “au commencement de l’année 1648 il finit [...] un païsage où est un grand chemin, qui est dans le Cabinet du Chevalier de Lorraine” (A. Félibien, Entretiens sur les vie set les ouvrages des plus excellents peintres…, IV, 1685, ed. Londra 1705, p. 48) è andato disperso (J. Thuillier, L’Opera completa di Poussin, Milano, Rizzoli, 1974, n. 157, p. 105). Se ne ricordano più versioni: una – che Blunt riteneva essere l’originale – si conserva al Dulwich College di Londra, (Nicolas Poussin, catalogo della mostra di Parigi, Musée National du Louvre, a cura di A. Blunt, Paris, éditions des Musèes Nationaux, 1960, pp. 114-115, cat. 84); tra le altre numerose copie, una databile alla metà del Settecento, si conserva in Italia e appartiene alle collezioni di Banca Intesa San Paolo (inv. A.B- 00129A-D/IS, cm 98,5 x 135,5). Il dipinto da cui è tratta l’incisione è testimonianza della fase tarda della produzione di Poussin, del momento in cui l’artista francese si interessa alla pittura di paesaggio, a partire dal suo rientro a Parigi nel 1642, quando nelle composizioni la natura inizia ad assumere un ruolo predominante rispetto alla storia narrata, grazie all’influsso delle opere di Adam Elsheimer, Annibale Carracci e Domenichino che aveva potuto vedere a Roma (Nicolas Poussin 1960, pp. 268-300). Poussin realizza i quattro dipinti di argomento archeologizzante negli stessi anni in cui è impegnato nella seconda serie dei Sette Sacramenti di Chantelou, dove è evidente anche un forte interesse antiquario e dove la natura è riletta in chiave antichizzante. Cropper e Dempsey mettono a confronto i due dipinti londinesi che Poussin realizza in pendant, intitolati Strada greca della National Gallery e Strada romana della Dulwich Picture Gallery, notando come nella raffigurazione della strada romana, identificata con la via Domitiana che da Roma percorreva la costa campana, con i suoi ponti, le pietre miliari e le cisterne poste a beneficio dei viaggiatori che la percorrevano, l’artista francese fosse intenzionato a celebrare il genio dell’abilità costruttiva dei romani in grado di civilizzare – in questo modo – l’antica natura selvaggia. Ed è così che le strutture classiche e le antiche rovine che animavano la campagna romana vengono da Poussin poeticamente idealizzate nel tentativo di ricostruire idealmente il mondo del cristianesimo delle origini (E. Cropper, C. Dempsey, Nicolas Poussin, friendship and the love of painting, Princeton, Princeton University Press, 2000, pp. 281-289, 342 n. 11). Oltre ai numerosissimi incisori francesi e fiamminghi seicenteschi, tra i quali si ricordano gli Audran, Jean Le Pautre, l’olandese Cornelis Bloemaert e il suo allievo Etienne Baudet, Nicolas Poussin annovera anche una serie di incisioni meno numerose opera di artisti attivi nel Settecento fino ai primi decenni dell’Ottocento, tra i quali si può ricordare anche la stampa qui esaminata (Wildenstein 1955, pp. 81-92). Nel 1819 l’incisore faentino Antonio Valli (Faenza 1792-Roma 1827 ca.) esegue un’acquaforte intitolata Paesaggio con strada selciata (cfr. ING Roma, inv. FC52159, vol. 41H8, mm 327 x 402, proprietà dell’Accademia Nazionale dei Lincei, in deposito dal 1895) che riproduce il dipinto di Poussin e si rifà alla serie del Baudet, di cui l’Istituto Nazionale della grafica di Roma possiede la matrice calcografica (cfr. Istituto Nazionale della Grafica, Roma, inv. 685/5, Fondo Volpato, mm 329 x 407). L’artista, che aveva ricevuto la prima formazione alla scuola di Giuseppe Marri e Giovanni Folo, ha trascritto numerosi paesaggi da alcuni dei maggiori pittori del Seicento come Poussin e Claude Lorrain. Le sue stampe e alcuni suoi rami si conservano tra la Calcografia Nazionale di Roma, la Pinacoteca di Faenza e la Biblioteca di Forlì (Valli Antonio, ad vocem, Allegemeines Lexikon der Bildenen Künstler, Leipzig, Verlag von E. A. Seeman, 1926, vol. XXXIV, pp. 82-83; Comanducci 1945, IV, p. 1994; Petrucci 1953, p. 123; Dizionario enciclopedico Bolaffi dei pittori e degli incisori italiani: dall’XI al XX secolo, Torino-Milano, Bolaffi, 1972-1976, IX, p. 233). La sua attività si caratterizza anche per la collaborazione con il calcografo Antonio Testa attivo a Roma agli inizi dell’Ottocento, come testimoniato da questa incisione (Comanducci 1945, IV, p. 1908). La stampa presenta in basso oltre alle indicazioni di responsabilità anche una citazione delle Georgiche di Virgilio (II, vv. 485-486) “Rura mihi rigui placeant/ in vallibus amnes, flumina”, “piacciano a me le campagne e i fiumi che irrigano le vallate”, e continua dicendo “possa io amare anche senza gloria le selve ed i corsi d’acqua”.
200 75 - PublicationLaguna di Grado(1953)Sambo, EdgardoIl dipinto si configura come un unicum nella produzione di Sambo. Dal punto di vista stilistico, infatti, l’opera può essere messa a confronto con i primi lavori dell’artista che, dopo aver appreso i rudimenti della pittura presso Giovanni Zangrando, approfondì la propria preparazione attraverso viaggi di studio a Venezia, Vienna e Monaco di Baviera. Nel seguente periodo romano, reso possibile dalla vittoria della borsa di studio Rittmeyer, il postimpressionismo e le eleganze decorative tipicamente secessioniste con cui era finora entrato in contatto lasciarono spazio al libero dispiegarsi di colori avulsi dalla realtà e contrastanti, resi ancor più innaturali da un uso spregiudicato della luce. I risultati di questo sperimentalismo condussero alle positive affermazioni di Sambo nell’ambito della Prima e Terza Esposizione della Secessione romana (1913, 1915) attraverso opere come Macchie di sole (Cataldi 1999, cat. n. 38, p. 52) presentato anche all’Esposizione Internazionale per l’apertura del Canale di Panama del 1914. Sebbene dal punto di vista cromatico il dipinto manifesti un’evidente tangenza con Foro romano, realizzata attorno al 1913 e caratterizzata dall’adozione delle medesime tonalità di violetto (ivi, cat. 42, p. 55) dal punto di vista del soggetto trattato e dell’anno della sua esecuzione l’opera deve essere messa in relazione con le marine realizzate negli anni Quaranta. Benché in tali opere la composizione risulti palesemente più pacata e influenzata dal neocubismo (cui l’artista si avvicina negli ultimi anni della propria attività) in esse si possono ravvisare delle sparute citazioni di cromie che con la loro brillantezza finiscono per movimentare la stasi dominante. Se in Marina (1938; ivi, cat. 122, p. 92) Sambo sembra voler sperimentare l’effetto provocato dai tocchi di pennello “a mosaico” che adopererà in maniera consistente nella Laguna di Grado, più timidi filamenti di colore verde e azzurro percorrono la superficie d’acqua posta in primo piano in Punta S. Salvatore (1940 circa; ivi, cat. n. 128, p. 97). L’artista triestino approfondirà l’atmosfera silente e la calma quasi palpabile che connotano queste opere in quello che è l’ultimo paesaggio del suo catalogo, Paesaggio carnico, realizzato nel 1950 e pervaso da un senso di quiete amplificata dalla solidità dei volumi che lo compongono (ivi, cat. n. 209, p. 136). Presentato alla personale ospitata nella Sala comunale d’arte di Trieste fra il dicembre del 1953 e il gennaio seguente, Laguna di Grado non si può dunque semplicisticamente intendere come un nostalgico revival di tendenze del passato ma piuttosto come un loro originale e attuale ripensamento svolto gradatamente a partire dalla fine degli anni Trenta. Il pointillisme cui si appellano i tocchi blu e gialli disseminati nel paesaggio marino non vanno infatti a costruire delle forme precise ma si giustappongono sovrapponendosi a un fondale precostituito e di per sé piuttosto uniforme allo scopo di irradiarlo di punti luce con esplicita funzione decorativa. Unico oggetto chiaramente definito, la barca alla deriva viene precisata da pennellate rapide e spesse che, in modo quasi infantile, ne descrivono solo gli elementi di spicco maggiore (lo scafo, la vela) lasciando in una confusa indeterminatezza gli altri dettagli. Rispetto alla contemporanea produzione di Sambo il dipinto si configura come una sorta di divagazione da un percorso che, sin dalla fine degli anni Venti, aveva portato l’artista triestino a una personale riflessione sulle problematiche compositive di Novecento e del gruppo di Valori Plastici, condividendone le tensioni verso un’arte orientata alla semplificazione e a una meditata osservazione del reale. Le composizioni dai toni ribassati e modellate secondo una sintesi che avevano avvicinato Sambo a soluzione neocubiste (visibili già in Espropriazione per pubblica sicurezza, del 1934; cfr. ivi, cat. 115, p. 87) vengono dunque momentaneamente abbandonate per un ritorno di fiamma dell’artista verso i fuochi d’artificio cromatici della sua prima produzione.
196 308 - PublicationLe bagnantiCanali, GiuseppeIl dipinto, acquistato dall’Università di Trieste dopo la sua presenza all’Esposizione nazionale di pittura italiana contemporanea, indetta dallo stesso Ateneo nel 1953, e dato in deposito al Dipartimento di Medicina, è attualmente disperso. Giuseppe Canali, già dall’età di 16 anni, si dedica alla pittura, apprendendo anche la tecnica dell’affresco. Trasferitosi a Roma, viene a contatto con la nuova generazione romana di pittori; frequenta i luoghi ove questi artisti sono soliti ritrovarsi, come scuole e locali e condivide con loro intenti innovatori Conosce e frequenta, così, Mafai, Ziveri, Guttuso, Dorazio, Cascella, Severini, i futuristi romani, il conterraneo Pericle Fazzini. All’inizio degli anni ’40 entra in sodalizio umano ed artistico con Mario Tozzi, rientrato da Parigi per eseguire alcuni affreschi. Quest’ ultima esperienza lascia un segno sull’arte di Canali, che ha reso pittorico l’affresco, cercando di avvicinarsi ad esso con le sue tele dipinte. Numerose le sue partecipazioni alle più importanti mostre di pittura nazionali e all’estero. Presente diverse volte alla Quadriennale di Roma (dalla II del 1935 alla IX del 1965-66), vi fu premiato alla VII edizione del 1955-56, e alla XXII Biennale di Venezia. Sue opere sono state acquistate dalla Galleria d’Arte Moderna di Roma, da altre Istituzioni pubbliche, ed è presente in numerose raccolte private italiane e di collezionisti in Europa. Giuseppe Canali non si è omologato entro alcun linguaggio, non ha seguito gli amici dall’Espressionismo al più scoperto tonalismo, ma ha mantenuto una sua coerenza, senza mai rinnegare, tuttavia, l’originaria passione per i colori puri e per l’affresco. É stato vicino a Ferruccio Ferrazzi, affiancandolo alla cattedra di Pittura dell’Accademia di Belle Arti di Roma. Ha eseguito affreschi in varie parti d’Italia, anche al Palazzo di Giustizia di Milano, insieme a Tozzi; ha lavorato nel Santuario di Santa Maria a Mare, nel Fermano, lasciandovi un ciclo di affreschi. All’interno del percorso pittorico di Giuseppe Canali una categoria va richiamata: quella dell’immagine come “mito”, come sintesi narrativa di una personale tessitura cromatica della finzione, che si affida al volto e al corpo umano. Recuperati nella loro valenza poetica, il volto e il corpo umano non generano sgomento e angoscia, ma vengono visti come elementi di una narrazione che vuole invitare a riappropriarsi di un’originarietà, di un modo di essere più autentico, avvalendosi dello stupore della composizione e dell’immagine.
132 70 - PublicationLicosatetratopoSaffaro, LucioCome dimostra il timbro sul verso, la litografia, databile al 1970, è stata probabilmente presentata alla personale dell’artista allestita nel maggio 1971 alla Galleria Torbandena di Trieste, curata da Luigi Lambertini. In quell’occasione è stata probabilmente acquistata per le collezioni dell’allora Istituto di Architettura ed Urbanistica dell’Ateneo triestino Nato a Trieste nel 1929, Lucio Saffaro segue studi di Fisica e di Logica all’Università di Bologna dove, dopo la laurea, diviene titolare di cattedra, pur mantenendo vivi i contatti con la sua città natale. Egli è stato pittore, scrittore, matematico; le sue ricerche sulla determinazione di nuovi poliedri sono state oggetto di numerose conferenze, tenute dall’artista in Italia ed all’estero. Un anno dopo la sua scomparsa (1998) è stata istituita, secondo il volere dell’artista, la Fondazione che porta il suo nome. Convintosi, nel corso degli anni Cinquanta, delle scarse possibilità di ottenere risultati originali seguendo gli orientamenti dominanti in quel periodo, Saffaro rivolge l’attenzione all’interno della propria cultura scientifica, agli studi sull’arte rinascimentale (in particolare sulla prospettiva) in un serrato confronto tra mondo classico e sapere moderno, tra cultura antica e cultura contemporanea. La base dell’esperienza di Lucio Saffaro poggia sulla solidità dei teoremi della matematica: questo afferma una volta in più che, nella storia dell’arte, analisi e poetica non sono realtà contendenti. L’opera grafica è al centro della sua arte: assieme agli studi sulle architetture già esistenti, egli svolge ricerche su nuovi poliedri. Egli, infatti, idea nuovi poliedri di fascino innegabile. Nel 1966 scrive il Tractatus logicus prospecticus, che è una raccolta di 120 disegni: si tratta di un’esplorazione teorica sulle possibilità offerte dalla prospettiva, che diverrà il cardine di tutta la sua opera. Nel Trattato Saffaro ci spiega il rapporto tra un’idea e la sua rappresentazione. Molti di questi disegni sono serviti come punto di partenza per le tante litografie realizzate, e molti sono stati eseguiti espressamente per essere tradotti nella tecnica litografica. La pittura di Saffaro si sviluppa nella proposta visiva di forme geometriche costruite in una perfetta simbiosi di linee e di colori, tanto che il risultato finale è di un forte impatto metafisico. Se ne ricava un vibrante senso spaziale, una dimensione che, pur nella logica della forma, non è aliena da una concezione poetica dell’universo. L’opera di Saffaro presenta caratteri di poeticità e di rigore scientifico, di invenzione fantastica e di riflessione progettuale. La poetica dell’artista oscilla tra metafisica e astrazione. Le non-strutture eludono lo spazio. Non lo rispecchiano come reale, ma come illusoriamente esistente. Si chiedeva a questo proposito Luigi Lambertini: “la prospettiva è solo l’arte di rappresentare gli oggetti in modo tale che diano l’impressione di quella che si suppone sia la realtà che abbiamo attraverso una visione diretta, con il suggerimento traslato della profondità, o non è forse anche una trattazione che, per comparazioni logiche, da un canto astrae e dall’altro, quanto più raggiunge i termini dell’astrazione, diviene realtà concreta, introducendoci in una sorta di metafenomenologia?”.
154 80 - PublicationLo specchio di FaenzaSaffaro, LucioCome per Licosatetratopo, anche per questa litografia, datata 1966, si può ipotizzare un acquisto da parte del professor Montesi, storico direttore dell’Istituto di Architettura ed Urbanistica dell’ateneo triestino. In questo caso l’artista trasfigura un luogo fisico per trasformarlo in un luogo della mente. Suonano a questo proposito emblematiche le parole di Giuseppe Marchiori: “Saffaro amabilmente conforta con la sua lucida intelligenza alla fuga dal “tempo degli altri”, sostituito da un proprio tempo, composto di lente scoperte, volto alla conquista di nuove leggi prospettiche, che aggiungono a quella visibile l’invisibile trama delle linee fino a ieri segrete. Ci voleva un uomo come Saffaro, dedito a studi severi, per dipanare le linee nuove nel labirinto degli intrecci più noti con una paziente e acuta ricerca. In tal modo le immagini di Saffaro nascono e si costruiscono dall’interno di svolgimenti imprevedibili, secondo un processo logico, che può condurre, sì, alla enunciazione di nuovi teoremi, ma anche alla scoperta di nuove strutture di contenuto intensamente poetico. La tentazione di attribuire certi risultati alla “magia” di uno spirito illuminato è sempre grande in me, che considero la parola ricca di molti significati, una parola a più dimensioni” (G. Marchiori, Saffaro solo, pieghevole della mostra di Trieste, Galleria Comunale d’arte, aprile 1968).
128 75 - PublicationMiniera in IstriaSpacal, LojzeNon sono note le circostanze dell’approdo di quest’opera nelle collezioni del Centro Internazionale di Fisica Teorica. Come per molte delle xilografia di questo momento della carriera di Spacal, anche per quella in esame si possono rintracciare redazioni autonome grazie all’utilizzo di legni con inchiostrature diverse. Si sposano bene a quest’opera alcune importanti osservazioni dell’artista a proposito della xilografia e della sua componente ‘sociale’: “perché preferisco la xilografia? Questà è più aderente al mio temperamento, dato che amo i forti contrasti timbrici in larghi campi tra bianchi e enri o le punteggiature del legno dolce segato di testa. C’è però anche una ragione sociale: di poter offrire cioè a trenta persone a basso costo la stessa opera originale fatta col massimo impegno e responsabilità, ciò che non accade sempre nella pittura trattandosi di una opera unica” (I a Triennale Internazionale della xilografia contemporanea, catalogo della mostra di Carpi, Castello dei Pio giugno-novembre 1969, a cura di E. Tavoni, E. Guidi, Carpi, Città di Carpi, 1969, p. 234). Il tema affrontato, ancora una volta un ancestrale indagine sulle realtà sociali ed economiche dell’Istria, “rispecchia la sua condizione umana, che affonda le radici in una particolare cultura mitteleuropea, quella triestina, in un determinato paesaggio, quello che dalle doline carsiche scende al litorale istriano, e in una specifica temperie popolare (non folcloristica), dove il contadino del Carso, l’operaio della periferia di Trieste, il pescatore dell’Adriatico diventano i simboli di un’amara umanità” (R. Pallucchini, Il cammino di Spacal, in Luigi Spacal opera grafica 1936-1967, a cura di G. Montenero, Milano, Vanni Scheiwiller, 1968, pp. 4-5).
139 66 - PublicationMonumento CarsicoSpacal, LojzeL’opera in esame è stata presentata alla collettiva di Lojze Spacal, Zoran Music e Marcello Mascherini allestita nella primavera del 1969 alla Galleria Torbandena di Trieste e quindi acquistata probabilmente da Pio Montesi, che in quegli anni provvederà in più occasioni a incrementare la dotazione di opere d’arte dell’allora Istituto di Architettura. Spacal era in quegli anni una delle punte di diamante della ricerca artistica della Venezia Giulia, e questa xilografia rispecchia perfettamente quella sorta di epopea carsica che l’artista aveva messo in scena a partire dagli anni cinquanta esplorando progressivamente le potenzialità del mezzo incisorio, sino a riprodurre anche fisicamente gli aspri rilievi di quel territorio: “è il mondo dal quale l’incisore ha attinto i pensieri raccolti in secoli di lavoro, di volontà, di abnegazione, di lotta con la natura, in secoli che dettavano un ordine particolare, silenzio e sobrietà. L’artista non ha mancato di dar fede a nessuno di questi elementi: con la mano, apparentemente pesante come quella del lavoratore di pietre e dell’intagliatore del Carso, li ha colti in immagini durature ed inevitabili, come una realtà anche oggi continuamente presente, una realtà cui il ritmo contemporaneo deve assoggettarsi se vuole esistere, se vuole avere un senso anche lì dove altrimenti nessuno ne avvertirebbe la mancanza” (A. Bassin, Lojze Spacal, Maribor, Založba obzorja, 1967, p. LXIV). Come spesso succede nelle tirature xilografiche di questo momento della produzione di Spacal, i singoli fogli presentano alcune difformità dovute all’utilizzo di più legni che possono presentare inchiostrature diverse. A questo proposito, nel caso dell’opera in esame si può evidenziare come l’esemplare riprodotto nel catalogo generale della grafica presenta un minuto tratteggio nelle campiture bianche sulla destra (cfr. Spacal. L’opera grafica 1935-1986. Catalogo generale, a cura di Carlo Ceschel, Lojze Spacal, Treviso 1986, pp. 112-113, n.129)
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