Opere d'arte d'Ateneo
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Browsing Opere d'arte d'Ateneo by Type "Statue"
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- PublicationAllegoria del fascismo e della lotta alle sanzioniMoschi, MarioIl gigantesco altorilievo era stato commissionato, senza concorso, allo scultore fiorentino Mario Moschi, che già aveva collaborato con Raffaello Fagnoni a Firenze negli anni precedenti (cfr. Fernetti 2010, p. 50) eseguendo dei bassorilievi alla Scuola di applicazioni aeronautiche di Firenze. Come è stato rilevato, il generale riferimento pergameneo evocato per l’intero complesso edilizio del nuovo ateneo Triestino vale anche per i due grandi rilievi, previsti sin dai primi schizzi: essi “non appaiono elementi estranei all’architettura ma parte integrante di essa, come dell’altare ricordato lo era il fregio raffigurante una gigantomachia” (cfr. Sirigatti 1997, p. 270). Nel caso specifico poi il riferimento era anche tematico, visto che si trattava anche qui di rappresentare una lotta immane contro forze oscure, come si poteva dedurre dall’enfatica descrizione della scultura che si leggeva sulle colonne de “Il Piccolo” il giorno dopo l’inaugurazione, avvenuta nel marzo del 1943 dopo tre anni di lavori e forzatamente sottotono a causa delle ristrettezze belliche: “da una parte l’immane drago tricipite che si rizza saettando le lingue forcute, dall’altra un mostruoso serpente che avvolge e minaccia di stritolare nelle sue spire la bellezza e il vigore della giovane vita italiana e nel centro il Duce debella gli orribili mostri”, isolata e con l’aria un po’ smarrita, tra i due gruppi si legge la figura dell’Italia con il canonico copricapo turrito, attonita di fronte agli accadimenti che la circondano. Il tutto era stato realizzato attingendo a un ampio repertorio di citazioni: dal masaccesco Adamo cacciato dal Paradiso, evocato nella figura all’estrema destra, al più trito repertorio dell’iconografia di regime, compreso un improbabile duce nudo a cavallo. Alcuni disegni dell’archivio Fagnoni di recente pubblicati (Fernetti 2010, pp. 53, 55), consentono anche di chiarire, almeno in parte, l’iter compositivo. In una prima fase, a leggere le didascalie dei fogli, i due rilievi dovevano rappresentare rispettivamente le “opere di guerra” e le “opere di pace”, dove le prime avevano come soggetto una carica di figure paludate all’antica con labari e bandiere, guidate da un cavaliere con la spada sguainata e da una slanciata Fama in volo e da una sorta di angelo sterminatore. Di questa prima idea, che pareva calcata da una danza macabra medievale, è poi sopravvissuto solo il cavaliere e una delle figure femminili ‘volanti’, entrambi però inseriti in un contesto molto più statico, dove l’impeto guerriero era stemperato nei due episodi principali: la lotta del condottiero contro il grande dragone alato da una parte, e dall’altra il “mostruoso serpente” che avvolge con le sue spire una figura femminile dai lunghi capelli (quindi non il fascismo come pure è stato scritto) con in mano un ramoscello d’ulivo e nell’altra una fiaccola e un fascio littorio, identificabile piuttosto come l’Italia Fascista aggredita dall’Idra delle sanzioni. Il bozzetto definitivo dell’altorilievo (Sirigatti 1997, p. 270), pressoché identico alla redazione finale, mostra, com’è ovvio, una maggiore morbidezza nei trapassi chiaroscurali, in parte avviliti da una trasposizione fin troppo meccanica da parte degli scalpellini incaricati. Vista la particolare tematica e quanto questa poteva evocare, non è un caso che il rilievo sia stato per molto tempo ‘dimenticato’ dalla storiografia specializzata in quanto solo in minima parte ‘emendato’ (nel volto del duce opportunamente scalpellato) e pochissimo riprodotto, mentre maggiore enfasi sarà data al rilievo gemello, realizzato diversi anni più tardi e di certo più ‘politicamente corretto’.
467 489 - PublicationAnello degli ArgonautiMascherini, MarcelloPer la città di Trieste il completamento del corpo centrale dell’Università per mano di Umberto Nordio e Vittorio Frandoli ha nel dopoguerra una valenza particolare: l’edificio doveva infatti interpretare “la necessità che la cultura italiana di Trieste avesse una palese affermazione ai confini della patria, incorporandosi in un’opera che dominasse per mole e proporzioni tutto il panorama, che si ergesse quale pilone d’ingresso della città sulla via proveniente dal confine” (FAGNONI, NORDIO 1950, p. 5). Per la decorazione del soffitto dell’aula Magna Nordio sceglierà un lavoro di Marcello Mascherini pensato per il soffitto della veranda di prima classe della ristrutturata nave Conte Biancamano, oggi ricomposta al Museo della Scienza e della tecnica di Milano, il grande anello in gesso che raccontava con una sequenza di bassorilievi il mito di Giasone. Narrando del viaggio degli Argonauti lo scultore faceva emergere “il sentimento della separazione e dell’incertezza sul proprio destino, che trova nel mito di fondazione dei propri territori una possibile origine comune tra popoli diversi, capace di unire invece che dividere. Ma nell’ultimo episodio […] Giasone muore schiacciato dalla carena della sua stessa nave mentre dormiva, conferendo all’opera un ulteriore significato simbolico. Può Trieste evitare di rimanere travolta dalla storia? Può Trieste trovare una catarsi nel sacrificio dei suoi territori per ritornare all’Italia? Il Biancamano risorto dalle ceneri della guerra, come una nuova Argo in viaggio per impadronirsi del Vello d’oro, parte per la conquista dell’italianità della città giuliana” (M. Mucci, Architettura e ricostruzione nel periodo del Governo Militare Alleato, in La città delle forme architettura e arti applicate a Trieste 1945-1957, catalogo della mostra di Trieste a cura di S. Caputo, M. Masau Dan, Trieste 2004, p. 121). Significati che giocoforza tornavano amplificati anche nel secondo esemplare della gigantesca opera, destinato appunto a quella sede universitaria che si ergeva ora a difesa di un patrimonio culturale minacciato dopo essere stata concepita nell’anteguerra come sprezzante bandiera di un malinteso senso di italianità (M. De Sabbata, Università, in Trieste 1918-1954 guida all’architettura, a cura di P. Nicoloso, F. Rovello, Trieste, Mgs Press, 2005, pp. 227-234). Al di là di ogni lettura ‘politica’ del rilievo, l’Anello degli Argonauti costituisce un episodio importante nel percorso stilistico di Mascherini: “a partire da esso l’artista si orienta verso quella sintesi puristica dei corpi che caratterizzerà la sua produzione degli anni cinquanta. Gli arti allungati, tenderanno ad assottigliarsi alle estremità, piedi e mani appariranno sottodimensionati, in un processo di consapevole allontanamento dalla pesante eredità stilistica novecentista […] La tipologia così particolare dell’opera (un rilievo circolare sospeso al muro, visto dal basso, con una spiccata vocazione narrativa) ne ha certamente condizionato lo stile. Ma un ruolo non meno importante per le peculiari scelte di sintesi formale lo ebbero i modelli iconografici che Mascherini fece suoi” (Pezzetta 2007, p. 182). Si trattava in primis del Picasso di Guernica, e quindi, vista la tematica affrontata, una vasta gamma di fonti archeologiche già messe puntualmente in luce da Emanuela Pezzetta, tutti materiali che risultarono preziosi per lo sviluppo del linguaggio dell’artista, che proprio negli anni cinquanta conobbe il suo momento migliore.
283 123 - PublicationArcangelo Messagero(1962)Mascherini, MarcelloScultura a soggetto sacro ma collocata a guardia di un luogo laico per eccellenza come il Centro Internazionale di Fisica Teorica, è il colossale Arcangelo Messaggero del 1962, con il quale Mascherini aveva nel gennaio 1974 vinto un concorso bandito dal prestigioso istituto triestino volto all’acquisizione di significative opere d’arte (Appella 2004, p. 197). ‘Difficile’ e complesso, il bronzo aveva fatto parte di quel lotto di immagini, “scabre e petrose […] simboli inquietanti del pietrificarsi della più esaltata vitalità” presentate alla sala personale allestita alla XXXI Biennale veneziana del 1962 (Salvini 1962, p. 58). A differenza del ben più leggibile Arcangelo Gabriele, che lo precede di solo un anno, sin dalla sua apparizione colpiva nell’opera in esame lo slancio sfarfallante e l’iconografia bizzarra, con “l’avveniristica51 testa di antenne esposta sull’ala, ma il suo essere d’albero, di fusto, seguito nei suoi incavi, nei suoi aggetti e persino nei suoi mancamenti, è forse uno degli esempi più didascalicamente vittoriosi tra materia e significato, fra il cercare, il trovare, e lo scegliere e l’aggiungere per modellato, propri nel dominio dell’autore” (Gatto 1969, p. 32). Si trattava di uno dei documenti visivi più importanti dell’inizio di una stagione del tutto nuova per lo scultore triestino: “Di là dal rinnovamento formale, di là dalla novità del tono poetico, rimane ferma l’esigenza profonda di Mascherini di proiettare la realtà sullo schermo del mito: il mito, adesso, della forza primigenia della natura” (Salvini 1962, p. 59); una forza che l’artista cercherà sul campo, calcando con la plastilina le tormentate superfici delle rocce carsiche esposte al vento: “nelle mie opere ricalco le materie vere, dominate da me non casualmente e nelle quali imprigiono la mia volontà […] il modellato non è più espressione di eroismo, di grazie e di bellezza, bensì ricerca, angoscia, per la quale metto nella mia opera un senso drammatico. In particolare l’opera comprende in sé tutti i dubbi di cui è permeata la nostra attualità” (intervista del settembre 1968 in Appella 2004, p. 184).Scultura a soggetto sacro ma collocata a guardia di un luogo laico per eccellenza come il Centro Internazionale di Fisica Teorica, è il colossale Arcangelo Messaggero del 1962, con il quale Mascherini aveva nel gennaio 1974 vinto un concorso bandito dal prestigioso istituto triestino volto all’acquisizione di significative opere d’arte (Appella 2004, p. 197). ‘Difficile’ e complesso, il bronzo aveva fatto parte di quel lotto di immagini, “scabre e petrose […] simboli inquietanti del pietrificarsi della più esaltata vitalità” presentate alla sala personale allestita alla XXXI Biennale veneziana del 1962 (Salvini 1962, p. 58). A differenza del ben più leggibile Arcangelo Gabriele, che lo precede di solo un anno, sin dalla sua apparizione colpiva nell’opera in esame lo slancio sfarfallante e l’iconografia bizzarra, con “l’avveniristica51 testa di antenne esposta sull’ala, ma il suo essere d’albero, di fusto, seguito nei suoi incavi, nei suoi aggetti e persino nei suoi mancamenti, è forse uno degli esempi più didascalicamente vittoriosi tra materia e significato, fra il cercare, il trovare, e lo scegliere e l’aggiungere per modellato, propri nel dominio dell’autore” (Gatto 1969, p. 32). Si trattava di uno dei documenti visivi più importanti dell’inizio di una stagione del tutto nuova per lo scultore triestino: “Di là dal rinnovamento formale, di là dalla novità del tono poetico, rimane ferma l’esigenza profonda di Mascherini di proiettare la realtà sullo schermo del mito: il mito, adesso, della forza primigenia della natura” (Salvini 1962, p. 59); una forza che l’artista cercherà sul campo, calcando con la plastilina le tormentate superfici delle rocce carsiche esposte al vento: “nelle mie opere ricalco le materie vere, dominate da me non casualmente e nelle quali imprigiono la mia volontà […] il modellato non è più espressione di eroismo, di grazie e di bellezza, bensì ricerca, angoscia, per la quale metto nella mia opera un senso drammatico. In particolare l’opera comprende in sé tutti i dubbi di cui è permeata la nostra attualità” (intervista del settembre 1968 in Appella 2004, p. 184).Scultura a soggetto sacro ma collocata a guardia di un luogo laico per eccellenza come il Centro Internazionale di Fisica Teorica, è il colossale Arcangelo Messaggero del 1962, con il quale Mascherini aveva nel gennaio 1974 vinto un concorso bandito dal prestigioso istituto triestino volto all’acquisizione di significative opere d’arte (Appella 2004, p. 197). ‘Difficile’ e complesso, il bronzo aveva fatto parte di quel lotto di immagini, “scabre e petrose […] simboli inquietanti del pietrificarsi della più esaltata vitalità” presentate alla sala personale allestita alla XXXI Biennale veneziana del 1962 (Salvini 1962, p. 58). A differenza del ben più leggibile Arcangelo Gabriele, che lo precede di solo un anno, sin dalla sua apparizione colpiva nell’opera in esame lo slancio sfarfallante e l’iconografia bizzarra, con “l’avveniristica51 testa di antenne esposta sull’ala, ma il suo essere d’albero, di fusto, seguito nei suoi incavi, nei suoi aggetti e persino nei suoi mancamenti, è forse uno degli esempi più didascalicamente vittoriosi tra materia e significato, fra il cercare, il trovare, e lo scegliere e l’aggiungere per modellato, propri nel dominio dell’autore” (Gatto 1969, p. 32). Si trattava di uno dei documenti visivi più importanti dell’inizio di una stagione del tutto nuova per lo scultore triestino: “Di là dal rinnovamento formale, di là dalla novità del tono poetico, rimane ferma l’esigenza profonda di Mascherini di proiettare la realtà sullo schermo del mito: il mito, adesso, della forza primigenia della natura” (Salvini 1962, p. 59); una forza che l’artista cercherà sul campo, calcando con la plastilina le tormentate superfici delle rocce carsiche esposte al vento: “nelle mie opere ricalco le materie vere, dominate da me non casualmente e nelle quali imprigiono la mia volontà […] il modellato non è più espressione di eroismo, di grazie e di bellezza, bensì ricerca, angoscia, per la quale metto nella mia opera un senso drammatico. In particolare l’opera comprende in sé tutti i dubbi di cui è permeata la nostra attualità” (intervista del settembre 1968 in Appella 2004, p. 184).Scultura a soggetto sacro ma collocata a guardia di un luogo laico per eccellenza come il Centro Internazionale di Fisica Teorica, è il colossale Arcangelo Messaggero del 1962, con il quale Mascherini aveva nel gennaio 1974 vinto un concorso bandito dal prestigioso istituto triestino volto all’acquisizione di significative opere d’arte (Appella 2004, p. 197). ‘Difficile’ e complesso, il bronzo aveva fatto parte di quel lotto di immagini, “scabre e petrose […] simboli inquietanti del pietrificarsi della più esaltata vitalità” presentate alla sala personale allestita alla XXXI Biennale veneziana del 1962 (Salvini 1962, p. 58). A differenza del ben più leggibile Arcangelo Gabriele, che lo precede di solo un anno, sin dalla sua apparizione colpiva nell’opera in esame lo slancio sfarfallante e l’iconografia bizzarra, con “l’avveniristica51 testa di antenne esposta sull’ala, ma il suo essere d’albero, di fusto, seguito nei suoi incavi, nei suoi aggetti e persino nei suoi mancamenti, è forse uno degli esempi più didascalicamente vittoriosi tra materia e significato, fra il cercare, il trovare, e lo scegliere e l’aggiungere per modellato, propri nel dominio dell’autore” (Gatto 1969, p. 32). Si trattava di uno dei documenti visivi più importanti dell’inizio di una stagione del tutto nuova per lo scultore triestino: “Di là dal rinnovamento formale, di là dalla novità del tono poetico, rimane ferma l’esigenza profonda di Mascherini di proiettare la realtà sullo schermo del mito: il mito, adesso, della forza primigenia della natura” (Salvini 1962, p. 59); una forza che l’artista cercherà sul campo, calcando con la plastilina le tormentate superfici delle rocce carsiche esposte al vento: “nelle mie opere ricalco le materie vere, dominate da me non casualmente e nelle quali imprigiono la mia volontà […] il modellato non è più espressione di eroismo, di grazie e di bellezza, bensì ricerca, angoscia, per la quale metto nella mia opera un senso drammatico. In particolare l’opera comprende in sé tutti i dubbi di cui è permeata la nostra attualità” (intervista del settembre 1968 in Appella 2004, p. 184).Scultura a soggetto sacro ma collocata a guardia di un luogo laico per eccellenza come il Centro Internazionale di Fisica Teorica, è il colossale Arcangelo Messaggero del 1962, con il quale Mascherini aveva nel gennaio 1974 vinto un concorso bandito dal prestigioso istituto triestino volto all’acquisizione di significative opere d’arte (Appella 2004, p. 197). ‘Difficile’ e complesso, il bronzo aveva fatto parte di quel lotto di immagini, “scabre e petrose […] simboli inquietanti del pietrificarsi della più esaltata vitalità” presentate alla sala personale allestita alla XXXI Biennale veneziana del 1962 (Salvini 1962, p. 58). A differenza del ben più leggibile Arcangelo Gabriele, che lo precede di solo un anno, sin dalla sua apparizione colpiva nell’opera in esame lo slancio sfarfallante e l’iconografia bizzarra, con “l’avveniristica51 testa di antenne esposta sull’ala, ma il suo essere d’albero, di fusto, seguito nei suoi incavi, nei suoi aggetti e persino nei suoi mancamenti, è forse uno degli esempi più didascalicamente vittoriosi tra materia e significato, fra il cercare, il trovare, e lo scegliere e l’aggiungere per modellato, propri nel dominio dell’autore” (Gatto 1969, p. 32). Si trattava di uno dei documenti visivi più importanti dell’inizio di una stagione del tutto nuova per lo scultore triestino: “Di là dal rinnovamento formale, di là dalla novità del tono poetico, rimane ferma l’esigenza profonda di Mascherini di proiettare la realtà sullo schermo del mito: il mito, adesso, della forza primigenia della natura” (Salvini 1962, p. 59); una forza che l’artista cercherà sul campo, calcando con la plastilina le tormentate superfici delle rocce carsiche esposte al vento: “nelle mie opere ricalco le materie vere, dominate da me non casualmente e nelle quali imprigiono la mia volontà […] il modellato non è più espressione di eroismo, di grazie e di bellezza, bensì ricerca, angoscia, per la quale metto nella mia opera un senso drammatico. In particolare l’opera comprende in sé tutti i dubbi di cui è permeata la nostra attualità” (intervista del settembre 1968 in Appella 2004, p. 184).Scultura a soggetto sacro ma collocata a guardia di un luogo laico per eccellenza come il Centro Internazionale di Fisica Teorica, è il colossale Arcangelo Messaggero del 1962, con il quale Mascherini aveva nel gennaio 1974 vinto un concorso bandito dal prestigioso istituto triestino volto all’acquisizione di significative opere d’arte (Appella 2004, p. 197). ‘Difficile’ e complesso, il bronzo aveva fatto parte di quel lotto di immagini, “scabre e petrose […] simboli inquietanti del pietrificarsi della più esaltata vitalità” presentate alla sala personale allestita alla XXXI Biennale veneziana del 1962 (Salvini 1962, p. 58). A differenza del ben più leggibile Arcangelo Gabriele, che lo precede di solo un anno, sin dalla sua apparizione colpiva nell’opera in esame lo slancio sfarfallante e l’iconografia bizzarra, con “l’avveniristica51 testa di antenne esposta sull’ala, ma il suo essere d’albero, di fusto, seguito nei suoi incavi, nei suoi aggetti e persino nei suoi mancamenti, è forse uno degli esempi più didascalicamente vittoriosi tra materia e significato, fra il cercare, il trovare, e lo scegliere e l’aggiungere per modellato, propri nel dominio dell’autore” (Gatto 1969, p. 32). Si trattava di uno dei documenti visivi più importanti dell’inizio di una stagione del tutto nuova per lo scultore triestino: “Di là dal rinnovamento formale, di là dalla novità del tono poetico, rimane ferma l’esigenza profonda di Mascherini di proiettare la realtà sullo schermo del mito: il mito, adesso, della forza primigenia della natura” (Salvini 1962, p. 59); una forza che l’artista cercherà sul campo, calcando con la plastilina le tormentate superfici delle rocce carsiche esposte al vento: “nelle mie opere ricalco le materie vere, dominate da me non casualmente e nelle quali imprigiono la mia volontà […] il modellato non è più espressione di eroismo, di grazie e di bellezza, bensì ricerca, angoscia, per la quale metto nella mia opera un senso drammatico. In particolare l’opera comprende in sé tutti i dubbi di cui è permeata la nostra attualità” (intervista del settembre 1968 in Appella 2004, p. 184).
142 78 - PublicationBusto di Carlo Brunner(1910)Mayer, GiovanniIl busto è posto su di un alto piedistallo con il nome dell’effigiato e la data “MCMX” in un angolo dell’atrio dell’edificio di via Manzoni 16, che oggi ospita la sezione di Morfologia umana e biomolecolare del dipartimento di scienze della vita dell’ateneo, un tempo sede della Clinica della società degli amici dell’infanzia intitolata proprio a Carlo Brunner, uno dei fondatori dell’istituzione. Caratterizzato dalle folte e pronunciate basette, il ritratto di Brunner rientra nelle scelte ‘veristiche’ della produzione ritrattistica matura di Giovanni Mayer, all’epoca della realizzazione di certo lo scultore più in vista del panorama artistico triestino. Pur rimanendo nell’ambito delle immagini celebrative, il ritratto di Brunner mostra una marcata caratterizzazione psicologica, evidenziata dalla torsione della testa, dall’ampia fronte appena segnata dalle rughe, dalle labbra strette e dallo sguardo acuto che spazia lontano; mentre la lettura quasi lenticolare dei dettagli del volto lascia spazio a un trattamento ben più corsivo e ‘impressionistico’ delle vesti, a partire dallo svolazzante papillon, in linea con quel moderato ‘rodinismo’ cui Mayer sembra a tratti indulgere in questo torno d’anni. Un eloquente termine di confronto, anche per la particolare forma delle basette, è offerto dal coevo busto di Felice Machlig realizzato dallo stesso Mayer per l’atrio dell’ITIS (cfr. F. Salvador, Giovanni Mayer – Giovanni Marin. La scultura triestina tra Verismo ed Eccletismo, “Archeografo Triestino”, s. IV, LXII (CXI) 2002, p. 60).
124 76 - PublicationBusto di Italo Svevo(1927)Rovan, RuggeroIl bronzo dell’Università degli Studi di Trieste deriva dal bozzetto originale in gesso (oggi alla Gipsoteca del Museo Revoltella), realizzato nell’estate del 1927 e plasmato dal vero in circa una decina di sedute nello studio di Rovan (già studio di Eugenio Scomparini, oggi demolito), in via Crispi 62. Da una testimonianza dello stesso scultore sappiamo che fu proprio quest’ultimo a richiedere a Svevo di posare per lui “come un bravo modello” e di poter conservare il manufatto presso l’atelier triestino (dove rimase fino alla sua morte). Rovan scelse di ritrarre lo scrittore a torso nudo, di eroica memoria; tale preferenza venne esplicitata dall’artista in corso d’opera, e fu dettata, a suo dire, dalla volontà di “evitare disarmonie tra le sue [del soggetto] solide strutture e il misero modellato del nostro vestire”. Svevo venne pertanto rappresentato in un busto tagliato appena al di sotto delle spalle: nella parte inferiore alcun dettaglio rinvia all’età piuttosto avanzata dell’effigiato, l’anatomia è trattata attraverso un fare per larghi piani, che suggerisce la struttura ossea dello scrittore. Il volto, al contrario, presenta una cura del dettaglio sottile e meditata: lo scultore non esitò a riprodurre nel bronzo i segni del tempo e le tracce di quell’ ”umano travaglio” che aveva caratterizzato l’esperienza terrena del romanziere; la posizione della testa, leggermente ruotata verso sinistra, aiuta a spezzare una posa altrimenti eccessivamente rigida e innaturale. La versione bronzea qui studiata venne fusa dopo quella in gesso su iniziativa di Svevo, che desiderava averne presso di sé una versione: se prestiamo fede, infatti, a quanto affermato da Rovan stesso, lo scrittore ebbe modo di apprezzare il risultato scultoreo già in corso d’opera, quando volle ricompensare il suo autore con una piccola somma di denaro (£ 2000), a suo dire “non conforme a quello che in altri momenti avrebbe potuto fare”. A distanza di qualche tempo, il romanziere confessò all’artista di riconoscersi perfettamente nel ritratto (“più lo guardo e più mi ci ritrovo”), e in una copia del romanzo Senilità offerta a Rovan in segno di amicizia scelse di firmarsi attraverso una curiosa metonimia “il suo busto”. La replica in metallo, databile tra la seconda metà del 1927 e il 1928, anno della morte di Svevo, rimase nello studio di quest’ultimo, al secondo piano di Villa Veneziani, “su un mobile di fronte alla sua scrivania” per diversi anni. Non ci è dato conoscere con esattezza le sorti della scultura dopo il settembre 1928: essa si salvò dai bombardamenti del 20 febbraio del 1945 che distrussero interamente la dimora sveviana e risulta trovarsi nelle collezioni di Ruggero Rovan nel 1954, prima di essere donata all’Università di Trieste. Con molta probabilità il bronzo venne restituito allo scultore già nel 1943. Lo scultore triestino, in qualità di nuovo proprietario e consapevole del valore storico e umano del manufatto, prestò ripetutamente il bronzo in occasione di diverse esposizioni locali e regionali: nel 1948 alla “Mostra d’arte moderna”, tenutasi a Gorizia a Palazzo Attems alla fine dell’estate; tra il 1952 e il 1953 alle ben più importanti rassegne “Mostra d’arte figurativa degli artisti triestini”, organizzata al Padiglione delle Nazioni alla Fiera di Trieste, e alla “Prima Mostra Nazionale artisti giuliani e dalmati”, allestita a Venezia, in autunno. È significativo notare che il busto venne sempre scelto per figurare all’interno di una selezione limitatissima di pezzi, a dimostrazione di come esso rappresentasse, agli occhi dei contemporanei, una delle opere cardine della tarda produzione di Rovan. Il ritratto sveviano venne ulteriormente rivalutato alla metà degli anni Cinquanta, quando il Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste lanciò una pubblica sottoscrizione per offrirgli una collocazione degna della notorietà del suo effigiato. Grazie alle generose elargizioni pervenute alla segreteria del CCA nel corso del 1954, l’ente poté contattare lo scultore Rovan per richiedere l’acquisto del bronzo di Italo Svevo alla cifra complessiva di £ 395.000, dilazionate in quattro rate. Il Circolo si faceva portatore di un’iniziativa culturale di grande importanza, che si sarebbe conclusa con l’atto di donazione in favore della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Trieste, avvenuto il 18 dicembre 1954 nell’Aula Magna di Palazzo Dubbane, sito in via dell’Università 7. Anche in questa occasione, la critica non poté far a meno di notare l’eccellenza della resa ritrattistica del bronzo, “l’unico oggi esistente modellato dal vero” e la capacità dimostrata da Rovan di lasciar trapelare nel bronzo la profondità di pensiero e […] l’umano travaglio”, propri di tutta l’opera e la vita sveviane. Il degrado dell’edificio storico obbligò alla fine del secolo ad un repentino trasferimento dell’opera, accolta nell’ufficio personale del Magnifico Rettore. Nel 2006 la Facoltà di Lettere e Filosofia ha rivendicato il busto che ha quindi fatto ritorno all’istituzione alla quale era stato donato nel 1954 e ha potuto godere di uno spazio appositamente pensato in suo onore: la sala atti “Arduino Agnelli” nella sede di Androna campo Marzio accoglie oggi le discussioni e le proclamazioni di tesi di laurea, pertanto essa assurge a luogo espositivo ideale affinché l’opera di Rovan possa continuare ad essere “guida ed esempio” anche per le generazioni a venire.Il bronzo dell’Università degli Studi di Trieste deriva dal bozzetto originale in gesso (oggi alla Gipsoteca del Museo Revoltella), realizzato nell’estate del 1927 e plasmato dal vero in circa una decina di sedute nello studio di Rovan (già studio di Eugenio Scomparini, oggi demolito), in via Crispi 62. Da una testimonianza dello stesso scultore sappiamo che fu proprio quest’ultimo a richiedere a Svevo di posare per lui “come un bravo modello” e di poter conservare il manufatto presso l’atelier triestino (dove rimase fino alla sua morte). Rovan scelse di ritrarre lo scrittore a torso nudo, di eroica memoria; tale preferenza venne esplicitata dall’artista in corso d’opera, e fu dettata, a suo dire, dalla volontà di “evitare disarmonie tra le sue [del soggetto] solide strutture e il misero modellato del nostro vestire”. Svevo venne pertanto rappresentato in un busto tagliato appena al di sotto delle spalle: nella parte inferiore alcun dettaglio rinvia all’età piuttosto avanzata dell’effigiato, l’anatomia è trattata attraverso un fare per larghi piani, che suggerisce la struttura ossea dello scrittore. Il volto, al contrario, presenta una cura del dettaglio sottile e meditata: lo scultore non esitò a riprodurre nel bronzo i segni del tempo e le tracce di quell’ ”umano travaglio” che aveva caratterizzato l’esperienza terrena del romanziere; la posizione della testa, leggermente ruotata verso sinistra, aiuta a spezzare una posa altrimenti eccessivamente rigida e innaturale. La versione bronzea qui studiata venne fusa dopo quella in gesso su iniziativa di Svevo, che desiderava averne presso di sé una versione: se prestiamo fede, infatti, a quanto affermato da Rovan stesso, lo scrittore ebbe modo di apprezzare il risultato scultoreo già in corso d’opera, quando volle ricompensare il suo autore con una piccola somma di denaro (£ 2000), a suo dire “non conforme a quello che in altri momenti avrebbe potuto fare”. A distanza di qualche tempo, il romanziere confessò all’artista di riconoscersi perfettamente nel ritratto (“più lo guardo e più mi ci ritrovo”), e in una copia del romanzo Senilità offerta a Rovan in segno di amicizia scelse di firmarsi attraverso una curiosa metonimia “il suo busto”. La replica in metallo, databile tra la seconda metà del 1927 e il 1928, anno della morte di Svevo, rimase nello studio di quest’ultimo, al secondo piano di Villa Veneziani, “su un mobile di fronte alla sua scrivania” per diversi anni. Non ci è dato conoscere con esattezza le sorti della scultura dopo il settembre 1928: essa si salvò dai bombardamenti del 20 febbraio del 1945 che distrussero interamente la dimora sveviana e risulta trovarsi nelle collezioni di Ruggero Rovan nel 1954, prima di essere donata all’Università di Trieste. Con molta probabilità il bronzo venne restituito allo scultore già nel 1943. Lo scultore triestino, in qualità di nuovo proprietario e consapevole del valore storico e umano del manufatto, prestò ripetutamente il bronzo in occasione di diverse esposizioni locali e regionali: nel 1948 alla “Mostra d’arte moderna”, tenutasi a Gorizia a Palazzo Attems alla fine dell’estate; tra il 1952 e il 1953 alle ben più importanti rassegne “Mostra d’arte figurativa degli artisti triestini”, organizzata al Padiglione delle Nazioni alla Fiera di Trieste, e alla “Prima Mostra Nazionale artisti giuliani e dalmati”, allestita a Venezia, in autunno. È significativo notare che il busto venne sempre scelto per figurare all’interno di una selezione limitatissima di pezzi, a dimostrazione di come esso rappresentasse, agli occhi dei contemporanei, una delle opere cardine della tarda produzione di Rovan. Il ritratto sveviano venne ulteriormente rivalutato alla metà degli anni Cinquanta, quando il Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste lanciò una pubblica sottoscrizione per offrirgli una collocazione degna della notorietà del suo effigiato. Grazie alle generose elargizioni pervenute alla segreteria del CCA nel corso del 1954, l’ente poté contattare lo scultore Rovan per richiedere l’acquisto del bronzo di Italo Svevo alla cifra complessiva di £ 395.000, dilazionate in quattro rate. Il Circolo si faceva portatore di un’iniziativa culturale di grande importanza, che si sarebbe conclusa con l’atto di donazione in favore della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Trieste, avvenuto il 18 dicembre 1954 nell’Aula Magna di Palazzo Dubbane, sito in via dell’Università 7. Anche in questa occasione, la critica non poté far a meno di notare l’eccellenza della resa ritrattistica del bronzo, “l’unico oggi esistente modellato dal vero” e la capacità dimostrata da Rovan di lasciar trapelare nel bronzo la profondità di pensiero e […] l’umano travaglio”, propri di tutta l’opera e la vita sveviane. Il degrado dell’edificio storico obbligò alla fine del secolo ad un repentino trasferimento dell’opera, accolta nell’ufficio personale del Magnifico Rettore. Nel 2006 la Facoltà di Lettere e Filosofia ha rivendicato il busto che ha quindi fatto ritorno all’istituzione alla quale era stato donato nel 1954 e ha potuto godere di uno spazio appositamente pensato in suo onore: la sala atti “Arduino Agnelli” nella sede di Androna campo Marzio accoglie oggi le discussioni e le proclamazioni di tesi di laurea, pertanto essa assurge a luogo espositivo ideale affinché l’opera di Rovan possa continuare ad essere “guida ed esempio” anche per le generazioni a venire.Il bronzo dell’Università degli Studi di Trieste deriva dal bozzetto originale in gesso (oggi alla Gipsoteca del Museo Revoltella), realizzato nell’estate del 1927 e plasmato dal vero in circa una decina di sedute nello studio di Rovan (già studio di Eugenio Scomparini, oggi demolito), in via Crispi 62. Da una testimonianza dello stesso scultore sappiamo che fu proprio quest’ultimo a richiedere a Svevo di posare per lui “come un bravo modello” e di poter conservare il manufatto presso l’atelier triestino (dove rimase fino alla sua morte). Rovan scelse di ritrarre lo scrittore a torso nudo, di eroica memoria; tale preferenza venne esplicitata dall’artista in corso d’opera, e fu dettata, a suo dire, dalla volontà di “evitare disarmonie tra le sue [del soggetto] solide strutture e il misero modellato del nostro vestire”. Svevo venne pertanto rappresentato in un busto tagliato appena al di sotto delle spalle: nella parte inferiore alcun dettaglio rinvia all’età piuttosto avanzata dell’effigiato, l’anatomia è trattata attraverso un fare per larghi piani, che suggerisce la struttura ossea dello scrittore. Il volto, al contrario, presenta una cura del dettaglio sottile e meditata: lo scultore non esitò a riprodurre nel bronzo i segni del tempo e le tracce di quell’ ”umano travaglio” che aveva caratterizzato l’esperienza terrena del romanziere; la posizione della testa, leggermente ruotata verso sinistra, aiuta a spezzare una posa altrimenti eccessivamente rigida e innaturale. La versione bronzea qui studiata venne fusa dopo quella in gesso su iniziativa di Svevo, che desiderava averne presso di sé una versione: se prestiamo fede, infatti, a quanto affermato da Rovan stesso, lo scrittore ebbe modo di apprezzare il risultato scultoreo già in corso d’opera, quando volle ricompensare il suo autore con una piccola somma di denaro (£ 2000), a suo dire “non conforme a quello che in altri momenti avrebbe potuto fare”. A distanza di qualche tempo, il romanziere confessò all’artista di riconoscersi perfettamente nel ritratto (“più lo guardo e più mi ci ritrovo”), e in una copia del romanzo Senilità offerta a Rovan in segno di amicizia scelse di firmarsi attraverso una curiosa metonimia “il suo busto”. La replica in metallo, databile tra la seconda metà del 1927 e il 1928, anno della morte di Svevo, rimase nello studio di quest’ultimo, al secondo piano di Villa Veneziani, “su un mobile di fronte alla sua scrivania” per diversi anni. Non ci è dato conoscere con esattezza le sorti della scultura dopo il settembre 1928: essa si salvò dai bombardamenti del 20 febbraio del 1945 che distrussero interamente la dimora sveviana e risulta trovarsi nelle collezioni di Ruggero Rovan nel 1954, prima di essere donata all’Università di Trieste. Con molta probabilità il bronzo venne restituito allo scultore già nel 1943. Lo scultore triestino, in qualità di nuovo proprietario e consapevole del valore storico e umano del manufatto, prestò ripetutamente il bronzo in occasione di diverse esposizioni locali e regionali: nel 1948 alla “Mostra d’arte moderna”, tenutasi a Gorizia a Palazzo Attems alla fine dell’estate; tra il 1952 e il 1953 alle ben più importanti rassegne “Mostra d’arte figurativa degli artisti triestini”, organizzata al Padiglione delle Nazioni alla Fiera di Trieste, e alla “Prima Mostra Nazionale artisti giuliani e dalmati”, allestita a Venezia, in autunno. È significativo notare che il busto venne sempre scelto per figurare all’interno di una selezione limitatissima di pezzi, a dimostrazione di come esso rappresentasse, agli occhi dei contemporanei, una delle opere cardine della tarda produzione di Rovan. Il ritratto sveviano venne ulteriormente rivalutato alla metà degli anni Cinquanta, quando il Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste lanciò una pubblica sottoscrizione per offrirgli una collocazione degna della notorietà del suo effigiato. Grazie alle generose elargizioni pervenute alla segreteria del CCA nel corso del 1954, l’ente poté contattare lo scultore Rovan per richiedere l’acquisto del bronzo di Italo Svevo alla cifra complessiva di £ 395.000, dilazionate in quattro rate. Il Circolo si faceva portatore di un’iniziativa culturale di grande importanza, che si sarebbe conclusa con l’atto di donazione in favore della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Trieste, avvenuto il 18 dicembre 1954 nell’Aula Magna di Palazzo Dubbane, sito in via dell’Università 7. Anche in questa occasione, la critica non poté far a meno di notare l’eccellenza della resa ritrattistica del bronzo, “l’unico oggi esistente modellato dal vero” e la capacità dimostrata da Rovan di lasciar trapelare nel bronzo la profondità di pensiero e […] l’umano travaglio”, propri di tutta l’opera e la vita sveviane. Il degrado dell’edificio storico obbligò alla fine del secolo ad un repentino trasferimento dell’opera, accolta nell’ufficio personale del Magnifico Rettore. Nel 2006 la Facoltà di Lettere e Filosofia ha rivendicato il busto che ha quindi fatto ritorno all’istituzione alla quale era stato donato nel 1954 e ha potuto godere di uno spazio appositamente pensato in suo onore: la sala atti “Arduino Agnelli” nella sede di Androna campo Marzio accoglie oggi le discussioni e le proclamazioni di tesi di laurea, pertanto essa assurge a luogo espositivo ideale affinché l’opera di Rovan possa continuare ad essere “guida ed esempio” anche per le generazioni a venire.Il bronzo dell’Università degli Studi i Trieste deriva dal bozzetto originale in gesso (oggi alla Gipsoteca del Museo Revoltella), realizzato nell’estate del 1927 e plasmato dal vero in circa una decina di sedute nello studio di Rovan (già studio di Eugenio Scomparini, oggi demolito), in via Crispi 62. Da una testimonianza dello stesso scultore sappiamo che fu proprio quest’ultimo a richiedere a Svevo di posare per lui “come un bravo modello” e di poter conservare il manufatto presso l’atelier triestino (dove rimase fino alla sua morte). Rovan scelse di ritrarre lo scrittore a torso nudo, di eroica memoria; tale preferenza venne esplicitata dall’artista in corso d’opera, e fu dettata, a suo dire, dalla volontà di “evitare disarmonie tra le sue [del soggetto] solide strutture e il misero modellato del nostro vestire”. Svevo venne pertanto rappresentato in un busto tagliato appena al di sotto delle spalle: nella parte inferiore alcun dettaglio rinvia all’età piuttosto avanzata dell’effigiato, l’anatomia è trattata attraverso un fare per larghi piani, che suggerisce la struttura ossea dello scrittore. Il volto, al contrario, presenta una cura del dettaglio sottile e meditata: lo scultore non esitò a riprodurre nel bronzo i segni del tempo e le tracce di quell’ ”umano travaglio” che aveva caratterizzato l’esperienza terrena del romanziere; la posizione della testa, leggermente ruotata verso sinistra, aiuta a spezzare una posa altrimenti eccessivamente rigida e innaturale. La versione bronzea qui studiata venne fusa dopo quella in gesso su iniziativa di Svevo, che desiderava averne presso di sé una versione: se prestiamo fede, infatti, a quanto affermato da Rovan stesso, lo scrittore ebbe modo di apprezzare il risultato scultoreo già in corso d’opera, quando volle ricompensare il suo autore con una piccola somma di denaro (£ 2000), a suo dire “non conforme a quello che in altri momenti avrebbe potuto fare”. A distanza di qualche tempo, il romanziere confessò all’artista di riconoscersi perfettamente nel ritratto (“più lo guardo e più mi ci ritrovo”), e in una copia del romanzo Senilità offerta a Rovan in segno di amicizia scelse di firmarsi attraverso una curiosa metonimia “il suo busto”. La replica in metallo, databile tra la seconda metà del 1927 e il 1928, anno della morte di Svevo, rimase nello studio di quest’ultimo, al secondo piano di Villa Veneziani, “su un mobile di fronte alla sua scrivania” per diversi anni. Non ci è dato conoscere con esattezza le sorti della scultura dopo il settembre 1928: essa si salvò dai bombardamenti del 20 febbraio del 1945 che distrussero interamente la dimora sveviana e risulta trovarsi nelle collezioni di Ruggero Rovan nel 1954, prima di essere donata all’Università di Trieste. Con molta probabilità il bronzo venne restituito allo scultore già nel 1943. Lo scultore triestino, in qualità di nuovo proprietario e consapevole del valore storico e umano del manufatto, prestò ripetutamente il bronzo in occasione di diverse esposizioni locali e regionali: nel 1948 alla “Mostra d’arte moderna”, tenutasi a Gorizia a Palazzo Attems alla fine dell’estate; tra il 1952 e il 1953 alle ben più importanti rassegne “Mostra d’arte figurativa degli artisti triestini”, organizzata al Padiglione delle Nazioni alla Fiera di Trieste, e alla “Prima Mostra Nazionale artisti giuliani e dalmati”, allestita a Venezia, in autunno. È significativo notare che il busto venne sempre scelto per figurare all’interno di una selezione limitatissima di pezzi, a dimostrazione di come esso rappresentasse, agli occhi dei contemporanei, una delle opere cardine della tarda produzione di Rovan. Il ritratto sveviano venne ulteriormente rivalutato alla metà degli anni Cinquanta, quando il Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste lanciò una pubblica sottoscrizione per offrirgli una collocazione degna della notorietà del suo effigiato. Grazie alle generose elargizioni pervenute alla segreteria del CCA nel corso del 1954, l’ente poté contattare lo scultore Rovan per richiedere l’acquisto del bronzo di Italo Svevo alla cifra complessiva di £ 395.000, dilazionate in quattro rate. Il Circolo si faceva portatore di un’iniziativa culturale di grande importanza, che si sarebbe conclusa con l’atto di donazione in favore della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Trieste, avvenuto il 18 dicembre 1954 nell’Aula Magna di Palazzo Dubbane, sito in via dell’Università 7. Anche in questa occasione, la critica non poté far a meno di notare l’eccellenza della resa ritrattistica del bronzo, “l’unico oggi esistente modellato dal vero” e la capacità dimostrata da Rovan di lasciar trapelare nel bronzo la profondità di pensiero e […] l’umano travaglio”, propri di tutta l’opera e la vita sveviane. Il degrado dell’edificio storico obbligò alla fine del secolo ad un repentino trasferimento dell’opera, accolta nell’ufficio personale del Magnifico Rettore. Nel 2006 la Facoltà di Lettere e Filosofia ha rivendicato il busto che ha quindi fatto ritorno all’istituzione alla quale era stato donato nel 1954 e ha potuto godere di uno spazio appositamente pensato in suo onore: la sala atti “Arduino Agnelli” nella sede di Androna campo Marzio accoglie oggi le discussioni e le proclamazioni di tesi di laurea, pertanto essa assurge a luogo espositivo ideale affinché l’opera di Rovan possa continuare ad essere “guida ed esempio” anche per le generazioni a venire.
220 125 - PublicationBusto di Pasquale Revoltella(1870)Magni, PietroIl busto di Pietro Magni è probabilmente il più efficace tra i molti ritratti, pittorici e scultorei, di Pasquale Revoltella: con quest’immagine lo scultore dava ancora una volta prova della sua capacità di compendiare efficacemente la tradizionale ritrattistica borghese con quel naturalismo che alla metà del secolo caratterizzava con molta efficacia la nuova scuola milanese, destinata di lì a pochi anni a monopolizzare la scena italiana. Si tratta con tutta evidenza di una replica autografa del busto-ritratto realizzato dallo scultore nel 1859, in occasione della solenne apertura del nuovo palazzo voluto dall’imprenditore, per il quale lo scultore aveva realizzato e realizzerà alcune delle sue prove più convincenti, come la Ninfa Aurisina e l’Allegoria del taglio dell’Istmo di Suez. Il modello in gesso del ritratto, lo stesso utilizzato anche per scolpire l’opera in esame, sarà acquistato dal Museo Revoltella nel 1883, dopo essere stato presentato nel 1870, l’anno successivo alla morte dell’imprenditore-barone, alla prima mostra triestina della Società di Belle Arti (cfr. M. De Grassi, Committenti di Pietro Magni a Trieste, “Arte in Friuli Arte a Trieste”, 20, 2000, pp. 166-168). Con tutta probabilità l’esemplare in esame, del tutto identico alla redazione del Museo, anche nella scelta di una marmo di primissima qualità, era destinato alla Scuola commerciale che Revoltella intendeva far sorgere a Trieste e che idealmente costituisce il primo nucleo di quella che alcuni decenni più tardi diventerà la Regia Università degli Studi Economici e Commerciali di Trieste (cfr. G. Cervani, Pasquale Revoltella, il ‘fondatore’, in L’Università di Trieste. Settant’anni di storia 1924-1994, Trieste, Editoriale Libraria, 1997, pp. 55- 64). Il busto campeggia infatti nelle foto dello studio del primo Rettore, Giulio Morpurgo, alla fine degli anni venti nell’allora sede dell’ateneo, sita in palazzo Dubbane, al civico 7 di quella che diventerà via dell’Università. Al momento della costruzione del nuovo complesso, il busto verrà traslato nella nuova Facoltà di Economia e Commercio, dove tutt’ora è conservato.
147 125 - PublicationBusto di Ugo MorinRusso, TeodoroIl busto, tagliato sopra le spalle, raffigura il matematico Ugo Morin (Trieste 1901-1968), primo preside della Facoltà di Scienze dell’Università di Trieste ed era stato realizzato poco dopo la sua morte per iniziativa della Facoltà stessa, che provvederà a collocarlo nell’allora Istituto di Matematica. Attualmente è collocato nell’aula a lui dedicata al III piano dell’edificio H2. L’autore del busto, il brindisino ma naturalizzato triestino sin dalla fine degli anni venti Teodoro Russo, declina con onesto mestiere il suo convenzionale naturalismo, che lo aveva portato, soprattutto nel secondo dopoguerra, a eseguire un cospicuo numero di opere d’occasione per committenti pubblici del territorio giuliano.
196 90 - PublicationDedalo e Icaro(1964)Mascherini, MarcelloScultura a soggetto sacro ma collocata a guardia di un luogo laico per eccellenza come il Centro Internazionale di Fisica Teorica, è il colossale Arcangelo Messaggero del 1962, con il quale Mascherini aveva nel gennaio 1974 vinto un concorso bandito dal prestigioso istituto triestino volto all’acquisizione di significative opere d’arte (Appella 2004, p. 197). ‘Difficile’ e complesso, il bronzo aveva fatto parte di quel lotto di immagini, “scabre e petrose […] simboli inquietanti del pietrificarsi della più esaltata vitalità” presentate alla sala personale allestita alla XXXI Biennale veneziana del 1962 (Salvini 1962, p. 58). A differenza del ben più leggibile Arcangelo Gabriele, che lo precede di solo un anno, sin dalla sua apparizione colpiva nell’opera in esame lo slancio sfarfallante e l’iconografia bizzarra, con “l’avveniristica51 testa di antenne esposta sull’ala, ma il suo essere d’albero, di fusto, seguito nei suoi incavi, nei suoi aggetti e persino nei suoi mancamenti, è forse uno degli esempi più didascalicamente vittoriosi tra materia e significato, fra il cercare, il trovare, e lo scegliere e l’aggiungere per modellato, propri nel dominio dell’autore” (Gatto 1969, p. 32). Si trattava di uno dei documenti visivi più importanti dell’inizio di una stagione del tutto nuova per lo scultore triestino: “Di là dal rinnovamento formale, di là dalla novità del tono poetico, rimane ferma l’esigenza profonda di Mascherini di proiettare la realtà sullo schermo del mito: il mito, adesso, della forza primigenia della natura” (Salvini 1962, p. 59); una forza che l’artista cercherà sul campo, calcando con la plastilina le tormentate superfici delle rocce carsiche esposte al vento: “nelle mie opere ricalco le materie vere, dominate da me non casualmente e nelle quali imprigiono la mia volontà […] il modellato non è più espressione di eroismo, di grazie e di bellezza, bensì ricerca, angoscia, per la quale metto nella mia opera un senso drammatico. In particolare l’opera comprende in sé tutti i dubbi di cui è permeata la nostra attualità” (intervista del settembre 1968 in Appella 2004, p. 184).
208 102 - PublicationLa fondazione dell'Università; I mestieri; Allegoria delle attività umane; L'uomo fascista(1938)Carà, UgoI quattro pannelli costituiscono quanto rimane di un più ampio ciclo decorativo commissionato alla fine degli anni trenta dagli architetti dell’Edificio Centrale, Raffaello Fagnoni e Umberto Nordio, a Ugo Carà, cui già era stata affidata la realizzazione dei cartoni per i mosaici pavimentali dell’atrio destro. Allo scultore erano stati richiesti dodici pannelli in pietra destinati a ornare i balconcini posti tra le volte che si affacciano sull’atrio destro: lavori che però non saranno però mai messi in opera, causa probabilmente delle difficoltà incontrate dal cantiere per la carenza di fondi. Una volta riscoperto il piano originale nell’archivio Fagnoni, i pannelli sono stati negli ultimi anni posizionati finalmente al loro posto. Di questi però solo quattro presentano dei rilievi leggibili, parte di un programma illustrativo sicuramente più vasto e comunque facente riferimento, com’è ovvio, alla più scontata iconografia di regime. Nel pannello che si può identificare come principale è schematicamente raccontata la posa della prima pietra della nuova sede dell’Ateneo da parte di Mussolini (la figura centrale con in mano la cazzuola) alla presenza del Rettore e delle Autorità. In un altro rilievo si riconoscono, da sinistra a destra, uno sciatore, un letterato, un pittore, un soldato, una casalinga e un contadino. In un terzo pannello si scorgono figure paludate all’antica che alludono probabilmente alle discipline insegnate all’Università: medicina, navigazione (o ingegneria navale), commercio nelle vesti di Mercurio, la Giustizia e la Geografia. Nel quarto pannello si riconoscono gruppi di figure che possono essere interpretati come allusivi delle attività fasciste: l’atleta e il soldato, il matrimonio, le adunate. Come in altre occasioni (cfr. M. De Grassi, Arte e committenza pubblica: il caso di Arsia, “Quaderni Giuliani di Storia”, XXXII (2011), 1, pp. 139-151), Carà utilizza per opere commissionate dal regime un linguaggio volutamente semplificato, che esula da certe raffinate ricerche stilistiche che si possono riscontrare, per esempio, nella coeva produzione ritrattistica. Nel caso delle opere in esame occorre poi tener conto dello stato di conservazione non ottimale, visto che i blocchi sono rimasti a lungo esposti alle intemperie, all’incuria e ad atti di vandalismo che hanno infierito soprattutto su alcuni volti.
179 240 - PublicationLa glorificazione del lavoro e della cultura(1956)Moschi, MarioCome è già stato sottolineato dalla storiografia, l’iter costruttivo di questo secondo pannello sarà interrotto dagli eventi bellici e concluso soltanto alla fine degli anni cinquanta, tra il ‘56 e il ‘58, senza che peraltro venisse dato grande rilievo alla conclusione dei lavori, evidentemente considerati un retaggio del passato. Del resto si trattava di un aggiornamento soltanto relativo del progetto iniziale: il tema originariamente previsto doveva infatti illustrare La glorificazione del lavoro e delle opere del regime, dovendo ovviamente scomparire ogni riferimento diretto al fascismo, non restava che adeguare il tutto alla contingenza inserendo anche rimandi diretti alla costruzione dell’ateneo che non erano stati previsti nei quattro schizzi sopravvissuti. Moschi, com’è noto, inserirà nella composizione numerosi ritratti: dal proprio, di profilo nello scalpellino al lavoro sotto le ali di Pegaso alla destra della composizione, a quello dell’allora rettore Ambrosino, paludato da senatore romano con una pergamena in mano, per finire nei due progettisti del complesso, Fagnoni e Nordio, vestiti anch’essi all’antica e intenti a sorvegliare i lavori di costruzione dell’Ateneo, di cui poco sopra si scorge la facciata di uno degli avancorpi. Per il resto il tono della composizione non differiva di molto dal tono delle opere di regime, anche se l’enfasi propagandistica del rilievo gemello appare decisamente stemperata. La storia compositiva dell’opera era stata inevitabilmente più lunga e l’artista aveva previsto diverse soluzioni per un pannello che inizialmente doveva rappresentare “le opere di pace”. Rispetto all’unico foglio che illustra le “opere di guerra”, le soluzioni pensate per il pannello gemello paiono frammentarsi in una serie di episodi poco legati tra loro che riprendono ora l’attività cantieristica, vitale per Trieste, ora il lavoro nei campi, ora le attività universitarie. La soluzione alla fine adottata riprende e riassume tutti questi temi: partendo da sinistra si nota un’allusione al lavoro agricolo, si passa quindi alla costruzione della nuova Università e al toccante brano dell’incontro tra due donne, a sua volta seguito dalla stretta di mano che si scambiano due uomini, vegliati dal rettore e, più sopra, dal volo di Mercurio, genio del Commercio, e da una sorta di improvvisato genio del Lavoro, con mazzuolo e tenaglia in mano. Chiude la composizione a sinistra il citato scultore al lavoro, un gruppo di nudi che cercano di domare il cavallo alato Pegaso e un discobolo, inevitabilmente calcato dalla celebre scultura di Mirone e due lottatori in secondo piano. In uno dei citati disegni (Fernetti 2010, p. 57) si nota nella figura di un calciatore, anche una sorta di autocitazione di quella che era stata la creazione più celebre dello scultore, un calciatore in corsa con la palla al piede, perfettamente calata nel contesto culturale del regime.
151 97 - PublicationMinerva(1956)Mascherini, MarcelloIl disegno è giunto nelle collezioni dell’ateneo in occasione dell’Esposizione nazionale di pittura italiana contemporanea, allestita nell’Aula Magna dell’ateneo nel 1953. In quel frangente la commissione organizzatrice, viste le difficoltà organizzative che l’esposizione di opere plastiche poteva portare, aveva stabilito di richiedere agli scultori prove di grafica. Mascherini, come pochi altri colleghi, aderirà entusiasticamente alla proposta del Rettore presentando questa semplice tavola realizzata a tratto e senza chiaroscuro, che dal punto di vista compositivo si presenta perfettamente allineata ai ritmi e alle cadenze compositive delle sue migliori opere scultoree di quegli anni: anche se ripresa in controparte, la fanciulla tratteggiata nel disegno è infatti pressoché identica alla Saffo realizzata in bronzo l’anno precedente; una scultura, quest’ultima (cfr. A. Panzetta, Marcello Mascherini scultore (1906-1983). Catalogo generale dell’opera plastica, Torino, Allemandi, 1998, p. 247, n. 366), cui l’artista aveva dato grande importanza, visto che la presenterà alla personale parigina del 1953, alla Biennale di Anversa dello stesso anno e a quella di Venezia dell’anno successivo, oltre che in altre occasioni. In un momento per lui particolarmente felice sul piano compositivo, lo scultore ripropone così, in una dinamica quasi seriale, una sua meditazione sulla figura femminile drappeggiata: un tema che lo affascinerà lungo tutti gli anni cinquanta.
514 918 - PublicationStruttura bianca n. 1(1972)Perizi, Nino“Equilibrio dinamico dell’oggetto in opposizione al suo equilibrio statico”: così Carlo Milic definiva l’essenza di queste sculture che sembrano degli origami non figurativi. L’immagine che più efficacemente riassume il principio guida di queste composizioni in metallo è la fotografia che ritrae l’artista mentre protende verso il cielo una struttura aliforme da lui stesso creata (cfr. Mascherini Perizi Basaldella. 120 giorni di scultura a Trieste, catalogo della mostra di Trieste, Castello di San Giusto, maggio – settembre 1975, Trieste, Amministrazione Provinciale, 1975). Si tratta della sintesi del movimento espressa in un’immagine astratta, concetto al quale Costantin Brancusi aveva conferito forma, in maniera stupefacente, con Uccello nello spazio nel 1940. Un considerevole numero di realizzazioni di Perizi furono esposte al Bastione Fiorito del Castello di san Giusto, accanto alle opere di Mascherini e Basaldella (Mascherini Perizi Basaldella. 120 giorni…). Tali opere hanno un ulteriore illustre precedente: le sculture in metallo smaltato di Carlo Lorenzetti realizzate alla metà degli anni Sessanta. Inoltre non è improbabile che Perizi avesse visitato la trentunesima Biennale di Venezia del 1962 (Catalogo della XXXI Esposizione Biennale d’Arte Venezia, Venezia, Stamperia di Venezia, 1962, p. 117, n. 93) e in quella occasione, nel padiglione centrale, avesse scoperto un’opera di Lygia Clark – Animale invertebrato – prototipo per questi suoi origami astratti.
134 80 - PublicationTesta di Scipio Slataper(1965)Bernt, SylvaIl 26 giugno del 1965 gli eredi di Scipio Slataper, nel corso di una cerimonia ufficiale presieduta dal Rettore Origone, donarono all’Università di Trieste quello che impropriamente veniva definito “busto” del loro illustre parente. Un dono accolto con entusiasmo dal Rettore, che nel suo discorso non aveva mancato di notare come il poeta fosse stato “uno di quelli che vollero l’Università sul serio, e non di coloro che ritenevano la si dovesse richiedere e non mai ottenere”. L’opera era stata realizzata in bronzo dall’artista goriziana Sylva Bernt, che da tempo si era trasferita a Parigi dove si era accostata alle più moderne tendenze del Noveau Realisme, superando progressivamente la cifra martiniana degli esordi. In questa chiave si inserisce anche l’effige di Slataper, che appare quasi consumata dalla luce, concepita “come un’energia che deve trasfondere la materia e che si fa puro movimento di linee e profilo nello spazio. Le figure appaiono quasi soffiate, esse appartengono allo stesso respiro della luce nello spazio […] l’intento più segreto dell’artista è stato quello di giungere a plasmare la luce stessa, di rendere evento plastico la sua immateriale consistenza” (Toniato 1996). Il ricercato basamento su cui poggia la scultura, a fianco dello scranno destinato a ospitare i membri del senato accademico, era stato progettato da Umberto Nordio, che vi aveva anche fatto inserire a lettere capitali una frase dello stesso Slataper: “PRIMA DI TUTTO SONO UOMO/ POI SON POETA E NON LETTERATO/ POI SONO TRIESTINO”, e poi ancora “ SCIPIO SLATAPER/ TRIESTE 1888 – CALVARIO 1915”.
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