Pinacoteca del Rettorato
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- PublicationAerovita(1932)Ambrosi Gauro, AugustoNon sono note le circostanze in cui il dipinto è giunto nelle collezioni dell’ateneo, di certo si trattava di un’opera particolarmente significativa nel percorso artistico di Ambrosi, come dimostrano eloquentemente le presenze alle Biennali veneziane e alle mostre organizzate all’estero dal Ministero della Cultura Popolare documentate dai talloncini sul verso della tavola. L’artista era stato sin dal 1929 uno dei primi ad aderire al nascente movimento dell’ Aeropittura: Aerovita, coerentemente bordato da una cornice in lamiera, appare in questo senso un prodotto tipico della prima fase della sua attività, che vede in primo piano l’esaltazione della macchina, senza ancora i virtuosismi ottici della produzione successiva, dedicata soprattutto alla pittura “di guerra”, come ben ricordato da Filippo Tommaso Marinetti nella sua presentazione alla mostra futurista della Biennale del 1942 (p. 224): “fra le venti aeropitture futuriste di guerra di A. G. Ambrosi (reduce dai voli di guerra ispiratori con Verossi Di Bosso Menin) quella che porta il titolo significativo e mondiale di «Bombardamenti di Malta» insegna molto a tutti gli artisti di oggi. Una trasfigurazione e personificazione delle varie forme colori dell’isola sorvolata dai trimotori bombardanti e una geometrizzazione del cielo così velocizzato dai continui voli sopraggiungenti caratterizzazione dei punti colpiti e dei fumi con le sagome spettralizzate delle bombe distruggono qualsiasi possibile accusa di fotografismo centuplicano le velocità sparanti e colpenti e caricano di spiritualità micidiale volitiva e matematica apparecchi e paesaggio tenendo sempre vive nel quadro le altezze e le masse d’aria”. Nel presentare la mostra del futurismo italiano ospitata nel padiglione russo alla Biennale veneziana del 1936, dove il dipinto era esposto, ancora Marinetti (p. 18) aveva annunciato “aeropitture impressionistiche documentarie, aeropitture trasfigurate astratte, aeropitture cosmiche, paesaggi inventati e spiritualizzati, immagini letterarie espresse plasticamente e arte sacra futurista”. In questo contesto, il dipinto sarà quindi esposto alla mostra promossa a Berlino dal Ministero della Cultura Popolare e allestita a cura della Biennale di Venezia al palazzo dell’Accademia Prussiana della Arti Figurative inaugurata il 28 ottobre nel sedicesimo anniversario della marcia su Roma, salutato da una grande attenzione della stampa veronese: “[Ambrosi] espone due opere: “Sensazione continuativa d’ammaraggio a Napoli” e “Aerovita”, quadri già conosciuti dalla stampa e dalla critica di Budapest, Amsterdam, Rotterdam, dove furono esposti in unione ai maggiori artisti d’avanguardia” (Il pittore Ambrosi espone a Berlino, “Corriere Padano”, 9 ottobre 1937). Alla successiva Biennale del ‘42, quando i principi dell’ Aeropittura erano stati ormai codificati, il dipinto sarà presentato nel padiglione della Regia aeronautica alla mostra delle Opere ispirate alla guerra La busta riservata all’autore conservata alla Fototeca dell’Archivio Storico della Biennale veneziana conserva un’immagine che porta sul verso la scritta autografa “A.G. Ambrosi, Aerovita” e mostra un’altra redazione del dipinto, con variazioni nella disposizione delle figure e una più ampio apertura sul paesaggio, visto dall’alto e con la presenza di numerosi aerei da caccia sullo sfondo.
197 193 - PublicationBurano 1950Dalla Zorza, CarloTra gli artisti invitati alla XXVI Esposizione Biennale Internazionale d’Arte di Venezia del 1952, Carlo Dalla Zorza presentò, tra le altre opere, pure Burano 1950. Un tema caro al pittore che lo aveva portato, nel 1946, a vincere il Primo Premio Burano per le riconosciute doti di paesaggista apprezzate pure dal brillante storico dell’arte, nonché Segretario Generale della epocale Biennale veneziana del 1948, Rodolfo Pallucchini. Il Premio Burano gli diede un risalto di caratura internazionale, oltre a consegnargli l’ideale titolo di autentico capofila della seconda generazione della “Scuola di Burano”. Artista quindi dei più rinomati nel 1953 dell’area veneziana, allorquando venne invitato all’Esposizione Nazionale di Pittura Italiana Contemporanea e prese parte con la Burano 1950, che entrò successivamente nelle collezioni dell’Università di Trieste. La tela, di notevoli dimensioni, tende ad un’astrazione, tanto la scioltezza del colore si mescola ad un’idea segnica in Dalla Zorza da sempre pregnante (ricordiamo che fu, tra gli anni ‘20 e ‘30, protagonista alle Biennali veneziane con disegni ed incisioni amate dalla critica), con variazioni sul tema del verde e del grigio che ci consegnano una folgorante atmosfera lagunare non senza rimandi alla pittura d’un fauve come Raoul Dufy, alle prese con temi marinisti popolati da vegetali acquatici e flessuosi, che proprio in quel 1953 si spegneva e veniva finalmente acclamato anche nel suolo italiano: l’anno prima, ovvero quando Dalla Zorza esponeva la Burano 1950, il grande pittore francese riceveva il Premio alla Biennale veneziana.
125 72 - PublicationCandele in riva mare(1950)Tomea, FiorenzoAll’Esposizione nazionale di pittura italiana contemporanea allestita nell’aula magna dell’ateneo triestino nel 1953, Fiorenzo Tomea aveva presentato Solitudine, un dipinto del 1949 che ripercorreva una tematica, quella dello scheletro in meditazione, affrontata a più riprese negli anni precedenti, sin dal dipinto di analogo titolo del 1937. Il quadro, oggi in una collezione privata di Milano, verrà in seguito presentato a numerose sue esposizioni, anche successive alla sua morte (cfr. Fiorenzo Tomea, catalogo della mostra di Ferrara, Palazzo dei Diamanti 8 dicembre 1989 – 4 febbraio, a cura di M. L. Tomea Gavazzoli, pp. 47, 135). Solitudine era stato uno dei dipinti scelti per l’acquisto da parte dell’ateneo, che dopo aver ricevuto la richiesta d’acquisto da parte del Rettore, chiederà di poter sostituire l’opera esposta in quell’occasione, con una tela più recente, Candele in riva al mare, di dimensioni inferiori e mai presentata in pubblico in precedenza, una richiesta che sarà prontamente accolta anche se purtroppo la documentazione d’archivio non consente di capire le regioni della scelta dell’artista (AUT, Busta 59, fasc. corrispondenza). Di certo le candele facevano da molto tempo dell’universo poetico dell’autore, sin dalla seconda metà degli anni trenta, quando aveva cominciato a dipingerle insieme alle maschere in ambientazioni quasi metafisiche che diventeranno una delle cifre più riconoscibili della sua opera: “le candele di Tomea appariranno un giorno, nella storia dell’arte, una clausola poeticamente definita, così come le bottiglie di Morandi […] il parallelismo di un mestiere-intelletto anche al di là delle fascinose cento versioni di quel soggetto: sfuggendo all’inerzia di un’espressione atipica, ogni itinerario pittorico del cadorino si condensa piuttosto in una maniera singolare che è tutta la sua autorità e tutta la sua misura” (R. Civello, Sulla pittura di Fiorenzo Tomea, Siena, Ausonia, 1956, p. 23). Il dipinto in esame è stato riproposto al pubblico solo in occasione delle due recentissime mostre che hanno ripercorso le vicende della Esposizione nazionale di pittura italiana contemporanea del 1953.
245 255 - PublicationCantiere(1952)Santomaso, GiuseppeCantiere figurava tra le opere esposte alla mostra Esposizione nazionale di pittura italiana contemporanea allestita nell’Aula Magna dell’ateneo alla fine del 1953 e risulterà vincitrice del primo premio-acquisto di 500.000 lire previsto dal bando della mostra. Nelle prime due votazioni la giuria, dopo aver individuato una terna di candidati composta da Afro, lo stesso Santomaso ed Emilio Vedova, non era riuscita a nominare i vincitori per la mancanza di una maggioranza qualificata. Si dovrà così applicare la clausola del regolamento che prevedeva il sorteggio tra la terna più votata, escludendo così Vedova dai premiati (la sua Crocifissione contemporanea sarà in seguito acquistata dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma) e assegnando a Santomaso il primo premio-acquisto: una scelta che solleverà anche polemiche, vista l’assoluta preponderanza delle opere astratte (o presunte tali nel caso di quella in esame) tra i premiati, così infatti si era espresso Giulio Cesare Ghiglione sulle colonne del “Il Secolo XIX” di Genova riportando le impressioni degli artisti esclusi: "nè vogliamo infirmare la scelta della giuria a favore di uno o dell’altro della stessa tendenza, ma troviamo eccessivo che ambedue i premi siano stati conferiti alla stessa corrente, la quale rappresenta circa un terzo degli espositori", (Polemiche su un premio, 15 dicembre 1953). Al di là delle polemiche, che peraltro non avevano trovato riscontri sulla stampa locale e nazionale, la motivazione formulata dalla giuria a proposito della tela del pittore veneziano poneva l’accento sull’origine picassiana della sua ricerca pittorica: "Santomaso si è infatti proposto di sviluppare la scomposizione cubista fino a permettere una più lucida e costruttiva determinazione dell’oggetto e dello spazio; una più assertiva definizione dei valori plastici e coloristici; una più stretta e impegnativa relazione tra soggetto e oggetto. In questa ricerca, che partecipa con un suo personalissimo accento dei più vivi movimenti dell’arte moderna europea, Cantiere rappresenta indubbiamente un risultato assai importante, soprattutto perché concilia un’aperta emozione paesistica con una rigorosa architettura formale". Veniva così perfettamente inquadrato il carattere della ricerca del veneziano, i cui confini verranno ancor meglio precisati due anni dopo da Giuseppe Marchiori: "Nell’atmosfera limpida dei cantieri, il contrasto con le forti strutture degli scafi e col disegno netto dei tralicci metallici è accentuato sul piano della logica formale, con risultati che fanno del processo astrattivo un modo d’intendere più profondamente la realtà poetica dell’immagine: Gli elementi grafici (scale, fili, corde, grù, antenne) si accordano con la luce del fondo e coi motivi dominanti della partitura coloristica (barche, caldaie, macchine, cilindri, camini). Sono composizioni di oggetti che vanno sempre più trasformandosi in simboli e segni. La luce del cantiere, albale o mattutina, non è poi tanto diversa da quella, primaverile, che accoglie i riflessi verdi dell’erba, e che penetra dalla campagna nelle rimesse dove stanno i carri, gli aratri, le segatrici. Il pittore è dentro tutte le cose vedute, che la memoria ripete e trasforma sullo schermo della fantasia. È una scelta molto più valida di una rappresentazione obbiettiva. E in queste liriche della campagna, in cui gli oggetti si compongono nella misura esatta di un ritmo e di una struttura, c’è l’impulso vitale, c’è la partecipazione dell’essere, che è qualche cosa di più di un omaggio araldico alla fatica e al lavoro" (G. Marchiori, Santomaso. Pitture e disegni 1952-1954, Venezia [1954], p. 11). Una sorta di visionaria etica del lavoro quindi, che in termini pittorici si componeva di una sostanziale ibridazione dei motivi di estrazione neocubista assimilati alla fine degli anni quaranta con elementi di origine surrealista: “in Piccolo cantiere, del ‘52, e in altri lavori coevi [tra i quali si può sicuramente inserire anche il Cantiere dell’ateneo triestino], Santomaso riesce ad incrociare la cultura surrealista e in particolare Mirò, maturando una volta per tutte il taglio di un linguaggio personalissimo: da questo momento in poi è ormai chiaro in quale senso Santomaso afferma di voler «essere nelle cose», nel tessuto della loro energia, e secondo quali parametri egli intenda congiungere la realtà esteriore del mondo con la memoria che se ne ricava: una memoria che abita nelle cose stesse o, meglio, nella visione che il pittore ce ne restituisce” (Cortenova 1990, pp. 20-21).
292 476 - PublicationCarso e TimavoDe Cillia, EnricoLa tempera su tavola dal titolo Carso e Timavo venne presentata con successo al pubblico tra il settembre e il novembre del 1957 alla XII Biennale d’Arte Triveneta di Padova. Il pittore aveva scelto l’opera come la più rappresentativa da esporre, tanto da affiancarle solo altri due lavori come La cava e Composizione, ovvero corollari al dipinto entrato poi nelle collezioni d’arte dell’Università di Trieste. Evidentemente pure la commissione – guidata da un Giuseppe Marchiori apertamente polemico, tanto da far scrivere nel verbale d’ammissione “ha deprecato l’atteggiamento ostile degli artisti veneziani, i quali hanno male interpretato la decisione della commissione” e lo scultore Marcello Mascherini – giudicò il lavoro di De Cillia d’elevata qualità, tanto da riprodurlo nel catalogo illustrato dell’esposizione. Un dipinto che spicca, dunque, nella vasta produzione del pittore friulano, rispetto ad altre prove “carsiche” e che, fra le numerose opere presenti nella pinacoteca di Treppo Carnico paese natio del pittore e intitolata a suo nome, ricoprirebbe un ruolo centrale. È un paesaggio scarno il Carso descritto da De Cillia, non privo di raggiungimenti inquietanti come le anse del fiume, tenebrose e abissali, contrapposte alle colline brulle, dove l’unico silente indizio d’una presenza umana è la costruzione geometricamente elementare sulla sinistra, contraddistinta dalla nota di rosso.
150 154 - PublicationCase del Paradiso(1953)Rosai, OttaneTracce del passaggio della tela Case del paradiso di Ottone Rosai a Trieste in occasione della Mostra del 1953 si trovano nel denso volume che raccoglie la corrispondenza dell’artista (Lettere 1914-1957, a cura di Vittoria Corti, Prato 1974; tale passaggio, invece, non è menzionato in cataloghi e monografie sull’arte di Rosai, compreso il recente Cinquanta dipinti di Ottone Rosai a 50 anni dalla scomparsa, a cura di Luigi Cavallo, Firenze 2008). In una missiva indirizzata a Perseo Rosai e datata 6 ottobre 1953 (nell’epistolario citato più sopra, n. 685, pp. 627-628), Ottone scrive: “proprio in questi giorni sto mettendo insieme i quadri per la mostra a Trieste”; aggiunge che, a causa di non specificati “impegni” che non gli consentivano di assentarsi da Firenze “neanche per un giorno”, “non potrò esserci presente”. Conferma della mancata partecipazione dell’artista è l’assenza del suo nome nell’elenco degli artisti “che scendono dall’albergo Jolly” (Università di Trieste, Archivio storico). Dei legami tra Rosai e la città di Trieste è testimonianza anche un’altra lettera, di poco precedente (22 agosto 1952, n. 681, pp. 624-625), inviata alla moglie Francesca. Nel documento è fatta menzione di un viaggio della stessa Francesca nella Venezia Giulia, in visita ai parenti del ramo della famiglia Rosai riconducibile al già citato Perseo, il fratello più giovane di Ottone, uno dei ragazzi del ’99 inviati a combattere sul confine orientale del Regno d’Italia. Al termine della prima guerra mondiale Perseo si era trasferito definitivamente a Trieste, e a Trieste ancora vivono i suoi figli Maria Daria e Nevio, i parenti più prossimi dell’artista. È proprio Maria Daria detta Mariuccia (a lei ed alla sua famiglia vanno i più sentiti ringraziamenti per la disponibilità dimostrata) a dare conferma del fatto che Ottone non sia giunto a Trieste in occasione della mostra universitaria; a Trieste, invece, l’artista si era sicuramente recato qualche settimana prima, in concomitanza con l’esposizione di alcune sue opere presso la Galleria Casanuova, mostra la cui inaugurazione ha avuto luogo il 31 ottobre. Nel corso del primo e del secondo decennio del secolo, nella sua Firenze, Ottone studia disegno ed architettura all’Istituto di Arti decorative di piazza Santa Croce e all’Accademia di Belle Arti; in tali contesti, a causa di un temperamento poco incline alle regole della vita scolastica, l’artista colleziona più espulsioni che successi. L’amicizia con Ardengo Soffici – l’uomo che su “La Voce” fece da apripista, in Italia, ai maestri dell’impressionismo francese ed ai cubisti – fa conoscere a Rosai le poetiche delle avanguardie del Novecento; i contatti con Marinetti, Carrà, Palazzeschi, Boccioni imprimono alla sua arte una virata di segno futurista che contraddistingue, ancorché non in profondità, soprattutto la sua produzione del secondo decennio del Novecento. È negli anni Venti che l’artista matura la propria poetica. La stagione del ritorno all’ordine, lo studio dei maestri del Quattrocento fiorentino, Masaccio su tutti, mediati dall’assimilazione dell’arte di Cézanne – in Toscana più precoce e profonda che altrove – sono declinati in senso popolare, vernacolo, connotati dall’attenzione costante per una Firenze “minore”, popolare, ribobolesca, che spiega il legame profondo dell’artista con gli uomini e le battaglie di Strapaese, l’amicizia ed il lungo sodalizio con Mino Maccari. L’ultimo Rosai, quello degli anni Quaranta e Cinquanta, se da un lato (eccezion fatta per la retrospettiva alla Biennale del 1952 e, nel 1953, per una personale alla Strozzina curata da Ragghianti, cui si deve molto del merito della riscoperta della pittura italiana del terzo e quarto decennio del secolo, Strapaese incluso) ha sofferto dell’oblio calato su molta dell’arte italiana del Ventennio, arte che il clima resistenziale ha presto e spesso etichettato come fascista, dall’altro presenta caratteri di specificità e rivela un artista ormai maturo, capace di equilibrare, risolvere pittoricamente il dramma dei lavori degli anni precedenti: anche l’opera conservata presso il Rettorato triestino, che non è datata ma che Luigi Carluccio indica come “recentissima” (Una iniziativa senza precedenti. Pittori all’Università di Trieste, “Gazzetta del Popolo”, 6 dicembre 1953) e che in tutta probabilità si sostanzia di uno dei frequenti scorci di via San Leonardo in cui l’artista aveva il proprio studio, mostra un Rosai che riduce la propria pittura all’essenziale, ai pochi elementi “casa” – “muro” – “cipresso”, in una sorta di declinazione paesaggistica della concentrazione, della tensione morale delle nature morte morandiane. Una pittura, insomma, quella dell’ultimo Rosai, che nel 1971 Bilenchi non ha sbagliato a definire “chiarificata”, “pacificata”; pittura nella quale – si tenga a mente proprio gli scorci in cui, come nell’opera presentata alla mostra triestina del 1953, le stradine non presentano sbocchi, le facciate delle case sono mute – Ragghianti ha letto acutamente un “senso della limitazione, dell’insufficienza, dell’irraggiungibile” (i brani critici citati sono tratti dal repertorio di testi inseriti in Omaggio a Ottone Rosai (1895-1957). Oli e disegni, catalogo della mostra tenuta presso la Galleria La Casa dell’Arte di Sasso Marconi tra il maggio ed il giugno del 1980).Tracce del passaggio della tela Case del paradiso di Ottone Rosai a Trieste in occasione della Mostra del 1953 si trovano nel denso volume che raccoglie la corrispondenza dell’artista (Lettere 1914-1957, a cura di Vittoria Corti, Prato 1974; tale passaggio, invece, non è menzionato in cataloghi e monografie sull’arte di Rosai, compreso il recente Cinquanta dipinti di Ottone Rosai a 50 anni dalla scomparsa, a cura di Luigi Cavallo, Firenze 2008). In una missiva indirizzata a Perseo Rosai e datata 6 ottobre 1953 (nell’epistolario citato più sopra, n. 685, pp. 627-628), Ottone scrive: “proprio in questi giorni sto mettendo insieme i quadri per la mostra a Trieste”; aggiunge che, a causa di non specificati “impegni” che non gli consentivano di assentarsi da Firenze “neanche per un giorno”, “non potrò esserci presente”. Conferma della mancata partecipazione dell’artista è l’assenza del suo nome nell’elenco degli artisti “che scendono dall’albergo Jolly” (Università di Trieste, Archivio storico). Dei legami tra Rosai e la città di Trieste è testimonianza anche un’altra lettera, di poco precedente (22 agosto 1952, n. 681, pp. 624-625), inviata alla moglie Francesca. Nel documento è fatta menzione di un viaggio della stessa Francesca nella Venezia Giulia, in visita ai parenti del ramo della famiglia Rosai riconducibile al già citato Perseo, il fratello più giovane di Ottone, uno dei ragazzi del ’99 inviati a combattere sul confine orientale del Regno d’Italia. Al termine della prima guerra mondiale Perseo si era trasferito definitivamente a Trieste, e a Trieste ancora vivono i suoi figli Maria Daria e Nevio, i parenti più prossimi dell’artista. È proprio Maria Daria detta Mariuccia (a lei ed alla sua famiglia vanno i più sentiti ringraziamenti per la disponibilità dimostrata) a dare conferma del fatto che Ottone non sia giunto a Trieste in occasione della mostra universitaria; a Trieste, invece, l’artista si era sicuramente recato qualche settimana prima, in concomitanza con l’esposizione di alcune sue opere presso la Galleria Casanuova, mostra la cui inaugurazione ha avuto luogo il 31 ottobre. Nel corso del primo e del secondo decennio del secolo, nella sua Firenze, Ottone studia disegno ed architettura all’Istituto di Arti decorative di piazza Santa Croce e all’Accademia di Belle Arti; in tali contesti, a causa di un temperamento poco incline alle regole della vita scolastica, l’artista colleziona più espulsioni che successi. L’amicizia con Ardengo Soffici – l’uomo che su “La Voce” fece da apripista, in Italia, ai maestri dell’impressionismo francese ed ai cubisti – fa conoscere a Rosai le poetiche delle avanguardie del Novecento; i contatti con Marinetti, Carrà, Palazzeschi, Boccioni imprimono alla sua arte una virata di segno futurista che contraddistingue, ancorché non in profondità, soprattutto la sua produzione del secondo decennio del Novecento. È negli anni Venti che l’artista matura la propria poetica. La stagione del ritorno all’ordine, lo studio dei maestri del Quattrocento fiorentino, Masaccio su tutti, mediati dall’assimilazione dell’arte di Cézanne – in Toscana più precoce e profonda che altrove – sono declinati in senso popolare, vernacolo, connotati dall’attenzione costante per una Firenze “minore”, popolare, ribobolesca, che spiega il legame profondo dell’artista con gli uomini e le battaglie di Strapaese, l’amicizia ed il lungo sodalizio con Mino Maccari. L’ultimo Rosai, quello degli anni Quaranta e Cinquanta, se da un lato (eccezion fatta per la retrospettiva alla Biennale del 1952 e, nel 1953, per una personale alla Strozzina curata da Ragghianti, cui si deve molto del merito della riscoperta della pittura italiana del terzo e quarto decennio del secolo, Strapaese incluso) ha sofferto dell’oblio calato su molta dell’arte italiana del Ventennio, arte che il clima resistenziale ha presto e spesso etichettato come fascista, dall’altro presenta caratteri di specificità e rivela un artista ormai maturo, capace di equilibrare, risolvere pittoricamente il dramma dei lavori degli anni precedenti: anche l’opera conservata presso il Rettorato triestino, che non è datata ma che Luigi Carluccio indica come “recentissima” (Una iniziativa senza precedenti. Pittori all’Università di Trieste, “Gazzetta del Popolo”, 6 dicembre 1953) e che in tutta probabilità si sostanzia di uno dei frequenti scorci di via San Leonardo in cui l’artista aveva il proprio studio, mostra un Rosai che riduce la propria pittura all’essenziale, ai pochi elementi “casa” – “muro” – “cipresso”, in una sorta di declinazione paesaggistica della concentrazione, della tensione morale delle nature morte morandiane. Una pittura, insomma, quella dell’ultimo Rosai, che nel 1971 Bilenchi non ha sbagliato a definire “chiarificata”, “pacificata”; pittura nella quale – si tenga a mente proprio gli scorci in cui, come nell’opera presentata alla mostra triestina del 1953, le stradine non presentano sbocchi, le facciate delle case sono mute – Ragghianti ha letto acutamente un “senso della limitazione, dell’insufficienza, dell’irraggiungibile” (i brani critici citati sono tratti dal repertorio di testi inseriti in Omaggio a Ottone Rosai (1895-1957). Oli e disegni, catalogo della mostra tenuta presso la Galleria La Casa dell’Arte di Sasso Marconi tra il maggio ed il giugno del 1980).Tracce del passaggio della tela Case del paradiso di Ottone Rosai a Trieste in occasione della Mostra del 1953 si trovano nel denso volume che raccoglie la corrispondenza dell’artista (Lettere 1914-1957, a cura di Vittoria Corti, Prato 1974; tale passaggio, invece, non è menzionato in cataloghi e monografie sull’arte di Rosai, compreso il recente Cinquanta dipinti di Ottone Rosai a 50 anni dalla scomparsa, a cura di Luigi Cavallo, Firenze 2008). In una missiva indirizzata a Perseo Rosai e datata 6 ottobre 1953 (nell’epistolario citato più sopra, n. 685, pp. 627-628), Ottone scrive: “proprio in questi giorni sto mettendo insieme i quadri per la mostra a Trieste”; aggiunge che, a causa di non specificati “impegni” che non gli consentivano di assentarsi da Firenze “neanche per un giorno”, “non potrò esserci presente”. Conferma della mancata partecipazione dell’artista è l’assenza del suo nome nell’elenco degli artisti “che scendono dall’albergo Jolly” (Università di Trieste, Archivio storico). Dei legami tra Rosai e la città di Trieste è testimonianza anche un’altra lettera, di poco precedente (22 agosto 1952, n. 681, pp. 624-625), inviata alla moglie Francesca. Nel documento è fatta menzione di un viaggio della stessa Francesca nella Venezia Giulia, in visita ai parenti del ramo della famiglia Rosai riconducibile al già citato Perseo, il fratello più giovane di Ottone, uno dei ragazzi del ’99 inviati a combattere sul confine orientale del Regno d’Italia. Al termine della prima guerra mondiale Perseo si era trasferito definitivamente a Trieste, e a Trieste ancora vivono i suoi figli Maria Daria e Nevio, i parenti più prossimi dell’artista. È proprio Maria Daria detta Mariuccia (a lei ed alla sua famiglia vanno i più sentiti ringraziamenti per la disponibilità dimostrata) a dare conferma del fatto che Ottone non sia giunto a Trieste in occasione della mostra universitaria; a Trieste, invece, l’artista si era sicuramente recato qualche settimana prima, in concomitanza con l’esposizione di alcune sue opere presso la Galleria Casanuova, mostra la cui inaugurazione ha avuto luogo il 31 ottobre. Nel corso del primo e del secondo decennio del secolo, nella sua Firenze, Ottone studia disegno ed architettura all’Istituto di Arti decorative di piazza Santa Croce e all’Accademia di Belle Arti; in tali contesti, a causa di un temperamento poco incline alle regole della vita scolastica, l’artista colleziona più espulsioni che successi. L’amicizia con Ardengo Soffici – l’uomo che su “La Voce” fece da apripista, in Italia, ai maestri dell’impressionismo francese ed ai cubisti – fa conoscere a Rosai le poetiche delle avanguardie del Novecento; i contatti con Marinetti, Carrà, Palazzeschi, Boccioni imprimono alla sua arte una virata di segno futurista che contraddistingue, ancorché non in profondità, soprattutto la sua produzione del secondo decennio del Novecento. È negli anni Venti che l’artista matura la propria poetica. La stagione del ritorno all’ordine, lo studio dei maestri del Quattrocento fiorentino, Masaccio su tutti, mediati dall’assimilazione dell’arte di Cézanne – in Toscana più precoce e profonda che altrove – sono declinati in senso popolare, vernacolo, connotati dall’attenzione costante per una Firenze “minore”, popolare, ribobolesca, che spiega il legame profondo dell’artista con gli uomini e le battaglie di Strapaese, l’amicizia ed il lungo sodalizio con Mino Maccari. L’ultimo Rosai, quello degli anni Quaranta e Cinquanta, se da un lato (eccezion fatta per la retrospettiva alla Biennale del 1952 e, nel 1953, per una personale alla Strozzina curata da Ragghianti, cui si deve molto del merito della riscoperta della pittura italiana del terzo e quarto decennio del secolo, Strapaese incluso) ha sofferto dell’oblio calato su molta dell’arte italiana del Ventennio, arte che il clima resistenziale ha presto e spesso etichettato come fascista, dall’altro presenta caratteri di specificità e rivela un artista ormai maturo, capace di equilibrare, risolvere pittoricamente il dramma dei lavori degli anni precedenti: anche l’opera conservata presso il Rettorato triestino, che non è datata ma che Luigi Carluccio indica come “recentissima” (Una iniziativa senza precedenti. Pittori all’Università di Trieste, “Gazzetta del Popolo”, 6 dicembre 1953) e che in tutta probabilità si sostanzia di uno dei frequenti scorci di via San Leonardo in cui l’artista aveva il proprio studio, mostra un Rosai che riduce la propria pittura all’essenziale, ai pochi elementi “casa” – “muro” – “cipresso”, in una sorta di declinazione paesaggistica della concentrazione, della tensione morale delle nature morte morandiane. Una pittura, insomma, quella dell’ultimo Rosai, che nel 1971 Bilenchi non ha sbagliato a definire “chiarificata”, “pacificata”; pittura nella quale – si tenga a mente proprio gli scorci in cui, come nell’opera presentata alla mostra triestina del 1953, le stradine non presentano sbocchi, le facciate delle case sono mute – Ragghianti ha letto acutamente un “senso della limitazione, dell’insufficienza, dell’irraggiungibile” (i brani critici citati sono tratti dal repertorio di testi inseriti in Omaggio a Ottone Rosai (1895-1957). Oli e disegni, catalogo della mostra tenuta presso la Galleria La Casa dell’Arte di Sasso Marconi tra il maggio ed il giugno del 1980).Tracce del passaggio della tela Case del paradiso di Ottone Rosai a Trieste in occasione della Mostra del 1953 si trovano nel denso volume che raccoglie la corrispondenza dell’artista (Lettere 1914-1957, a cura di Vittoria Corti, Prato 1974; tale passaggio, invece, non è menzionato in cataloghi e monografie sull’arte di Rosai, compreso il recente Cinquanta ipinti di Ottone Rosai a 50 anni dalla scomparsa, a cura di Luigi Cavallo, Firenze 2008). In una missiva indirizzata a Perseo Rosai e datata 6 ottobre 1953 (nell’epistolario citato più sopra, n. 685, pp. 627-628), Ottone scrive: “proprio in questi giorni sto mettendo insieme i quadri per la mostra a Trieste”; aggiunge che, a causa di non specificati “impegni” che non gli consentivano di assentarsi da Firenze “neanche per un giorno”, “non potrò esserci presente”. Conferma della mancata partecipazione dell’artista è l’assenza del suo nome nell’elenco degli artisti “che scendono dall’albergo Jolly” (Università di Trieste, Archivio storico). Dei legami tra Rosai e la città di Trieste è testimonianza anche un’altra lettera, di poco precedente (22 agosto 1952, n. 681, pp. 624-625), inviata alla moglie Francesca. Nel documento è fatta menzione di un viaggio della stessa Francesca nella Venezia Giulia, in visita ai parenti del ramo della famiglia Rosai riconducibile al già citato Perseo, il fratello più giovane di Ottone, uno dei ragazzi del ’99 inviati a combattere sul confine orientale del Regno d’Italia. Al termine della prima guerra mondiale Perseo si era trasferito definitivamente a Trieste, e a Trieste ancora vivono i suoi figli Maria Daria e Nevio, i parenti più prossimi dell’artista. È proprio Maria Daria detta Mariuccia (a lei ed alla sua famiglia vanno i più sentiti ringraziamenti per la disponibilità dimostrata) a dare conferma del fatto che Ottone non sia giunto a Trieste in occasione della mostra universitaria; a Trieste, invece, l’artista si era sicuramente recato qualche settimana prima, in concomitanza con l’esposizione di alcune sue opere presso la Galleria Casanuova, mostra la cui inaugurazione ha avuto luogo il 31 ottobre. Nel corso del primo e del secondo decennio del secolo, nella sua Firenze, Ottone studia disegno ed architettura all’Istituto di Arti decorative di piazza Santa Croce e all’Accademia di Belle Arti; in tali contesti, a causa di un temperamento poco incline alle regole della vita scolastica, l’artista colleziona più espulsioni che successi. L’amicizia con Ardengo Soffici – l’uomo che su “La Voce” fece da apripista, in Italia, ai maestri dell’impressionismo francese ed ai cubisti – fa conoscere a Rosai le poetiche delle avanguardie del Novecento; i contatti con Marinetti, Carrà, Palazzeschi, Boccioni imprimono alla sua arte una virata di segno futurista che contraddistingue, ancorché non in profondità, soprattutto la sua produzione del secondo decennio del Novecento. È negli anni Venti che l’artista matura la propria poetica. La stagione del ritorno all’ordine, lo studio dei maestri del Quattrocento fiorentino, Masaccio su tutti, mediati dall’assimilazione dell’arte di Cézanne – in Toscana più precoce e profonda che altrove – sono declinati in senso popolare, vernacolo, connotati dall’attenzione costante per una Firenze “minore”, popolare, ribobolesca, che spiega il legame profondo dell’artista con gli uomini e le battaglie di Strapaese, l’amicizia ed il lungo sodalizio con Mino Maccari. L’ultimo Rosai, quello degli anni Quaranta e Cinquanta, se da un lato (eccezion fatta per la retrospettiva alla Biennale del 1952 e, nel 1953, per una personale alla Strozzina curata da Ragghianti, cui si deve molto del merito della riscoperta della pittura italiana del terzo e quarto decennio del secolo, Strapaese incluso) ha sofferto dell’oblio calato su molta dell’arte italiana del Ventennio, arte che il clima resistenziale ha presto e spesso etichettato come fascista, dall’altro presenta caratteri di specificità e rivela un artista ormai maturo, capace di equilibrare, risolvere pittoricamente il dramma dei lavori degli anni precedenti: anche l’opera conservata presso il Rettorato triestino, che non è datata ma che Luigi Carluccio indica come “recentissima” (Una iniziativa senza precedenti. Pittori all’Università di Trieste, “Gazzetta del Popolo”, 6 dicembre 1953) e che in tutta probabilità si sostanzia di uno dei frequenti scorci di via San Leonardo in cui l’artista aveva il proprio studio, mostra un Rosai che riduce la propria pittura all’essenziale, ai pochi elementi “casa” – “muro” – “cipresso”, in una sorta di declinazione paesaggistica della concentrazione, della tensione morale delle nature morte morandiane. Una pittura, insomma, quella dell’ultimo Rosai, che nel 1971 Bilenchi non ha sbagliato a definire “chiarificata”, “pacificata”; pittura nella quale – si tenga a mente proprio gli scorci in cui, come nell’opera presentata alla mostra triestina del 1953, le stradine non presentano sbocchi, le facciate delle case sono mute – Ragghianti ha letto acutamente un “senso della limitazione, dell’insufficienza, dell’irraggiungibile” (i brani critici citati sono tratti dal repertorio di testi inseriti in Omaggio a Ottone Rosai (1895-1957). Oli e disegni, catalogo della mostra tenuta presso la Galleria La Casa dell’Arte di Sasso Marconi tra il maggio ed il giugno del 1980).
297 416 - PublicationCattedrale distruttaPredonzani, DinoArtista complesso e dal percorso artistico elaborato. Partì da una poetica legata al Novecento con richiami alla grande tradizione pittorica del passato. Negli anni Quaranta trasferì nelle sue opere il dramma della prigionia vissuto in prima persona al tempo della guerra, successivamente, negli anni Cinquanta, virò al Surrealismo per giungere infine ad espressioni artistiche vicine all’Informale. Il dipinto appartiene alla fase più conosciuta di Dino Predonzani, quella legata al mondo surrealista. Come la gran parte degli artisti d’avanguardia di Trieste, ebbe la capacità di assorbire i principi del “tonalismo” senza avvicinarsi alle tematiche surrealiste affrontate ad esempio da Salvador Dalì. Dal punto di vista iconografico il suo è un mondo di vegetanti osteologie compiute sotto “uno svaporare di nubi schiumanti e agglomerate, tra un cielo di smalto e un piano di fuga che attira lo sguardo all’infinito” (Gioseffi, 1953, p. 24). Raffinato disegnatore e colorista venne invitato dal prof. Ambrosino a partecipare all’Esposizione nazionale di pittura italiana contemporanea. Benché il regolamento prevedesse che l’opera dovesse giungere presso l’Università degli Studi di Trieste il giorno 10 ottobre, come documentato dal fitto carteggio conservato presso l’Archivio Storico dell’Università, il pittore chiese di posticipare per due volte la consegna dell’opera. Del 9 ottobre 1953 è una lettera inviata all’attenzione dell’Ufficio Iniziative Culturali dell’Università degli Studi di Trieste nella quale il pittore chiede, essendo egli un artista triestino e residente in città, di rinviare la consegna a fine ottobre in quanto il dipinto risultava mancante della cornice. Da una lettera datata 17 ottobre apprendiamo che la richiesta venne accolta. Dallo scritto si evincono anche altre notizie importanti: le misure della tela (145x110) nonché la promessa di accludere alla missiva anche una riproduzione fotografica dell’opera. In seguito ai “fatti del ‘53” Predonzani inviò un biglietto di scuse all’Ufficio Iniziative Culturali per il protrarsi della consegna della tela. Il dipinto presentato raffigura la cattedrale di San Pauli di Amburgo distrutta da un bombardamento al fosforo nel 1943. Questo spettacolo drammatico venne talmente interiorizzato dall’autore che decise, a distanza di un decennio dalla liberazione dalla prigionia, di riproporlo sulla tela. La chiesa viene rappresentata in una dimensione onirica, restituita come una suggestione di pinnacoli bianchi e neri. Sullo sfondo un’unica forma geometrica tondeggiante identificabile presumibilmente con una luna o un sole ghiacciato simbolo ricorrente in molte sue opere. Colpisce sicuramente la linea dell’orizzonte abbassata che cattura l’attenzione dell’osservatore e che non permette di immaginare dove porti. A rendere ancor più suggestiva l’ambientazione la presenza nel cielo di una nuvola schiumeggiante e traforata color bianco e rosa che si staglia su un cielo smaltato. Durante l’Esposizione molte furono le recensioni dedicate all’opera. In questa sede ricordiamo le parole di Aurelia Gruber Benco: “irto nella sua tematica longitudinale di cuspidi fredde, nel freddo, diviso e luminoso colore, sta la “Cattedrale distrutta” di Dino Predonzani che in un surrealismo esasperato – dove il disegno tende ad essenzializzarsi in punto e linea, e ogni corpo in puro, levigato osso – rivive un clima e quindi una tradizione profondamente nostri. Clima di vento turbinante fra le roccie [sic] porose che si fa clima di cultura di un Nathan, in uno Slataper, in un Benco. È il clima di una nostra aristocrazia spirituale di gelose esigenze e di massimo impegno che Predonzani è chiamato a trasferire nell’oggi, sempreché il punto e la linea non lo facciano prigioniero della superficie assolutamente bianca che, per certe desolate strade, è ancora pittura.” (A. Gruber Benco, 1953, p. 10). Il gusto del pubblico, documentato dall’Istituto di Statistica dell’Università e poi pubblicato sul Bollettino della Doxa sconvolse totalmente il giudizio della critica segnalando l’opera di Predonzani come la seconda opera più gradevole dopo Il volto di Leonor Fini.
270 166 - PublicationFigura femminileMascherini, MarcelloSoffocato dalla vegetazione cresciuta nel frattempo – di cui si auspica quantomeno la potatura – è il colossale gruppo di Dedalo e Icaro, pensato per essere collocato addossato a un pilastro all’estremo angolo destro del complesso edilizio di piazzale Valmaura 9, inaugurato nel 1964 come sede di un istituto di formazione professionale e oggi sede di un polo didattico dell’Università degli Studi di Trieste. Giudicabile solo da foto d’epoca, il grande bronzo pare sostanzialmente estraneo alla problematica fase ‘carsica’ di inizio decennio, e proprio per questo più adatto a una destinazione di questo tipo, essenzialmente decorativa. Qui l’artista sembra recuperare la dimensione narrativa tipica delle opere migliori del decennio precedente, smussando appena la spigolosità neocubista delle opere dei primi anni cinquanta in favore di un modellato più ampio e disteso, ripercorrendo in parte, sviluppandoli sulle tre dimensioni, temi e snodi figurali sperimentati nel grande cantiere dell’Anello degli Argonauti.
154 76 - PublicationFigura in blu (Al caffè)(1953)Vagnetti, GianniCriticato per l’eccessiva prossimità del suo stile a quello di Casorati (Ghiglione 1953), Gianni Vagnetti accolse con entusiasmo l’invito del rettore Ambrosino a partecipare all’Esposizione Nazionale di pittura italiana contemporanea intessendo con lo stesso Ambrosino una fitta corrispondenza volta a precisare i dettagli della manifestazione e a fornire suggerimenti utili per il corso di critica d’arte organizzato a margine dell’evento (Lettera di Gianni Vagnetti al Rettore Ambrosino, Archivio dell’Università di Trieste, 4 agosto 1953; Lettera di Gianni Vagnetti al Rettore Ambrosino, Archivio dell’Università di Trieste, 29 settembre 1953; Lettera di Rodolfo Ambrosino a Gianni Vagnetti, Archivio dell’Università di Trieste, 30 settembre 1953; Lettera di Gianni Vagnetti al Rettore Ambrosino, Archivio dell’Università di Trieste, 12 ottobre 1953). Tali contatti proseguirono anche a mostra conclusa sia per le richieste dell’artista di ricevere gli articoli ad essa inerenti comparsi sulla stampa giuliana e nazionale, sia per reclamare la restituzione del dipinto (Lettera di Gianni Vagnetti al Rettore Ambrosino, Archivio dell’Università di Trieste, 28 dicembre 1953; Lettera di Gianni Vagnetti al Rettore Ambrosino, Archivio dell’Università di Trieste, 22 gennaio 1954). Preoccupato di non riavere l’opera in tempo per la sua partecipazione a nuova esposizione (Lettera di Gianni Vagnetti al Rettore Ambrosino, Archivio dell’Università di Trieste, 5 febbraio 1954), Vagnetti rischiò di far scoppiare un piccolo incidente diplomatico dovuto alla lentezza delle comunicazioni con il rettore ma che si risolse felicemente con la proposta di acquisto del dipinto da parte dell’Università per la cifra di centomila lire (Lettera di Rodolfo Ambrosino a Gianni Vagnetti, Archivio dell’Università di Trieste, 6 febbraio 1954). Soddisfatto alla notizia della visibilità che l’Esposizione aveva ricevuto sui quotidiani e periodici del tempo, l’artista accolse di buon grado la proposta di Ambrosino, felice di entrare nel novero dei pittori scelti per impreziosire gli ambienti dell’Ateneo giuliano (Lettera di Gianni Vagnetti al Rettore Ambrosino, Archivio dell’Università di Trieste, 12 febbraio 1954). Esposta alla retrospettiva che nel 1958 interessò le città di Firenze, Milano e Roma, l’opera rappresenta una spigolosa e assorta figura di donna seduta a un tavolino su cui sono posate, sopra una tovaglietta bianca, una caraffa e una tazzina. Il mento sostenuto dalle mani intrecciate, il gomito destro puntato sul ripiano del tavolo, la protagonista indossa una camicia blu e una gonna candida dalle balze geometriche che le permettono di spiccare con sicura evidenza dal fondo di difficile decifrazione. Lasciato parzialmente indistinto, questo è infatti in parte occupato da quella che potrebbe sembrare la parete di mattoni di un locale pubblico – come suggerisce il titolo dell’opera – o di un’abitazione di modeste condizioni. Se l’ambientazione della scena e il suo significato possono lasciare adito a interpretazioni (si può infatti trattare di una borghese seduta in un caffè cittadino per una semplice pausa dagli impegni quotidiani o di una donna pressata da un sentimento di solitudine e ansia esistenziale), ciò che invece balza sicuro agli occhi senza tema di smentite è il fatto che il dipinto possa essere assunto a modello della nuova fase che attraversa la pittura di Vagnetti negli anni Cinquanta. Come rileva Luigi Cavallo, autore di un’accurata biografia dell’artista, il pittore «rimettendo in discussione gli elementi strutturali e compositivi, riesamina la forma tenendo presente i suggerimenti plastici e i risultati stilistici del postcubismo» (Cavallo, 1975, p. 87) senza giungere a effetti di astrattismo ma approdando a una diversa e più complessa organizzazione spaziale. Non è solo il postcubismo, tuttavia, a caratterizzare questa stagione stilistica né a determinare in modo esclusivo l’opera in esame: se Figura in blu evoca immediatamente gli esordi di Picasso e la malinconica rassegnazione di cui erano ammantati i personaggi dei suoi primi lavori, la parte del titolo che recita Al caffè richiama i soggetti trattati dall’impressionismo ma qui svolti dando voce al senso di solitudine che Vagnetti sembra individuare come caratteristica tipica dell’essere femminile svolgendo questo tema in una serie di dipinti affini a quello in esame tra cui Figura in grigio e L’absinthe (Gianni Vagnetti. Opere dal 1921 al 1956, catalogo della mostra di Anghiari a cura di C. Marsan, Firenze, Arnaud Editore, 1958, pp. 74-75). Avviato al disegno dal padre Italo, a sua volta scultore, Gianni Vagnetti frequentò la Scuola Libera del Nudo di Firenze vincendo nel 1918 il concorso Stibbert con l’opera Dopo il bagno (acquistata dalla Galleria d’Arte Moderna di Lima). Inizialmente influenzato dallo stile postmacchiaiolo di Ciani e Spadini, si volge lentamente a una pittura di maggiore intimismo su cui pesa la frequentazione di Felice Carena (professore dell’Accademia fiorentina di Belle Arti dal 1924) e la vicinanza agli ideali di Novecento che nel 1927, proprio nello studio di Vagnetti, vede la nascita del suo ramo toscano. Fondatore assieme ad Andreotti, Romanelli, Maraini e Bacci del Sindacato Italiano di Belle Arti (1925), nel 1929 realizzò il ritratto dal vero di Mussolini destinato al Viminale ed esposto invece nella sala del direttorio del partito a Roma. Presente alle Biennali di Venezia, alle Quadriennali di Roma e alle principali mostre del Novecento in Italia e all’estero, a metà degli anni Trenta iniziò a dedicarsi alla scenografia diventando presto collaboratore del Maggio musicale. Docente di scenografia all’Accademia di Belle Arti di Firenze, si dedicò al cartellone pubblicitario, alla decorazione di ceramiche e a progetti di arredamento. Morì per emorragia cerebrale il 19 marzo 1956.Criticato per l’eccessiva prossimità del suo stile a quello di Casorati (Ghiglione 1953), Gianni Vagnetti accolse con entusiasmo l’invito del rettore Ambrosino a partecipare all’Esposizione Nazionale di pittura italiana contemporanea intessendo con lo stesso Ambrosino una fitta corrispondenza volta a precisare i dettagli della manifestazione e a fornire suggerimenti utili per il corso di critica d’arte organizzato a margine dell’evento (Lettera di Gianni Vagnetti al Rettore Ambrosino, Archivio dell’Università di Trieste, 4 agosto 1953; Lettera di Gianni Vagnetti al Rettore Ambrosino, Archivio dell’Università di Trieste, 29 settembre 1953; Lettera di Rodolfo Ambrosino a Gianni Vagnetti, Archivio dell’Università di Trieste, 30 settembre 1953; Lettera di Gianni Vagnetti al Rettore Ambrosino, Archivio dell’Università di Trieste, 12 ottobre 1953). Tali contatti proseguirono anche a mostra conclusa sia per le richieste dell’artista di ricevere gli articoli ad essa inerenti comparsi sulla stampa giuliana e nazionale, sia per reclamare la restituzione del dipinto (Lettera di Gianni Vagnetti al Rettore Ambrosino, Archivio dell’Università di Trieste, 28 dicembre 1953; Lettera di Gianni Vagnetti al Rettore Ambrosino, Archivio dell’Università di Trieste, 22 gennaio 1954). Preoccupato di non riavere l’opera in tempo per la sua partecipazione a nuova esposizione (Lettera di Gianni Vagnetti al Rettore Ambrosino, Archivio dell’Università di Trieste, 5 febbraio 1954), Vagnetti rischiò di far scoppiare un piccolo incidente diplomatico dovuto alla lentezza delle comunicazioni con il rettore ma che si risolse felicemente con la proposta di acquisto del dipinto da parte dell’Università per la cifra di centomila lire (Lettera di Rodolfo Ambrosino a Gianni Vagnetti, Archivio dell’Università di Trieste, 6 febbraio 1954). Soddisfatto alla notizia della visibilità che l’Esposizione aveva ricevuto sui quotidiani e periodici del tempo, l’artista accolse di buon grado la proposta di Ambrosino, felice di entrare nel novero dei pittori scelti per impreziosire gli ambienti dell’Ateneo giuliano (Lettera di Gianni Vagnetti al Rettore Ambrosino, Archivio dell’Università di Trieste, 12 febbraio 1954). Esposta alla retrospettiva che nel 1958 interessò le città di Firenze, Milano e Roma, l’opera rappresenta una spigolosa e assorta figura di donna seduta a un tavolino su cui sono posate, sopra una tovaglietta bianca, una caraffa e una tazzina. Il mento sostenuto dalle mani intrecciate, il gomito destro puntato sul ripiano del tavolo, la protagonista indossa una camicia blu e una gonna candida dalle balze geometriche che le permettono di spiccare con sicura evidenza dal fondo di difficile decifrazione. Lasciato parzialmente indistinto, questo è infatti in parte occupato da quella che potrebbe sembrare la parete di mattoni di un locale pubblico – come suggerisce il titolo dell’opera – o di un’abitazione di modeste condizioni. Se l’ambientazione della scena e il suo significato possono lasciare adito a interpretazioni (si può infatti trattare di una borghese seduta in un caffè cittadino per una semplice pausa dagli impegni quotidiani o di una donna pressata da un sentimento di solitudine e ansia esistenziale), ciò che invece balza sicuro agli occhi senza tema di smentite è il fatto che il dipinto possa essere assunto a modello della nuova fase che attraversa la pittura di Vagnetti negli anni Cinquanta. Come rileva Luigi Cavallo, autore di un’accurata biografia dell’artista, il pittore «rimettendo in discussione gli elementi strutturali e compositivi, riesamina la forma tenendo presente i suggerimenti plastici e i risultati stilistici del postcubismo» (Cavallo, 1975, p. 87) senza giungere a effetti di astrattismo ma approdando a una diversa e più complessa organizzazione spaziale. Non è solo il postcubismo, tuttavia, a caratterizzare questa stagione stilistica né a determinare in modo esclusivo l’opera in esame: se Figura in blu evoca immediatamente gli esordi di Picasso e la malinconica rassegnazione di cui erano ammantati i personaggi dei suoi primi lavori, la parte del titolo che recita Al caffè richiama i soggetti trattati dall’impressionismo ma qui svolti dando voce al senso di solitudine che Vagnetti sembra individuare come caratteristica tipica dell’essere femminile svolgendo questo tema in una serie di dipinti affini a quello in esame tra cui Figura in grigio e L’absinthe (Gianni Vagnetti. Opere dal 1921 al 1956, catalogo della mostra di Anghiari a cura di C. Marsan, Firenze, Arnaud Editore, 1958, pp. 74-75). Avviato al disegno dal padre Italo, a sua volta scultore, Gianni Vagnetti frequentò la Scuola Libera del Nudo di Firenze vincendo nel 1918 il concorso Stibbert con l’opera Dopo il bagno (acquistata dalla Galleria d’Arte Moderna di Lima). Inizialmente influenzato dallo stile postmacchiaiolo di Ciani e Spadini, si volge lentamente a una pittura di maggiore intimismo su cui pesa la frequentazione di Felice Carena (professore dell’Accademia fiorentina di Belle Arti dal 1924) e la vicinanza agli ideali di Novecento che nel 1927, proprio nello studio di Vagnetti, vede la nascita del suo ramo toscano. Fondatore assieme ad Andreotti, Romanelli, Maraini e Bacci del Sindacato Italiano di Belle Arti (1925), nel 1929 realizzò il ritratto dal vero di Mussolini destinato al Viminale ed esposto invece nella sala del direttorio del partito a Roma. Presente alle Biennali di Venezia, alle Quadriennali di Roma e alle principali mostre del Novecento in Italia e all’estero, a metà degli anni Trenta iniziò a dedicarsi alla scenografia diventando presto collaboratore del Maggio musicale. Docente di scenografia all’Accademia di Belle Arti di Firenze, si dedicò al cartellone pubblicitario, alla decorazione di ceramiche e a progetti di arredamento. Morì per emorragia cerebrale il 19 marzo 1956.
205 165 - PublicationFioriMelecchi, Pietro“Dopo gli steli ritorti quasi segnati dalla fiera del vento e gli spiritati girasoli di Van Gogh, dopo i mazzi nervosi di De Pisis, dopo i patetici garofani di Mafai e le sontuose peonie di Bonnard, questi fiori di Melecchi sembrano piuttosto dei prodigi minerali” (Lorenza Trucchi, Il Momento, 6 novembre 1953). Intensi nella loro semplicità, i Fiori di Pietro Melecchi sono giunti nelle collezioni dell’Ateneo triestino perché acquistati in seguito alla partecipazione dell’artista all’Esposizione nazionale di pittura contemporanea del 1953. Dal carteggio conservato presso l’Università si desume che l’artista viene, in un primo momento, segnalato al rettore dal pittore Beppe Guzzi, mentre in una lettera del 2 settembre 1953 è lo stesso Melecchi a proporsi rivolgendosi direttamente a Rodolfo Ambrosino per chiedere di partecipare all’esposizione triestina. La tematica dei fiori accompagna l’artista lungo tutto l’arco degli anni Cinquanta diventando un motivo ricorrente con innumerevoli variazioni su tema, come le nature morte morandiane. È proprio l’esempio di Giorgio Morandi, suo grande amico, gioca un ruolo-forza nella formazione di Melecchi avvenuta nell’ambiente bolognese. Entrambi si dedicano alla pittura con umiltà, dando anima e corpo ad un unico tema, sviscerandolo e meditandolo in profondità. L’opera dell’università è frutto di un assiduo scavo mentale ma nello stesso tempo, di un sapiente lavoro artigianale. È una pittura “materica” dove si alternano stesure ricche e pastose accanto a leggere velature quasi trasparenti. La sobria tavolozza di Melecchi nel tempo si è arricchita di tonalità vivaci: rosa, giallini, verde acqua, colori raffinati e preziosi tenuti sempre su toni bassi e sorvegliati. Il quadro, suscitò il plauso di Decio Gioseffi che nel numero di “Umana” del dicembre 1953 che funge da catalogo dell’esposizione del 1953, scrisse: “Un quadro che, nella sua limpida chiarità, ci dà un senso di appagamento e di gioia e più si guarda e più piace”. L’opera dell’università è frutto di un processo di maturazione dell’artista, lento e progressivo attraverso un cammino tutto personale alla ricerca di una sintesi. È un’opera introspettiva ma lontana dalle fredde astrazioni intellettuali e piena di accorata umanità. La fortissima costruzione spaziale è retaggio della formazione di architetto di Melecchi, professione che ha abbandonato per dedicarsi alla pittura, la sua passione giovanile. Dal 1944 il pittore si trasferisce a Trieste dove si dedica all’insegnamento del disegno al Liceo scientifico. Il pittore espone presso la galleria Michelazzi nel 1946 e nel 1947. Nel 1954, l’anno successivo alla mostra dell’università Melecchi presenta alla Biennale veneziana una nuova rielaborazione della tematica dei fiori, molto simile alla nostra. La pittura di Melecchi viaggia su due binari: da una parte la passione per la materia pittorica, dall’altra una rigorosa impaginazione geometrica che tiene a freno la sua esuberanza strizzando l’occhio a Cézanne e ai cubisti che gli hanno insegnato l’essenzialità della forma e l’ordine compositivo. Se lanciamo uno sguardo allo sbocco che avrà Melecchi negli anni Sessanta scopriamo che avrà la meglio la componente materica: il cammino del pittore proseguirà verso una pittura informale più libera e schietta.
163 99 - PublicationGioco di donnaCarà, UgoIl disegno è giunto nelle collezioni dell’ateneo in occasione dell’Esposizione nazionale di pittura italiana contemporanea, allestita nell’Aula Magna dell’ateneo nel 1953. In quel frangente la commissione organizzatrice aveva stabilito di richiedere agli scultori prove di grafica. Ugo Carà aderirà entusiasticamente alla proposta del Rettore Rodolfo Ambrosino, proponendo anche ulteriori nominativi per estendere la presenza triestina alla mostra, tra questi Gianni Brumatti, Ramiro Meng, Nicola Sponza e i più giovani Livio Rosignano, Gianni Russian e Carlo Walcher (AUT, Busta 59, fasc. corrispondenza). La fanciulla è tratteggiata nel disegno con notevole precisione di tratto e ben definita nei volumi, e anche per il particolare copricapo si avvicina molto ai bronzetti di figure femminili approntate agli inizio degli anni cinquanta, caratterizzati da una marcata sintesi compositiva non immemore della coeva lezione di Emilio Greco. In particolare contatti piuttosto precisi si possono almeno idealmente proporre con la Donna con cappellino delle collezioni del Comune di Muggia (cfr Ugo Carà: arte architettura, design 1926-1963, catalogo della mostra di Trieste, Civico Museo Revoltella 2004, a cura di M. Masau Dan, L. Michelli, Trieste, Comunicarte Edizioni, 2003, p. 63). In un momento per lui consacrato alle grandi imprese decorative per le navi da crociera, lo scultore ripropone una sorta di idilliaca meditazione sulla figura femminile che tanto lo aveva affascinato nella seconda metà degli anni trenta con attente meditazioni sulla statuaria classica.
123 72 - PublicationGroviglio di coseMinissian, LeoneAnnus mirabilis nella carriera di Leone Minassian, il 1953 aveva visto il dipinto Groviglio di cose non solo protagonista a Trieste per la Mostra Nazionale di pittura italiana contemporanea ma anche esposto tra il settembre e l’ottobre di quell’anno all’importante vetrina della X Biennale Triveneta di Padova. Il dipinto apriva le porte a Minassian verso una nuova idea delle cose ammassate, monumentali e capaci di offuscare con la loro inquietante mole cielo e terra, che gli derivava pure da un’esperienza visiva fatta davanti a un Morandi del 1921 in una collezione privata veneziana, ricordata dallo stesso Minassian tra le pagine de “La Fiera Letteraria” il 19 ottobre 1952: “...popolata di oggetti cupi e fantomatici, fra il bruno scurissimo e il nero[...]allucinante nella sua suggestività...”. Non potevano mancare, tra le “cose”, una ripresa del tema de chirichiano in chiave surrealista, come pare evidente il busto sulla destra, mutuato dall’Incertezza del poeta del 1913, o la scarpa da elfo presente pure in un altro dipinto di Minassian del 1953, Interno magico n. 2, posizionata come gli zoccoli dei coniugi Arnolfini di Van Eyck, ovvero in primo piano. Evidentemente Groviglio di cose diede nuova linfa vitale all’artista veneziano che ne eseguì un’altra versione nel marzo del 1954 e che presentò con ottimi risultati alla XXVII Biennale di Venezia e dove, rispetto al Groviglio di cose del 1953, gli elementi apparvero informi e indecifrabili, pressoché indistinti e che “tendono ad una pietrificazione”.
213 144 - PublicationIl circoDevetta, EdoardoNon si sa quando e in quale circostanza l’opera sia entrata a far parte delle collezioni dell’Università degli Studi di Trieste. È attribuibile alla prima produzione pittorica di Edoardo Devetta. Da un buono di carico del 30 gennaio 1973 dell’Università sappiamo che l’opera, assicurata per il valore di 40.000 lire, venne portata presso l’Istituto di Fisica Teorica e poi trasferita presso la sede principale dell’Università. Il dipinto, inedito, è per certi aspetti molto vicino all’illustrazione di un tela presentata nel 1945 alla Galleria del Corso a Trieste raffigurante anch’essa un Circo (Nove artisti. Anzil Bergagna Daneo Romeo De Cillia Devetta Fantoni Mascherini Righi Turrin alla Galleria Al Corso, Trieste 25 ottobre-8 novembre 1945). Artista intimo e delicato Devetta tende verso una vibrazione costante delle tonalità, impreziosite da passaggi luministici assai brillanti. L’opera si caratterizza per la grumosità della superficie pittorica. Il paesaggio, tema prediletto della prima produzione pittorica dell’artista, presenta il tendone del circo al centro della composizione. Il tutto risulta arricchito di dati cromatici innaturali quali alberi blu, cielo rosso e abbozzi di animali gialli.
98 88 - PublicationIl giardinoDevetta, EdoardoTemendo forti polemiche sulla scelta degli artisti triestini da invitare all’Esposizione, il docente di storia dell’arte Gian Luigi Coletti in una lettera del 7 luglio 1953 inviata al Rettore Ambrosino scriveva: “la questione è molto delicata data la suscettibilità degli artisti… In sostanza tutti i pittori del tuo elenco sono nel mio. Insisterei per l’invito di tutti: critiche ci saranno ad ogni modo; ma altresì sarà un vespaio. […] Devetta è un buon amico e perciò lo vedrei volentieri, ma mi pare forse ancora in via di formazione… è bene chiedere a Civiletti”. Edoardo Devetta aveva infatti cominciato a esporre nel 1942, alla XVI Esposizione del Sindacato Interprovinciale fascista delle Belle Arti di Trieste. L’anno successivo si fa conoscere a Venezia partecipando a due mostre ed è del 1944 la sua prima mostra personale recensita sulle pagine del Piccolo nel maggio da Silvio Benco. Grazie all’amicizia di Francesco Tomea, conosciuto a Udine nel 1940, ha la possibilità di meditare sui valori compositivi e strutturali di Cézanne, sui valori plastici monumentali di Sironi e inizia da autodidatta una carriera artistica estremamente prolifica. All’inizio l’interesse per il paesaggio fu un motivo fondamentale della sua pittura. Il colore, il protagonista assoluto delle sue opere, è uno strumento per fissare il mutevole vedere. Inizialmente legato a delle tonalità basse e severe nel timbro si accosterà a scelte cromatiche ben più luministiche che risentirono dell’attenzione cromatica rivolta alle opere di Gino Rossi. Negli anni Cinquanta Devetta si dedica principalmente alle rappresentazioni di paesaggi, assai raramente urbani. Osservatore della natura, pur partendo da motivi reali, Devetta li rielabora. Giunge a una raffigurazione dal cromatismo gioioso e incantato con richiami fauve basati sulla semplificazione delle forme, sull’abolizione della prospettiva e del chiaroscuro, sull’uso di colori vivaci e innaturali, sull’uso incisivo del colore puro. Il tema della casa viene messo a confronto con il dato naturale dando luogo a un piacevolissimo dialogo tra una salda struttura compositiva di ascendenza postcubista ed un cromatismo vivace. L’aspetto affascinante de Il giardino è la capacità dell’autore di proporre uno squarcio di quotidianità con un linguaggio volutamente semplice, quasi elementare e ingenuo. Il giardino ci trasmette un’atmosfera da fiaba in cui ogni singolo dettaglio è perfettamente chiaro e leggibile. Si osservi il tavolo imbandito con sobrietà sopra al quale sono posti un cesto con la frutta e un piatto con altri semplici quanto invitanti prodotti della campagna, l’ombrello appoggiato, le finestre e le tende aperte indici di accoglienza. Non mancano i tipici vasi di fiori policromi di Devetta posizionati sul prato verde del giardino. Un dettaglio ironico e divertente è rappresentato dalla particolare collocazione della firma dell’autore apposta in posizione alquanto insolita, in bella evidenza sull’intonaco della casa a sostituire la più comune targhetta del campanello. Il dipinto piacque anche agli artisti provenienti dalle altre regioni. Nel proclamare il vincitore del premio previsto per l’artista giuliano, gli espositori dell’Esposizione nazionale di pittura italiana contemporanea scelsero Nino Perizi con il suo Omaggio a Garcia Lorca, il secondo per preferenze risultò Edoardo Devetta seguito dalle Case di Parigi di Federico Righi.
150 134 - PublicationIl tafferuglioMaccari, MinoNell’introduzione alla Guida rapida alla pinacoteca dell’Università di Trieste, Nicoletta Zanni afferma come probabile sia che il soggetto dei Tafferugli (in realtà il titolo riportato sul talloncino è Il tafferuglio) di Maccari rimandi alla violenta soppressione – ordinata alla polizia civile dal Governo alleato – di alcune manifestazioni patriottiche che, circa un mese prima, a Trieste, aveva portato alla morte di sei giovani. Se stimolante è credere che, per l’esposizione del 1953, Maccari avesse scelto proprio un’opera raffigurante uno scontro di piazza, siamo certi che, ad essere presentato, non sia l’episodio accaduto a Trieste. Da un lato, il fatto che l’opera sia passata per la mostra dell’arte italiana organizzata a Stoccolma dalla Biennale veneziana nella primavera del 1953 fornisce una solida prova di una datazione sicuramente anteriore agli episodi di violenza verificatisi a Trieste. Dall’altro, l’opera presentata alla mostra triestina e, prima, a Stoccolma è riprodotta nel numero del 6 febbraio del 1952 de “Il Mondo” di Mario Pannunzio (Maccari, assieme ad Amerigo Bartoli, è stato autore delle vignette che hanno accompagnato la rivista a partire dall’anno della fondazione) e accompagnata dalla didascalia: “Studenti fascisti dell’Università di Roma hanno aggredito l’on. Calosso durante le sue lezioni” (Calosso, socialista, era stato anche membro della Costituente). Inoltre, sulla scorta di un gusto che, dagli anni del “Selvaggio”, Maccari aveva traguardato alla prima età repubblicana, accanto alla didascalia compare il motto “Bastonatelo! Saremo bocciati, ma riavremo l’Impero”. Vero è che la questione di Trieste era bene impressa non solo nella mente degli autori delle pagine politiche de “Il Mondo”, ma anche in quella di Maccari che, il 26 ottobre del 1954, sulla medesima rivista avrebbe pubblicato un disegno raffigurante un’altra rissa, stavolta verificatasi alla Camera proprio nell’ambito di una discussione sul destino della città giuliana. La comparsa – a stampa – de I tafferugli su “Il Mondo” e, contestualmente, la possibilità di individuare l’opera originale nella china conservata presso il Rettorato, costituisce un’eccezione per un artista che, appunto, dagli anni de “Il Selvaggio” fino al secondo dopoguerra non si è mai curato di organizzare la conservazione degli originali. Per uno sguardo complessivo sull’opera di Maccari, che Federico Zeri ha definito “uno dei più straordinari grafici del nostro secolo” (tale definizione, del 1985, è riportata in Mino Maccari, Torino, Edizioni d’arte Sant’Agostino, 1988), restano riferimenti ineludibili: per le incisioni, il Catalogo ragionato a cura di Francesco Meloni (Milano, Electa, 1979); per i dipinti, i volumi appartenenti alla serie di Maccari a dispense (Firenze, dal 1984); manca, tuttora, anche per le difficoltà cui si è fatto riferimento più sopra un’opera sistematica sui Disegni. Emerge, nitida, la figura di un artista che, come ha scritto provocatoriamente Alessandro Parronchi (Mino Maccari, Focette, Galleria d’arte moderna Falsetti, 1974), chi è nato dopo il 1910 comprende con difficoltà: tenacemente conservatore, fedele ad una provincia che, pure nutrita di cultura italiana ed europea (Roberto Longhi ne ha parlato come di un “selvaggio tanto avvisato che è quanto dir tutto salvato”) fosse carica di moralità – a tratti, moralismo –, “rettamente intesa” (lo sottolinea Paolo Rizzi in Antologia alla Galleria d’arte Sagittaria, Pordenone, GEAP, 1970) ed esprimesse significati “traducibili in parole”, nella seconda metà del secolo Maccari resta orgogliosamente estraneo ai nuovi formalismi astratti o a tentazioni espressionistiche. Scarsi, dopo le sale concesse alla Biennale del 1938 ed alla Quadriennale del 1939, i riconoscimenti concessi a Maccari dalla critica e dal sistema delle arti in Italia. È Carlo Ludovico Ragghianti, col suo Il Selvaggio di Mino Maccari (Venezia, Neri Pozza, 1955), a riportare all’attenzione dell’Italia repubblicana il particolare profilo dell’artista e, più in generale, il significato della cultura di fronda e delle battaglie di Strapaese, favorendo il superamento del cliché arte del Ventennio-arte fascista. Si torni, infine, sulla Biennale del 1952, attorno alla quale resta viva una suggestione. In una curiosa analogia tematica – e in altrettanto evidente difformità stilistica e storica – i Tafferugli di Maccari erano presenti all’esposizione veneziana assieme ad un altro celebre scontro di piazza, questo però tutto milanese e collocabile nei pressi della Galleria Vittorio Emanuele: La rissa in Galleria di Umberto Boccioni, opera sistemata nella sezione del Divisionismo in Italia, sezione presentata nel catalogo della mostra (p. 390 e sgg.) da Marco Valsecchi
167 154 - PublicationIn attesa del busRosignano, LivioCome recitano le parole vergate sul verso del dipinto, questo è stato donato all’ateneo nel 2011 dal prof. Giorgio Negrelli. Realizzato da Livio Rosignano intorno al 1954, In attesa del bus rientra nei codici compositivi utilizzati dall’artista intorno alla metà degli anni cinquanta, quando giovanissimo muoveva i suoi primi passi nell’ambiente artistico triestino con opere dal cromatismo particolarmente acceso e molto legate al racconto della quotidianità. Scriveva a tale proposito Decio Gioseffi: “È facile essere gradevoli con una pittura che miri alla gradevolezza e all’esteriorità esornativa: ma quando un artista serio come Rosignano, che non ha mai cercato di dipingere per allettare il potenziale acquirente, ma solo per esprimere con sincerità e purità di cuore ciò che sente, raggiunge un risultato così armonicamente godibile, vuol dire veramente che gli impulsi che lo hanno primamente mosso sono stati superati o bruciati in una visione più olimpicamente distesa, più artistica. […] I suoi quadri (non tutti) piacciono proprio per la raggiunta euritmia tra sentimento , visione coloristica e tecnica pittorica ; e sono tali che più si guardano più ‘parlano’ e perciò più piacciono. Ci riferiamo in particolare a opere di una esemplare contenutezza come «Cantiere edilizio» che può rievocare il gusto di certi primitivi americani, i quali esprimono liricamente un mondo di umili cose perché quel mondo amavano con sincero trasporto e fieramente, da uomini. Ora direi che il sentimento di Rosignano si configura proprio in questa vitalità di accenti, per cui la voce resta una voce un poco spaesata frammezzo al ribollire di umori femminei che contraddistingue molta parte dell’arte intellettualistica di oggidì” (D. Gioseffi, Rosignano, “Il Piccolo”, 18 gennaio 1958).
215 197 - PublicationL'AquiloneViviani, GiuseppeCome risulta dalla documentazione conservata presso l’Ateneo, l’acquaforte viene acquistata in occasione dell’Esposizione Nazionale di pittura italiana che si tiene a Trieste nel 1953 e quindi destinata al Dipartimento di Elettrotecnica, (edificio C2, primo piano, stanza 108, segreteria). Nel catalogo della Casa d’aste Pitti, Gruppo Finarte (vendita 29 aprile 1992, esposizione 24-27 aprile 1992) risulta in vendita una versione di Aquilone in matita su carta (fig. 1). Il linguaggio di Viviani è inconfondibile, caratterizzato da un armamentario di oggetti, simboli e immagini ricorrenti, un piccolo vocabolario di volta in volta rielaborato; le spiagge assolate, i fiori colti da un fremito vitale sono motivi che ritroviamo diversamente assemblati in altre opere di Viviani. Il mare è quello della sua terra, la zona del lungomare intorno a Marina di Pisa, quel lembo di terra racchiuso tra le foci dell’Arno e del Serchio, tanto amato da D’Annunzio che vi scrisse La pioggia nel pineto. Il tratto è lieve e l’atmosfera incantata, di una tenerezza quasi infantile. Una mitologia che qualche critico ha accostato al fervore immaginativo e all’ingenuità fanciullesca di Chagall. Il mondo artistico di Viviani ruota intorno alla sua terra, un mondo fatto di quotidianità e di ricordi d’infanzia. Mentre furoreggiavano le avanguardie, Viviani prosegue imperterrito il suo cammino solitario elaborando un linguaggio inconfondibile sviluppato in tanti anni di scavo interiore. Lui stesso scriveva: “I miei più che segni provenienti da un arsenale del passato, sono note di una musica della mia anima di solitario cacciatore. Sì, voglio dire che tutto è mio, e il bagaglio che altri avevano io non conoscevo nemmeno” (Viviani, catalogo della mostra (Focette-Marina di Pietrasanta, 28 giugno-11 luglio 1975), Prato 1975, p. 9). La carriera di Giuseppe Viviani è costellata da numerosi successi. Per citarne solo alcuni: nel 1929 ottiene il Premio per l’incisione alla Mostra Internazionale di Monaco, nel 1939 e nel 1942 vince il Premio Bergamo. Nel 1950 si aggiudica il primo premio per l’incisione alla Biennale veneziana e due anni dopo il Primo Premio Internazionale alla mostra in bianco e nero di Lugano e quello della Quadriennale di Roma. Nel 1959 lo Stato gli acquista l’intera collezione di acqueforti, composta da 110 pezzi per destinarla al Gabinetto delle Stampe presso gli Uffizi. Così lo ricorda Enzo Carli: “Quel diavolaccio alto 1 m e 82, vigoroso, abbronzato dal sole marino e dalla bocca a salvadanaio parca di parole e di sorrisi, che con la casacca alla cacciatora e gli stivaloni da palude vedevo aggirarsi, più spesso munito dallo schioppo che della cassettina da pittore, per i soavi sentieri in riva d’Arno, o tra le radure di Falesco e le pinete di Marina” (Viviani, a cura di Pier Carlo Santini, Firenze, Vallecchi, 1957). Alla sua morte, secondo la sua volontà, le lastre originali delle sue opere furono gettate nel suo mare, quello di Marina di Pisa.
148 93 - PublicationL'arco di Giano(1953)Trombadori, FrancescoPer ricostruire il contesto pittorico, ma anche culturale nel quale si colloca L’arco di Giano conservato presso il Rettorato dell’Ateneo triestino, occorre mettere a fuoco l’opera di Francesco Trombadori nel secondo dopoguerra. Operazione possibile avendo a mente almeno i due cataloghi delle esposizioni romane I paesaggi del silenzio 1945-1961 (Roma 1999) e Paesaggi di Roma (Roma 1979). In quest’ultimo è riprodotto un altro Arco di Giano, di dimensioni analoghe, individuato in collezione privata romana, opera che si può riconoscere nella tela transitata per la Biennale di Venezia del 1954, a pochi mesi dalla mostra triestina del dicembre 1953. Indicazione importante, stante l’abitudine dell’artista di firmare, ma non datare le proprie opere. La pittura di Trombadori compresa tra gli estremi della fine del secondo conflitto mondiale e la morte, avvenuta nel 1961, presenta un carattere di sensibile omogeneità: formati piccoli e medi, l’insistenza su paesaggi e vedute, quasi tutti di Roma; la scomparsa pressoché totale della figura umana e della natura morta dai campi di interesse dell’artista. Nei testi del catalogo Paesaggi di Roma firmati da Giuliano Briganti, Muzio Mazzocchi Alemanni e Roberto Passi, le visioni – lezione che, in senso tutto dechirichiano, Valerio Rivosecchi preferisce a “vedute” – di Trombadori sono ricondotte all’etichetta di Nuova Oggettività in Italia: di certo, e teniamo per buona la suggestione offerta da Duccio Trombadori (I paesaggi del silenzio, op. cit.), che ragiona sulla produzione coeva dell’artista, anche la tela conservata presso il Rettorato triestino è quel che si può definire una “perla ritardataria”. Tale produzione ha subito il torto di essere messa in parentesi in una Roma che, tra i Quaranta e i Cinquanta, è stata impegnata nelle diatribe tra figurativi ed astrattisti, tra formalisti e contenutisti, tra pittori tenacemente aggrappati ai richiami della provincia ed altri che cominciavano a curiosare in quel che succedeva nelle gallerie d’Oltreoceano. Una pittura, quella di Trombadori, che si è tenuta lontana dagli scontri ideologici, dall’attualità storica; che ha le proprie fondamenta nel ritorno al mestiere degli anni Dieci e Venti, una significativa matrice letteraria, specificamente rondista. Un pittore per pittori, insomma, Trombadori, le cui opere sono ricche di riferimenti stilistici, di cultura visiva fatta d’arte moderna e contemporanea anche francese, tra Corot (è di Alfredo Mezio, nelle pagine del catalogo della personale dell’artista inaugurata alla Galleria del Vantaggio nel 1958, la celeberrima definizione di Trombadori quale “Corot lunaire”) e Cézanne. Visioni urbane costruite con pazienza, molto spesso riportate su tela da fotografie (fotografie su cui ha potuto mettere mano chi ha lavorato sull’archivio dell’artista, il cui studio aveva sede in villa Strohl-Fern), fotografie sulle quali Trombadori ha operato quadrettature, linee, reticoli, ha misurato spazi, distanze per il riporto da foto a quadro. Nell’Arco di Giano conservato presso il Rettorato triestino appare ancora una volta una Roma incantata che, con le parole con le quali ha messo a fuoco l’ultima produzione dell’artista (nel numero 169 di “Paragone”, gennaio 1964), Roberto Longhi avrebbe definito “desertica, d’alto meriggio”. Reminiscenze dechirichiane, metafisiche, innanzi tutto, specie nell’edificio che – come una quinta teatrale – chiude la composizione, a sinistra; edifici dalle facciate cieche, sulla destra, che trasmettono tutto il peso di una incomunicabilità, di un silenzio fatto pietra. Spazi puliti, organizzati con grande compostezza fino a trasmettere un’idea di freddezza; una freddezza che è pulizia formale, che trasporta gli edifici fuori dal tempo e dalla storia. L’Arco di Giano, ma non solo: alle sue spalle, in parte nascosta, è riconoscibile, per esempio, la Chiesa di San Giorgo al Velabro, col suo portico ed il campanile romanico. Per concludere. Chi proverà a fare chiarezza sul rapporto tra Trombadori e Trieste dovrà – ce lo segnalano Fagiolo e Rivosecchi in Trombadori, Roma 1986 – tenere conto anche degli scritti figurativi dell’artista: due di questi, per esempio, sono comparsi nel “Piccolo della Sera” il 21 gennaio ed il 16 aprile del 1927.
136 107 - PublicationLa madreAlberti, TristanoIl disegno è giunto nelle collezioni dell’ateneo dopo l’Esposizione nazionale di pittura italiana contemporanea, allestita nell’Aula Magna dell’ateneo nel 1953. Come altri colleghi scultori Alberti era stato chiamato a partecipare alla rassegna con un’opera grafica. Nell’accettare con entusiasmo l’invito a partecipare alla mostra, lodando soprattutto “il ciclo di «critica estetica della pittura contemporanea» che molto servirà a far conoscere gli intendimenti degli artisti operanti in Italia”, suggerirà quindi il nome di Fortunato Bellonzi, segretario generale di quella Quadriennale romana che nel ‘51 gli aveva assegnato il “Premio della provincia di Roma”, e “mio buon amico, insigne critico d’arte e scrittore il quale se da lei invitato certamente adderirebbe [sic] a parlare in questa Trieste a lui tanto cara” (AUT, Busta 59, fasc. corrispondenza). L’artista triestino invierà questa Madre, ripiegata su se stessa a proteggere la sua creatura, quasi avvertisse i drammatici momenti che stava vivendo la città. Dal punto di vista strettamente grafico Alberti sembra fare tesoro della lezione neocubista di Giuseppe Zigaina, il referente visivo più immediato per questa prova.
109 62 - PublicationLa nave(1952)Cadorin, Guido“Verrò senz’altro a Trieste il 5 dicembre” scriveva lapidario Guido Cadorin al Rettore Rodolfo Ambrosino; in effetti, per il grande pittore veneziano, Trieste rappresentava una seconda patria. Già a partire dal 1930 egli fu in città per realizzare i mosaici dell’abside della cattedrale di San Giusto oltre al fatto che nel 1944 soggiornò, esponendo alla Galleria Trieste e vedendo la figlia Ida innamorarsi di un promettente pittore, Anton Zoran Music. Perciò fu assolutamente naturale partecipare all’esposizione promossa dall’Università nel 1953. Presentò La nave, opera realizzata l’anno prima, che dava l’avvio alle ricerche degli anni Cinquanta imperniate sul tema marittimo con la cifra stilistica che aveva ormai raggiunto esiti di sospensione metafisica. Una trattazione fortemente materica e al contempo delicata, quella del Cadorin primi anni Cinquanta che lo porterà a vette poetiche e malinconiche sul tema, come Solitudine del 1957 (Basilea, collezione privata). L’imponente imbarcazione che sta alle spalle delle piccole barche in primo piano, che sembrano ritmare lo spazio con gli alberi collocati a distanze sorvegliate, sta sospesa in un raggiungimento di tono su tono che il maturo artista era capace di modulare in quel giro d’anni. È un Cadorin quasi didascalico, che insegna attraverso la propria pittura; non è un caso che in questi anni egli si concentri sull’insegnamento all’Accademia di Belle Arti di Venezia.
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