Il “corpo ebreo” nel post Shoah. Memoria, estetiche, sguardo (e nuove stereotipie dell’immagine)

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Il jew’s body è un luogo d’immaginari riproposti e intrecciati in diverse produzioni testuali, scritte e orali: quelle audiovisive e cinematografiche, fotografiche, videoartistiche e digitali inerenti a testimonianze e narrazioni sulla Shoah, il suo popolo, la storia, la cultura e la nazione ebraica. Jew’s body è oggetto dello sguardo orientato alle più infami stereotipizzazioni razziste e alle propagande falsificanti più feroci, al fine ultimo della distruzione d’un popolo intero. Attraverso e con il “corpo ebreo” al cinema si dipanano vicende d’odio, di scontro sociale e culturale, risultato di segregazioni, scomparse e talvolta riaffioramenti, magari nelle emancipazioni in atto: ad esempio, quelle “scandalose” del mondo LGBT, ma più in genere femminili rispetto al mondo maschile tradizionale. Il “corpo ebreo” al cinema è dunque carne, narrazione, simbolo, voce della storia e del popolo; esso è, simmetricamente, significante e/o metafora dei paesi e delle popolazioni “altre”, spesso avverse, ma necessarie a una definizione identitaria altrimenti fragile o assente in un periodo nel quale l’iconosfera e i suoi immaginari vanno sostituendo le figure del Sacro. Il jew’s body, dunque, è anche il rimosso nella costruzione dei muri, a delimitare reclusioni vergognose e perimetri propri, ma asfittici. Per jew’s body, soprattutto in audiovisivo, s’intende l’archivio, la textura e la vulgata, il dato storico squassante, il ricordo impossibile e in absentia: è ebrea la vittima di uno sguardo che ne ha cercato la rimozione bio-politica. Ma il jew’s body è anche il vettore essenziale dell’affermazione di un sentimento di rinascita nazionale e transnazionale, che lo accomuna (o così dovrebbe fare) a quello delle minoranze avversate in ogni tempo e luogo in Terra. Il corpo ebreo di volta in volta incarna la Parola o il Verbo tradito; lo stato militare nell’assedio subìto, la disseminazione, la gettatezza e il genio apolide; la tradizione religiosa millenaria e le mitologie del racconto yiddish. Il corpo ebreo è la questione vivissima dell’inaggirabile, inconcepibile vicenda della Shoah, dopo la quale è doveroso, se non necessario, soprattutto al cinema, misurarsi nel cimento della veridizione, della ricerca inestinguibile della Verità.


Massimiliano Spanu insegna Teorie e Tecniche del Linguaggio cinematografico presso DAMS di Gorizia (Corso di laurea interateneo tra le Università degli Studi di Trieste e Udine). È stato Direttore del Trieste Science+Fiction Festival, Festival di Fantascienza di Trieste, e autore di monografie (Tim Burton, Milano, Il Castoro, 1998; John Woo, Milano, Il Castoro, 2001; Il coraggio della cinefilia. Scrittura e impegno nell’opera di Callisto Cosulich, Trieste, EUT, a cura di E. Grando e M. Spanu) e numerosi saggi in volume (dedicati, tra gli altri, a B. De Palma, S. Tsukamoto, R. Vadim, M. Antonioni, A. Hitchcock, G. Gentilomo, M. Barney). Ha indagato il cinema del terrorismo, i film della Prima guerra mondiale e alcuni aspetti e problemi specifici del cinema digitale. È stato curatore di cataloghi e volumi collettanei (Postmoderno?, a cura di G. Petronio e M. Spanu, Roma, Gamberetti Editore, 1999). Si occupa di meccanismi narrativi, di estetiche liminali, di videoarte, dei “nuovi cinema” della Modernità.

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    Il "corpo ebreo" nel post Shoah. Memoria, estetiche, sguardo (e nuove stereotipie dell’immagine)
    (EUT Edizioni Università di Trieste, 2018)
    Spanu, Massimiliano
    Il jew’s body è un luogo d’immaginari riproposti e intrecciati in diverse produzioni testuali, scritte e orali: quelle audiovisive e cinematografiche, fotografiche, videoartistiche e digitali inerenti a testimonianze e narrazioni sulla Shoah, il suo popolo, la storia, la cultura e la nazione ebraica. Jew’s body è oggetto dello sguardo orientato alle più infami stereotipizzazioni razziste e alle propagande falsificanti più feroci, al fine ultimo della distruzione d’un popolo intero. Attraverso e con il “corpo ebreo” al cinema si dipanano vicende d’odio, di scontro sociale e culturale, risultato di segregazioni, scomparse e talvolta riaffioramenti, magari nelle emancipazioni in atto: ad esempio, quelle “scandalose” del mondo LGBT, ma più in genere femminili rispetto al mondo maschile tradizionale. Il “corpo ebreo” al cinema è dunque carne, narrazione, simbolo, voce della storia e del popolo; esso è, simmetricamente, significante e/o metafora dei paesi e delle popolazioni “altre”, spesso avverse, ma necessarie a una definizione identitaria altrimenti fragile o assente in un periodo nel quale l’iconosfera e i suoi immaginari vanno sostituendo le figure del Sacro. Il jew’s body, dunque, è anche il rimosso nella costruzione dei muri, a delimitare reclusioni vergognose e perimetri propri, ma asfittici. Per jew’s body, soprattutto in audiovisivo, s’intende l’archivio, la textura e la vulgata, il dato storico squassante, il ricordo impossibile e in absentia: è ebrea la vittima di uno sguardo che ne ha cercato la rimozione bio-politica. Ma il jew’s body è anche il vettore essenziale dell’affermazione di un sentimento di rinascita nazionale e transnazionale, che lo accomuna (o così dovrebbe fare) a quello delle minoranze avversate in ogni tempo e luogo in Terra. Il corpo ebreo di volta in volta incarna la Parola o il Verbo tradito; lo stato militare nell’assedio subìto, la disseminazione, la gettatezza e il genio apolide; la tradizione religiosa millenaria e le mitologie del racconto yiddish. Il corpo ebreo è la questione vivissima dell’inaggirabile, inconcepibile vicenda della Shoah, dopo la quale è doveroso, se non necessario, soprattutto al cinema, misurarsi nel cimento della veridizione, della ricerca inestinguibile della Verità.
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