Opere d'arte d'Ateneo

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    Struttura colore n.3
    Schmid, Aldo
    Il dipinto è giunto nelle collezioni del Centro Internazionale di Fisica Teorica intorno alla metà degli anni settanta, quando l’Ateneo aveva provveduto ad acquistare una serie di opere d’arte contemporanea per ‘arredare’ la nuova sede dell’istituto. In questo caso, uno dei pochi, si procederà all’acquisto di un lavoro di un’artista trentino, che peraltro aveva frequentato poco l’ambiente giuliano. Nel ‘72 Schmid si era fatto conoscere esponendo sue opere all’importante rassegna Per Pura Pittura. La nuova astrazione oggi in Italia, allestita al Centro La Cappella di Trieste tra il 5 aprile e il 5 maggio (cfr. http://wwwaldoschmid.it/ ita/mo.strecollettive3.html, consultato il 7 marzo 2014); pochi mesi dopo Schmid porterà invece le sue grandi Struttura colore (tra le quali quella in esame) alla sezione della nuova astrazione della decima quadriennale romana, senza ottenere un grande riscontro di critica. Sulla natura della ricerca cromatica di Schmid nei primi anni settanta così si era espresso Contessi: “Schmid è uno dei pochi pittori italiani che conducono una ricerca sul colore in termini scientifici. Intendiamoci: molti esponenti della Nuova astrazione e della Nuova pittura — basti pensare all’area francese — hanno nel colore l’elemento portante del loro lavoro; solo che nelle loro operazioni non si possono scorgere delle intenzioni sperimentali che tengano conto dei problemi fisico-chimici inerenti alla natura all’uso del colore e ai problemi psicologici o addirittura neurofisiologici della sua percezione. Fino ad un paio d’anni fa Schmid si trovava in bilico fra due esigenze opposte: fare dei quadri ancora legati all’«immagine» in cui saggiare implicitamente le «prestazioni» del colore, le sue possibilità reattive, oppure chiamare il colore (allo stato puro) a rispondere di tutto. Soltanto recentemente l’artista ha risolto la vertenza, meno privata di quanto possa sembrare, e ha deciso che il vero messaggio è proprio il medium, cioè il colore” (G. Contessi, Aldo Schmid, catalogo della mostra di Milano, Galleria Nuova Cadario 16 aprile – 10 maggio 1975, Milano, s.e., 1975).
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    Ragazza
    Somaré, Guido
    Guido Somaré è attivo nell’ambiente milanese a partire dagli anni Cinquanta. Dopo gli esordì negli ambienti “informali” come pittore di materia e colore alla Morlotti, l’artista approda ad un linguaggio figurativo personale dalle suggestioni surrealiste. L’opera dell’Ateneo triestino esemplifica una tematica ricorrente nella produzione grafica dell’artista, in modo particolare, negli anni Sessanta: un’ambigua figura femminile nell’atto di compiere un gesto enigmatico. L’immagine è avvolta in un cono di luce ed è come bloccata, sospesa in un’atmosfera senza tempo. Una grafica ad alti livelli, quella di Somaré, di grande raffinatezza e suggestione emotiva. L’artista nel corso degli anni ha elaborato una poetica originale, squisitamente colta, e dal carattere evocativo, in sintonia con il fratello minore Sandro, insostituibile collega con cui condivide gli interessi e le amicizie. La pittura dei due, soprannominati scherzosamente “Dioscuri” si nutre dell’intenso clima culturale milanese degli anni Cinquanta e Sessanta, la più “europea” delle città italiane, crocevia delle molteplici ricerche artistiche di quegli anni. Vale la pena ricordare la famiglia d’origine di Guido. Il nonno materno era lo scapigliato Cesare Tallone. Il padre dei due fratelli era il critico d’arte, editore e gallerista Enrico Somaré. Anche lo zio Alberto fu un editore mentre il fratello di Guido, Sandro dopo aver tentato in modo rocambolesco la carriera di attore, finì per rientrare nella tradizione familiare e dedicarsi alla pittura. Nel 2006 Milano ha dedicato ai due fratelli un’esposizione antologica (Guido e Sandro Somaré. Distanza e prossimità, catalogo della mostra, a cura di N. Pallini, Milano, Mazzotta, 2006).
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    Laguna di Grado
    (1953)
    Sambo, Edgardo
    Il dipinto si configura come un unicum nella produzione di Sambo. Dal punto di vista stilistico, infatti, l’opera può essere messa a confronto con i primi lavori dell’artista che, dopo aver appreso i rudimenti della pittura presso Giovanni Zangrando, approfondì la propria preparazione attraverso viaggi di studio a Venezia, Vienna e Monaco di Baviera. Nel seguente periodo romano, reso possibile dalla vittoria della borsa di studio Rittmeyer, il postimpressionismo e le eleganze decorative tipicamente secessioniste con cui era finora entrato in contatto lasciarono spazio al libero dispiegarsi di colori avulsi dalla realtà e contrastanti, resi ancor più innaturali da un uso spregiudicato della luce. I risultati di questo sperimentalismo condussero alle positive affermazioni di Sambo nell’ambito della Prima e Terza Esposizione della Secessione romana (1913, 1915) attraverso opere come Macchie di sole (Cataldi 1999, cat. n. 38, p. 52) presentato anche all’Esposizione Internazionale per l’apertura del Canale di Panama del 1914. Sebbene dal punto di vista cromatico il dipinto manifesti un’evidente tangenza con Foro romano, realizzata attorno al 1913 e caratterizzata dall’adozione delle medesime tonalità di violetto (ivi, cat. 42, p. 55) dal punto di vista del soggetto trattato e dell’anno della sua esecuzione l’opera deve essere messa in relazione con le marine realizzate negli anni Quaranta. Benché in tali opere la composizione risulti palesemente più pacata e influenzata dal neocubismo (cui l’artista si avvicina negli ultimi anni della propria attività) in esse si possono ravvisare delle sparute citazioni di cromie che con la loro brillantezza finiscono per movimentare la stasi dominante. Se in Marina (1938; ivi, cat. 122, p. 92) Sambo sembra voler sperimentare l’effetto provocato dai tocchi di pennello “a mosaico” che adopererà in maniera consistente nella Laguna di Grado, più timidi filamenti di colore verde e azzurro percorrono la superficie d’acqua posta in primo piano in Punta S. Salvatore (1940 circa; ivi, cat. n. 128, p. 97). L’artista triestino approfondirà l’atmosfera silente e la calma quasi palpabile che connotano queste opere in quello che è l’ultimo paesaggio del suo catalogo, Paesaggio carnico, realizzato nel 1950 e pervaso da un senso di quiete amplificata dalla solidità dei volumi che lo compongono (ivi, cat. n. 209, p. 136). Presentato alla personale ospitata nella Sala comunale d’arte di Trieste fra il dicembre del 1953 e il gennaio seguente, Laguna di Grado non si può dunque semplicisticamente intendere come un nostalgico revival di tendenze del passato ma piuttosto come un loro originale e attuale ripensamento svolto gradatamente a partire dalla fine degli anni Trenta. Il pointillisme cui si appellano i tocchi blu e gialli disseminati nel paesaggio marino non vanno infatti a costruire delle forme precise ma si giustappongono sovrapponendosi a un fondale precostituito e di per sé piuttosto uniforme allo scopo di irradiarlo di punti luce con esplicita funzione decorativa. Unico oggetto chiaramente definito, la barca alla deriva viene precisata da pennellate rapide e spesse che, in modo quasi infantile, ne descrivono solo gli elementi di spicco maggiore (lo scafo, la vela) lasciando in una confusa indeterminatezza gli altri dettagli. Rispetto alla contemporanea produzione di Sambo il dipinto si configura come una sorta di divagazione da un percorso che, sin dalla fine degli anni Venti, aveva portato l’artista triestino a una personale riflessione sulle problematiche compositive di Novecento e del gruppo di Valori Plastici, condividendone le tensioni verso un’arte orientata alla semplificazione e a una meditata osservazione del reale. Le composizioni dai toni ribassati e modellate secondo una sintesi che avevano avvicinato Sambo a soluzione neocubiste (visibili già in Espropriazione per pubblica sicurezza, del 1934; cfr. ivi, cat. 115, p. 87) vengono dunque momentaneamente abbandonate per un ritorno di fiamma dell’artista verso i fuochi d’artificio cromatici della sua prima produzione.
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    Lo specchio di Faenza
    Saffaro, Lucio
    Come per Licosatetratopo, anche per questa litografia, datata 1966, si può ipotizzare un acquisto da parte del professor Montesi, storico direttore dell’Istituto di Architettura ed Urbanistica dell’ateneo triestino. In questo caso l’artista trasfigura un luogo fisico per trasformarlo in un luogo della mente. Suonano a questo proposito emblematiche le parole di Giuseppe Marchiori: “Saffaro amabilmente conforta con la sua lucida intelligenza alla fuga dal “tempo degli altri”, sostituito da un proprio tempo, composto di lente scoperte, volto alla conquista di nuove leggi prospettiche, che aggiungono a quella visibile l’invisibile trama delle linee fino a ieri segrete. Ci voleva un uomo come Saffaro, dedito a studi severi, per dipanare le linee nuove nel labirinto degli intrecci più noti con una paziente e acuta ricerca. In tal modo le immagini di Saffaro nascono e si costruiscono dall’interno di svolgimenti imprevedibili, secondo un processo logico, che può condurre, sì, alla enunciazione di nuovi teoremi, ma anche alla scoperta di nuove strutture di contenuto intensamente poetico. La tentazione di attribuire certi risultati alla “magia” di uno spirito illuminato è sempre grande in me, che considero la parola ricca di molti significati, una parola a più dimensioni” (G. Marchiori, Saffaro solo, pieghevole della mostra di Trieste, Galleria Comunale d’arte, aprile 1968).
      131  88
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    Licosatetratopo
    Saffaro, Lucio
    Come dimostra il timbro sul verso, la litografia, databile al 1970, è stata probabilmente presentata alla personale dell’artista allestita nel maggio 1971 alla Galleria Torbandena di Trieste, curata da Luigi Lambertini. In quell’occasione è stata probabilmente acquistata per le collezioni dell’allora Istituto di Architettura ed Urbanistica dell’Ateneo triestino Nato a Trieste nel 1929, Lucio Saffaro segue studi di Fisica e di Logica all’Università di Bologna dove, dopo la laurea, diviene titolare di cattedra, pur mantenendo vivi i contatti con la sua città natale. Egli è stato pittore, scrittore, matematico; le sue ricerche sulla determinazione di nuovi poliedri sono state oggetto di numerose conferenze, tenute dall’artista in Italia ed all’estero. Un anno dopo la sua scomparsa (1998) è stata istituita, secondo il volere dell’artista, la Fondazione che porta il suo nome. Convintosi, nel corso degli anni Cinquanta, delle scarse possibilità di ottenere risultati originali seguendo gli orientamenti dominanti in quel periodo, Saffaro rivolge l’attenzione all’interno della propria cultura scientifica, agli studi sull’arte rinascimentale (in particolare sulla prospettiva) in un serrato confronto tra mondo classico e sapere moderno, tra cultura antica e cultura contemporanea. La base dell’esperienza di Lucio Saffaro poggia sulla solidità dei teoremi della matematica: questo afferma una volta in più che, nella storia dell’arte, analisi e poetica non sono realtà contendenti. L’opera grafica è al centro della sua arte: assieme agli studi sulle architetture già esistenti, egli svolge ricerche su nuovi poliedri. Egli, infatti, idea nuovi poliedri di fascino innegabile. Nel 1966 scrive il Tractatus logicus prospecticus, che è una raccolta di 120 disegni: si tratta di un’esplorazione teorica sulle possibilità offerte dalla prospettiva, che diverrà il cardine di tutta la sua opera. Nel Trattato Saffaro ci spiega il rapporto tra un’idea e la sua rappresentazione. Molti di questi disegni sono serviti come punto di partenza per le tante litografie realizzate, e molti sono stati eseguiti espressamente per essere tradotti nella tecnica litografica. La pittura di Saffaro si sviluppa nella proposta visiva di forme geometriche costruite in una perfetta simbiosi di linee e di colori, tanto che il risultato finale è di un forte impatto metafisico. Se ne ricava un vibrante senso spaziale, una dimensione che, pur nella logica della forma, non è aliena da una concezione poetica dell’universo. L’opera di Saffaro presenta caratteri di poeticità e di rigore scientifico, di invenzione fantastica e di riflessione progettuale. La poetica dell’artista oscilla tra metafisica e astrazione. Le non-strutture eludono lo spazio. Non lo rispecchiano come reale, ma come illusoriamente esistente. Si chiedeva a questo proposito Luigi Lambertini: “la prospettiva è solo l’arte di rappresentare gli oggetti in modo tale che diano l’impressione di quella che si suppone sia la realtà che abbiamo attraverso una visione diretta, con il suggerimento traslato della profondità, o non è forse anche una trattazione che, per comparazioni logiche, da un canto astrae e dall’altro, quanto più raggiunge i termini dell’astrazione, diviene realtà concreta, introducendoci in una sorta di metafenomenologia?”.
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