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Periferia a Ponte Milvio
Omiccioli, Giovanni
Abstract
Nella presentazione dei pittori che esponevano nell’ala destra della mostra universitaria del 1953, Decio Gioseffi si sofferma sulla “pirotecnica e incandescente cromia” della Periferia di Ponte Milvio di Omiccioli ricordando tuttavia come, anche a Trieste, l’artista avesse presentato “opere più riuscite”. Gioseffi allude, in particolare, ad alcuni “orti con steccati” (“Il Giornale di Trieste”, 22 dicembre 1953), riconducibili alla celebre serie inaugurata dall’artista agli inizi degli anni Quaranta. Ha forse significato, in questo senso, indugiare sulla fortuna di cui Omiccioli ha goduto negli anni dell’immediato dopoguerra nel capoluogo giuliano. Una menzione merita, senza dubbio, la mostra degli artisti romani realizzata presso la Galleria del Circolo della Cultura e delle Arti, in via San Carlo 2, mostra in cui Omiccioli ha presentato una Periferia in Piemonte, esposizione che lo stesso Gioseffi ha recensito ne “Il Giornale di Trieste” (11 aprile 1952); va inoltre registrato, a testimonianza di un gusto che in quegli anni, a Trieste, doveva essere diffuso, l’ingresso nella collezione della Cassa di Risparmio di Trieste di un’altra opera di Omiccioli, e proprio della serie degli Orti cui corre il riferimento dello stesso Gioseffi. Particolare il percorso artistico di Omiccioli, che ha cominciato a dipingere solo alla metà degli anni Trenta su sollecitazione degli artisti che, in via Margutta, avevano contatti assidui col padre di Giovanni, Abilio, che lì aveva la propria bottega di imballatore. Ad Omiccioli, artista che a lungo ha goduto di scarso spazio nelle principali mostre italiane, sono stati dedicati approfonditi studi monografici (si veda almeno il corposo testo curato da Nicola Ciarletta, Bologna 1975) e grandi antologiche solo tra anni Settanta ed Ottanta. Artista formatosi nel clima della Scuola romana, con una costanza da artigiano Omiccioli ha sempre rifiutato di adattarsi ai canoni formali più in voga; il lirismo, la poesia del colore delle sue opere non sono mai stati soffocati dall’ansia di aggiornamento stilistico. Un artista, insomma, per cui vale poco indicare i riferimenti visivi (si è parlato di Vlaminck, Utrillo o Dufy, per esempio); un artista che, come ha scritto Leonardo Sinisgalli, “è rimasto ingenuo, non ha industrializzato il suo procedimento”. “Incandescente cromia”, ha scritto Gioseffi; “fauvismo agreste”, ha suggerito Marcello Venturoli. “Fuochi di gioia”, ha aggiunto Fortunato Bellonzi nel catalogo monografico di Omiccioli a cura di Glauco Pellegrini (Roma 1977; nel catalogo, nonostante non si faccia riferimento esplicito alla Periferia a Ponte Milvio, i curatori, fermandosi sui privati e gli enti pubblici presso cui sono conservate opere dell’artista, chiamano in causa l’Università di Trieste); “fuochi” che danno materia e colore alla “amara felicità dei poveri”, che riscattano quanto “nella esistenza è di disordine”, di miseria, portandolo al rango di “allegra fantasmagoria”. Nulla rimane, nell’opera dell’artista, della retorica degli artisti del realismo socialista. La denuncia della condizione dei diseredati e dei miserabili è in Omiccioli un’operazione di comunione umana, una “elezione affettiva”, scrive ancora Bellonzi; tale opzione è tenuta viva dall’artista soprattutto nel secondo dopoguerra quando, per dirla con le parole di Giorgio Bassani (suo un saggio datato 1952) l’artista si era risolto “di aprir l’orto concluso” nel quale, alla ricerca di un’autonomia morale, si era rifugiato nei primi anni Quaranta, ed aveva principiato ad “ascoltare il mondo”, a vagare fuori Roma, extra moenia. Entrano allora, nelle sue tele, le prime baracche, i sobborghi urbani e, più in là, documenti catturati in un lungo viaggio in Italia che ha compreso il vercellese, le periferie di Milano, la Calabria con i suoi contadini, Scilla con i suoi pescatori e, infine, Ustica e Marzocca, terra d’origine del padre dell’artista. La Roma della Periferia di Ponte Milvio conservata presso il Rettorato (Rettorato cui, come attesta un buono di carico dell’inizio degli anni Settanta, l’opera è giunta dalla precedente sistemazione presso il Centro di Fisica Teorica di Miramare) entra appieno in questa tradizione. Se non fosse per la cupola che, significativamente, fa capolino alle spalle dell’osteria di cui, al centro, si legge l’insegna, scompare dalla tela la Roma classica, la Roma così carica di storia dell’architettura, la Roma prepotentemente protagonista della pittura di Francesco Trombadori. Tale elusione aveva, per Omiccioli, anche il significato di un rifiuto permanente della grandiosità dell’impianto urbanistico fascista che, a Roma, attraverso piani regolatori scellerati – purtroppo, anche se in parte, ripresi nella prima età repubblicana, come ha denunciato soprattutto Antonio Cederna sulle colonne de “Il Mondo” –, era costato lo sfollamento, la cacciata in periferia di molti residenti, la moltiplicazione di piccole tragedie umane. Un ultima suggestione: la Roma dei sobborghi, delle taverne riempite – fino a notte fonda – da pittori, scrittori e registi, è quella evocata nel celebre volume Osteria dei pittori di Ugo Pirro (Sellerio editore). Omiccioli, che fu anche scrittore, in alcune pagine della sua prosa inedita Memorie di un imballatore (uno stralcio è riportato a pagina 18 del volume – citato più sopra – curato da Pellegrini) rievoca con gusto proprio le atmosfere della trattoria “dai Fratelli Menghi”.Nella presentazione dei pittori che esponevano nell’ala destra della mostra universitaria del 1953, Decio Gioseffi si sofferma sulla “pirotecnica e incandescente cromia” della Periferia di Ponte Milvio di Omiccioli ricordando tuttavia come, anche a Trieste, l’artista avesse presentato “opere più riuscite”. Gioseffi allude, in particolare, ad alcuni “orti con steccati” (“Il Giornale di Trieste”, 22 dicembre 1953), riconducibili alla celebre serie inaugurata dall’artista agli inizi degli anni Quaranta. Ha forse significato, in questo senso, indugiare sulla fortuna di cui Omiccioli ha goduto negli anni dell’immediato dopoguerra nel capoluogo giuliano. Una menzione merita, senza dubbio, la mostra degli artisti romani realizzata presso la Galleria del Circolo della Cultura e delle Arti, in via San Carlo 2, mostra in cui Omiccioli ha presentato una Periferia in Piemonte, esposizione che lo stesso Gioseffi ha recensito ne “Il Giornale di Trieste” (11 aprile 1952); va inoltre registrato, a testimonianza di un gusto che in quegli anni, a Trieste, doveva essere diffuso, l’ingresso nella collezione della Cassa di Risparmio di Trieste di un’altra opera di Omiccioli, e proprio della serie degli Orti cui corre il riferimento dello stesso Gioseffi. Particolare il percorso artistico di Omiccioli, che ha cominciato a dipingere solo alla metà degli anni Trenta su sollecitazione degli artisti che, in via Margutta, avevano contatti assidui col padre di Giovanni, Abilio, che lì aveva la propria bottega di imballatore. Ad Omiccioli, artista che a lungo ha goduto di scarso spazio nelle principali mostre italiane, sono stati dedicati approfonditi studi monografici (si veda almeno il corposo testo curato da Nicola Ciarletta, Bologna 1975) e grandi antologiche solo tra anni Settanta ed Ottanta. Artista formatosi nel clima della Scuola romana, con una costanza da artigiano Omiccioli ha sempre rifiutato di adattarsi ai canoni formali più in voga; il lirismo, la poesia del colore delle sue opere non sono mai stati soffocati dall’ansia di aggiornamento stilistico. Un artista, insomma, per cui vale poco indicare i riferimenti visivi (si è parlato di Vlaminck, Utrillo o Dufy, per esempio); un artista che, come ha scritto Leonardo Sinisgalli, “è rimasto ingenuo, non ha industrializzato il suo procedimento”. “Incandescente cromia”, ha scritto Gioseffi; “fauvismo agreste”, ha suggerito Marcello Venturoli. “Fuochi di gioia”, ha aggiunto Fortunato Bellonzi nel catalogo monografico di Omiccioli a cura di Glauco Pellegrini (Roma 1977; nel catalogo, nonostante non si faccia riferimento esplicito alla Periferia a Ponte Milvio, i curatori, fermandosi sui privati e gli enti pubblici presso cui sono conservate opere dell’artista, chiamano in causa l’Università di Trieste); “fuochi” che danno materia e colore alla “amara felicità dei poveri”, che riscattano quanto “nella esistenza è di disordine”, di miseria, portandolo al rango di “allegra fantasmagoria”. Nulla rimane, nell’opera dell’artista, della retorica degli artisti del realismo socialista. La denuncia della condizione dei diseredati e dei miserabili è in Omiccioli un’operazione di comunione umana, una “elezione affettiva”, scrive ancora Bellonzi; tale opzione è tenuta viva dall’artista soprattutto nel secondo dopoguerra quando, per dirla con le parole di Giorgio Bassani (suo un saggio datato 1952) l’artista si era risolto “di aprir l’orto concluso” nel quale, alla ricerca di un’autonomia morale, si era rifugiato nei primi anni Quaranta, ed aveva principiato ad “ascoltare il mondo”, a vagare fuori Roma, extra moenia. Entrano allora, nelle sue tele, le prime baracche, i sobborghi urbani e, più in là, documenti catturati in un lungo viaggio in Italia che ha compreso il vercellese, le periferie di Milano, la Calabria con i suoi contadini, Scilla con i suoi pescatori e, infine, Ustica e Marzocca, terra d’origine del padre dell’artista. La Roma della Periferia di Ponte Milvio conservata presso il Rettorato (Rettorato cui, come attesta un buono di carico dell’inizio degli anni Settanta, l’opera è giunta dalla precedente sistemazione presso il Centro di Fisica Teorica di Miramare) entra appieno in questa tradizione. Se non fosse per la cupola che, significativamente, fa capolino alle spalle dell’osteria di cui, al centro, si legge l’insegna, scompare dalla tela la Roma classica, la Roma così carica di storia dell’architettura, la Roma prepotentemente protagonista della pittura di Francesco Trombadori. Tale elusione aveva, per Omiccioli, anche il significato di un rifiuto permanente della grandiosità dell’impianto urbanistico fascista che, a Roma, attraverso piani regolatori scellerati – purtroppo, anche se in parte, ripresi nella prima età repubblicana, come ha denunciato soprattutto Antonio Cederna sulle colonne de “Il Mondo” –, era costato lo sfollamento, la cacciata in periferia di molti residenti, la moltiplicazione di piccole tragedie umane. Un ultima suggestione: la Roma dei sobborghi, delle taverne riempite – fino a notte fonda – da pittori, scrittori e registi, è quella evocata nel celebre volume Osteria dei pittori di Ugo Pirro (Sellerio editore). Omiccioli, che fu anche scrittore, in alcune pagine della sua prosa inedita Memorie di un imballatore (uno stralcio è riportato a pagina 18 del volume – citato più sopra – curato da Pellegrini) rievoca con gusto proprio le atmosfere della trattoria “dai Fratelli Menghi”.Nella presentazione dei pittori che esponevano nell’ala destra della mostra universitaria del 1953, Decio Gioseffi si sofferma sulla “pirotecnica e incandescente cromia” della Periferia di Ponte Milvio di Omiccioli ricordando tuttavia come, anche a Trieste, l’artista avesse presentato “opere più riuscite”. Gioseffi allude, in particolare, ad alcuni “orti con steccati” (“Il Giornale di Trieste”, 22 dicembre 1953), riconducibili alla celebre serie inaugurata dall’artista agli inizi degli anni Quaranta. Ha forse significato, in questo senso, indugiare sulla fortuna di cui Omiccioli ha goduto negli anni dell’immediato dopoguerra nel capoluogo giuliano. Una menzione merita, senza dubbio, la mostra degli artisti romani realizzata presso la Galleria del Circolo della Cultura e delle Arti, in via San Carlo 2, mostra in cui Omiccioli ha presentato una Periferia in Piemonte, esposizione che lo stesso Gioseffi ha recensito ne “Il Giornale di Trieste” (11 aprile 1952); va inoltre registrato, a testimonianza di un gusto che in quegli anni, a Trieste, doveva essere diffuso, l’ingresso nella collezione della Cassa di Risparmio di Trieste di un’altra opera di Omiccioli, e proprio della serie degli Orti cui corre il riferimento dello stesso Gioseffi. Particolare il percorso artistico di Omiccioli, che ha cominciato a dipingere solo alla metà degli anni Trenta su sollecitazione degli artisti che, in via Margutta, avevano contatti assidui col padre di Giovanni, Abilio, che lì aveva la propria bottega di imballatore. Ad Omiccioli, artista che a lungo ha goduto di scarso spazio nelle principali mostre italiane, sono stati dedicati approfonditi studi monografici (si veda almeno il corposo testo curato da Nicola Ciarletta, Bologna 1975) e grandi antologiche solo tra anni Settanta ed Ottanta. Artista formatosi nel clima della Scuola romana, con una costanza da artigiano Omiccioli ha sempre rifiutato di adattarsi ai canoni formali più in voga; il lirismo, la poesia del colore delle sue opere non sono mai stati soffocati dall’ansia di aggiornamento stilistico. Un artista, insomma, per cui vale poco indicare i riferimenti visivi (si è parlato di Vlaminck, Utrillo o Dufy, per esempio); un artista che, come ha scritto Leonardo Sinisgalli, “è rimasto ingenuo, non ha industrializzato il suo procedimento”. “Incandescente cromia”, ha scritto Gioseffi; “fauvismo agreste”, ha suggerito Marcello Venturoli. “Fuochi di gioia”, ha aggiunto Fortunato Bellonzi nel catalogo monografico di Omiccioli a cura di Glauco Pellegrini (Roma 1977; nel catalogo, nonostante non si faccia riferimento esplicito alla Periferia a Ponte Milvio, i curatori, fermandosi sui privati e gli enti pubblici presso cui sono conservate opere dell’artista, chiamano in causa l’Università di Trieste); “fuochi” che danno materia e colore alla “amara felicità dei poveri”, che riscattano quanto “nella esistenza è di disordine”, di miseria, portandolo al rango di “allegra fantasmagoria”. Nulla rimane, nell’opera dell’artista, della retorica degli artisti del realismo socialista. La denuncia della condizione dei diseredati e dei miserabili è in Omiccioli un’operazione di comunione umana, una “elezione affettiva”, scrive ancora Bellonzi; tale opzione è tenuta viva dall’artista soprattutto nel secondo dopoguerra quando, per dirla con le parole di Giorgio Bassani (suo un saggio datato 1952) l’artista si era risolto “di aprir l’orto concluso” nel quale, alla ricerca di un’autonomia morale, si era rifugiato nei primi anni Quaranta, ed aveva principiato ad “ascoltare il mondo”, a vagare fuori Roma, extra moenia. Entrano allora, nelle sue tele, le prime baracche, i sobborghi urbani e, più in là, documenti catturati in un lungo viaggio in Italia che ha compreso il vercellese, le periferie di Milano, la Calabria con i suoi contadini, Scilla con i suoi pescatori e, infine, Ustica e Marzocca, terra d’origine del padre dell’artista. La Roma della Periferia di Ponte Milvio conservata presso il Rettorato (Rettorato cui, come attesta un buono di carico dell’inizio degli anni Settanta, l’opera è giunta dalla precedente sistemazione presso il Centro di Fisica Teorica di Miramare) entra appieno in questa tradizione. Se non fosse per la cupola che, significativamente, fa capolino alle spalle dell’osteria di cui, al centro, si legge l’insegna, scompare dalla tela la Roma classica, la Roma così carica di storia dell’architettura, la Roma prepotentemente protagonista della pittura di Francesco Trombadori. Tale elusione aveva, per Omiccioli, anche il significato di un rifiuto permanente della grandiosità dell’impianto urbanistico fascista che, a Roma, attraverso piani regolatori scellerati – purtroppo, anche se in parte, ripresi nella prima età repubblicana, come ha denunciato soprattutto Antonio Cederna sulle colonne de “Il Mondo” –, era costato lo sfollamento, la cacciata in periferia di molti residenti, la moltiplicazione di piccole tragedie umane. Un ultima suggestione: la Roma dei sobborghi, delle taverne riempite – fino a notte fonda – da pittori, scrittori e registi, è quella evocata nel celebre volume Osteria dei pittori di Ugo Pirro (Sellerio editore). Omiccioli, che fu anche scrittore, in alcune pagine della sua prosa inedita Memorie di un imballatore (uno stralcio è riportato a pagina 18 del volume – citato più sopra – curato da Pellegrini) rievoca con gusto proprio le atmosfere della trattoria “dai Fratelli Menghi”.Nella presentazione dei pittori che esponevano nell’ala destra della mostra u
iversitaria del 1953, Decio Gioseffi si sofferma sulla “pirotecnica e incandescente cromia” della Periferia di Ponte Milvio di Omiccioli ricordando tuttavia come, anche a Trieste, l’artista avesse presentato “opere più riuscite”. Gioseffi allude, in particolare, ad alcuni “orti con steccati” (“Il Giornale di Trieste”, 22 dicembre 1953), riconducibili alla celebre serie inaugurata dall’artista agli inizi degli anni Quaranta. Ha forse significato, in questo senso, indugiare sulla fortuna di cui Omiccioli ha goduto negli anni dell’immediato dopoguerra nel capoluogo giuliano. Una menzione merita, senza dubbio, la mostra degli artisti romani realizzata presso la Galleria del Circolo della Cultura e delle Arti, in via San Carlo 2, mostra in cui Omiccioli ha presentato una Periferia in Piemonte, esposizione che lo stesso Gioseffi ha recensito ne “Il Giornale di Trieste” (11 aprile 1952); va inoltre registrato, a testimonianza di un gusto che in quegli anni, a Trieste, doveva essere diffuso, l’ingresso nella collezione della Cassa di Risparmio di Trieste di un’altra opera di Omiccioli, e proprio della serie degli Orti cui corre il riferimento dello stesso Gioseffi. Particolare il percorso artistico di Omiccioli, che ha cominciato a dipingere solo alla metà degli anni Trenta su sollecitazione degli artisti che, in via Margutta, avevano contatti assidui col padre di Giovanni, Abilio, che lì aveva la propria bottega di imballatore. Ad Omiccioli, artista che a lungo ha goduto di scarso spazio nelle principali mostre italiane, sono stati dedicati approfonditi studi monografici (si veda almeno il corposo testo curato da Nicola Ciarletta, Bologna 1975) e grandi antologiche solo tra anni Settanta ed Ottanta. Artista formatosi nel clima della Scuola romana, con una costanza da artigiano Omiccioli ha sempre rifiutato di adattarsi ai canoni formali più in voga; il lirismo, la poesia del colore delle sue opere non sono mai stati soffocati dall’ansia di aggiornamento stilistico. Un artista, insomma, per cui vale poco indicare i riferimenti visivi (si è parlato di Vlaminck, Utrillo o Dufy, per esempio); un artista che, come ha scritto Leonardo Sinisgalli, “è rimasto ingenuo, non ha industrializzato il suo procedimento”. “Incandescente cromia”, ha scritto Gioseffi; “fauvismo agreste”, ha suggerito Marcello Venturoli. “Fuochi di gioia”, ha aggiunto Fortunato Bellonzi nel catalogo monografico di Omiccioli a cura di Glauco Pellegrini (Roma 1977; nel catalogo, nonostante non si faccia riferimento esplicito alla Periferia a Ponte Milvio, i curatori, fermandosi sui privati e gli enti pubblici presso cui sono conservate opere dell’artista, chiamano in causa l’Università di Trieste); “fuochi” che danno materia e colore alla “amara felicità dei poveri”, che riscattano quanto “nella esistenza è di disordine”, di miseria, portandolo al rango di “allegra fantasmagoria”. Nulla rimane, nell’opera dell’artista, della retorica degli artisti del realismo socialista. La denuncia della condizione dei diseredati e dei miserabili è in Omiccioli un’operazione di comunione umana, una “elezione affettiva”, scrive ancora Bellonzi; tale opzione è tenuta viva dall’artista soprattutto nel secondo dopoguerra quando, per dirla con le parole di Giorgio Bassani (suo un saggio datato 1952) l’artista si era risolto “di aprir l’orto concluso” nel quale, alla ricerca di un’autonomia morale, si era rifugiato nei primi anni Quaranta, ed aveva principiato ad “ascoltare il mondo”, a vagare fuori Roma, extra moenia. Entrano allora, nelle sue tele, le prime baracche, i sobborghi urbani e, più in là, documenti catturati in un lungo viaggio in Italia che ha compreso il vercellese, le periferie di Milano, la Calabria con i suoi contadini, Scilla con i suoi pescatori e, infine, Ustica e Marzocca, terra d’origine del padre dell’artista. La Roma della Periferia di Ponte Milvio conservata presso il Rettorato (Rettorato cui, come attesta un buono di carico dell’inizio degli anni Settanta, l’opera è giunta dalla precedente sistemazione presso il Centro di Fisica Teorica di Miramare) entra appieno in questa tradizione. Se non fosse per la cupola che, significativamente, fa capolino alle spalle dell’osteria di cui, al centro, si legge l’insegna, scompare dalla tela la Roma classica, la Roma così carica di storia dell’architettura, la Roma prepotentemente protagonista della pittura di Francesco Trombadori. Tale elusione aveva, per Omiccioli, anche il significato di un rifiuto permanente della grandiosità dell’impianto urbanistico fascista che, a Roma, attraverso piani regolatori scellerati – purtroppo, anche se in parte, ripresi nella prima età repubblicana, come ha denunciato soprattutto Antonio Cederna sulle colonne de “Il Mondo” –, era costato lo sfollamento, la cacciata in periferia di molti residenti, la moltiplicazione di piccole tragedie umane. Un ultima suggestione: la Roma dei sobborghi, delle taverne riempite – fino a notte fonda – da pittori, scrittori e registi, è quella evocata nel celebre volume Osteria dei pittori di Ugo Pirro (Sellerio editore). Omiccioli, che fu anche scrittore, in alcune pagine della sua prosa inedita Memorie di un imballatore (uno stralcio è riportato a pagina 18 del volume – citato più sopra – curato da Pellegrini) rievoca con gusto proprio le atmosfere della trattoria “dai Fratelli Menghi”.Nella presentazione dei pittori che esponevano nell’ala destra della mostra universitaria del 1953, Decio Gioseffi si sofferma sulla “pirotecnica e incandescente cromia” della Periferia di Ponte Milvio di Omiccioli ricordando tuttavia come, anche a Trieste, l’artista avesse presentato “opere più riuscite”. Gioseffi allude, in particolare, ad alcuni “orti con steccati” (“Il Giornale di Trieste”, 22 dicembre 1953), riconducibili alla celebre serie inaugurata dall’artista agli inizi degli anni Quaranta. Ha forse significato, in questo senso, indugiare sulla fortuna di cui Omiccioli ha goduto negli anni dell’immediato dopoguerra nel capoluogo giuliano. Una menzione merita, senza dubbio, la mostra degli artisti romani realizzata presso la Galleria del Circolo della Cultura e delle Arti, in via San Carlo 2, mostra in cui Omiccioli ha presentato una Periferia in Piemonte, esposizione che lo stesso Gioseffi ha recensito ne “Il Giornale di Trieste” (11 aprile 1952); va inoltre registrato, a testimonianza di un gusto che in quegli anni, a Trieste, doveva essere diffuso, l’ingresso nella collezione della Cassa di Risparmio di Trieste di un’altra opera di Omiccioli, e proprio della serie degli Orti cui corre il riferimento dello stesso Gioseffi. Particolare il percorso artistico di Omiccioli, che ha cominciato a dipingere solo alla metà degli anni Trenta su sollecitazione degli artisti che, in via Margutta, avevano contatti assidui col padre di Giovanni, Abilio, che lì aveva la propria bottega di imballatore. Ad Omiccioli, artista che a lungo ha goduto di scarso spazio nelle principali mostre italiane, sono stati dedicati approfonditi studi monografici (si veda almeno il corposo testo curato da Nicola Ciarletta, Bologna 1975) e grandi antologiche solo tra anni Settanta ed Ottanta. Artista formatosi nel clima della Scuola romana, con una costanza da artigiano Omiccioli ha sempre rifiutato di adattarsi ai canoni formali più in voga; il lirismo, la poesia del colore delle sue opere non sono mai stati soffocati dall’ansia di aggiornamento stilistico. Un artista, insomma, per cui vale poco indicare i riferimenti visivi (si è parlato di Vlaminck, Utrillo o Dufy, per esempio); un artista che, come ha scritto Leonardo Sinisgalli, “è rimasto ingenuo, non ha industrializzato il suo procedimento”. “Incandescente cromia”, ha scritto Gioseffi; “fauvismo agreste”, ha suggerito Marcello Venturoli. “Fuochi di gioia”, ha aggiunto Fortunato Bellonzi nel catalogo monografico di Omiccioli a cura di Glauco Pellegrini (Roma 1977; nel catalogo, nonostante non si faccia riferimento esplicito alla Periferia a Ponte Milvio, i curatori, fermandosi sui privati e gli enti pubblici presso cui sono conservate opere dell’artista, chiamano in causa l’Università di Trieste); “fuochi” che danno materia e colore alla “amara felicità dei poveri”, che riscattano quanto “nella esistenza è di disordine”, di miseria, portandolo al rango di “allegra fantasmagoria”. Nulla rimane, nell’opera dell’artista, della retorica degli artisti del realismo socialista. La denuncia della condizione dei diseredati e dei miserabili è in Omiccioli un’operazione di comunione umana, una “elezione affettiva”, scrive ancora Bellonzi; tale opzione è tenuta viva dall’artista soprattutto nel secondo dopoguerra quando, per dirla con le parole di Giorgio Bassani (suo un saggio datato 1952) l’artista si era risolto “di aprir l’orto concluso” nel quale, alla ricerca di un’autonomia morale, si era rifugiato nei primi anni Quaranta, ed aveva principiato ad “ascoltare il mondo”, a vagare fuori Roma, extra moenia. Entrano allora, nelle sue tele, le prime baracche, i sobborghi urbani e, più in là, documenti catturati in un lungo viaggio in Italia che ha compreso il vercellese, le periferie di Milano, la Calabria con i suoi contadini, Scilla con i suoi pescatori e, infine, Ustica e Marzocca, terra d’origine del padre dell’artista. La Roma della Periferia di Ponte Milvio conservata presso il Rettorato (Rettorato cui, come attesta un buono di carico dell’inizio degli anni Settanta, l’opera è giunta dalla precedente sistemazione presso il Centro di Fisica Teorica di Miramare) entra appieno in questa tradizione. Se non fosse per la cupola che, significativamente, fa capolino alle spalle dell’osteria di cui, al centro, si legge l’insegna, scompare dalla tela la Roma classica, la Roma così carica di storia dell’architettura, la Roma prepotentemente protagonista della pittura di Francesco Trombadori. Tale elusione aveva, per Omiccioli, anche il significato di un rifiuto permanente della grandiosità dell’impianto urbanistico fascista che, a Roma, attraverso piani regolatori scellerati – purtroppo, anche se in parte, ripresi nella prima età repubblicana, come ha denunciato soprattutto Antonio Cederna sulle colonne de “Il Mondo” –, era costato lo sfollamento, la cacciata in periferia di molti residenti, la moltiplicazione di piccole tragedie umane. Un ultima suggestione: la Roma dei sobborghi, delle taverne riempite – fino a notte fonda – da pittori, scrittori e registi, è quella evocata nel celebre volume Osteria dei pittori di Ugo Pirro (Sellerio editore). Omiccioli, che fu anche scrittore, in alcune pagine della sua prosa inedita Memorie di un imballatore (uno stralcio è riportato a pagina 18 del volume – citato più sopra – curato da Pellegrini) rievoca con gusto proprio le atmosfere della trattoria “dai Fratelli Menghi”.Nella presentazione dei pittori che esponevano nell’ala destra della mostra universitaria del 1953, Decio Gioseffi si sofferma sulla “pirotecnica e incandescente cromia” della Periferia di Ponte Milvio di Omiccioli ricordando tuttavia come, anche a Trieste, l’artista avesse presentato “opere più riuscite”. Gioseffi allude, in particolare, ad alcuni “orti con steccati” (“Il Giornale di Trieste”, 22 dicembre 1953), riconducibili alla celebre serie inaugurata dall’artista agli inizi degli anni Quaranta. Ha forse significato, in questo senso, indugiare sulla fortuna di cui Omiccioli ha goduto negli anni dell’immediato dopoguerra nel capoluogo giuliano. Una menzione merita, senza dubbio, la mostra degli artisti romani realizzata presso la Galleria del Circolo della Cultura e delle Arti, in via San Carlo 2, mostra in cui Omiccioli ha presentato una Periferia in Piemonte, esposizione che lo stesso Gioseffi ha recensito ne “Il Giornale di Trieste” (11 aprile 1952); va inoltre registrato, a testimonianza di un gusto che in quegli anni, a Trieste, doveva essere diffuso, l’ingresso nella collezione della Cassa di Risparmio di Trieste di un’altra opera di Omiccioli, e proprio della serie degli Orti cui corre il riferimento dello stesso Gioseffi. Particolare il percorso artistico di Omiccioli, che ha cominciato a dipingere solo alla metà degli anni Trenta su sollecitazione degli artisti che, in via Margutta, avevano contatti assidui col padre di Giovanni, Abilio, che lì aveva la propria bottega di imballatore. Ad Omiccioli, artista che a lungo ha goduto di scarso spazio nelle principali mostre italiane, sono stati dedicati approfonditi studi monografici (si veda almeno il corposo testo curato da Nicola Ciarletta, Bologna 1975) e grandi antologiche solo tra anni Settanta ed Ottanta. Artista formatosi nel clima della Scuola romana, con una costanza da artigiano Omiccioli ha sempre rifiutato di adattarsi ai canoni formali più in voga; il lirismo, la poesia del colore delle sue opere non sono mai stati soffocati dall’ansia di aggiornamento stilistico. Un artista, insomma, per cui vale poco indicare i riferimenti visivi (si è parlato di Vlaminck, Utrillo o Dufy, per esempio); un artista che, come ha scritto Leonardo Sinisgalli, “è rimasto ingenuo, non ha industrializzato il suo procedimento”. “Incandescente cromia”, ha scritto Gioseffi; “fauvismo agreste”, ha suggerito Marcello Venturoli. “Fuochi di gioia”, ha aggiunto Fortunato Bellonzi nel catalogo monografico di Omiccioli a cura di Glauco Pellegrini (Roma 1977; nel catalogo, nonostante non si faccia riferimento esplicito alla Periferia a Ponte Milvio, i curatori, fermandosi sui privati e gli enti pubblici presso cui sono conservate opere dell’artista, chiamano in causa l’Università di Trieste); “fuochi” che danno materia e colore alla “amara felicità dei poveri”, che riscattano quanto “nella esistenza è di disordine”, di miseria, portandolo al rango di “allegra fantasmagoria”. Nulla rimane, nell’opera dell’artista, della retorica degli artisti del realismo socialista. La denuncia della condizione dei diseredati e dei miserabili è in Omiccioli un’operazione di comunione umana, una “elezione affettiva”, scrive ancora Bellonzi; tale opzione è tenuta viva dall’artista soprattutto nel secondo dopoguerra quando, per dirla con le parole di Giorgio Bassani (suo un saggio datato 1952) l’artista si era risolto “di aprir l’orto concluso” nel quale, alla ricerca di un’autonomia morale, si era rifugiato nei primi anni Quaranta, ed aveva principiato ad “ascoltare il mondo”, a vagare fuori Roma, extra moenia. Entrano allora, nelle sue tele, le prime baracche, i sobborghi urbani e, più in là, documenti catturati in un lungo viaggio in Italia che ha compreso il vercellese, le periferie di Milano, la Calabria con i suoi contadini, Scilla con i suoi pescatori e, infine, Ustica e Marzocca, terra d’origine del padre dell’artista. La Roma della Periferia di Ponte Milvio conservata presso il Rettorato (Rettorato cui, come attesta un buono di carico dell’inizio degli anni Settanta, l’opera è giunta dalla precedente sistemazione presso il Centro di Fisica Teorica di Miramare) entra appieno in questa tradizione. Se non fosse per la cupola che, significativamente, fa capolino alle spalle dell’osteria di cui, al centro, si legge l’insegna, scompare dalla tela la Roma classica, la Roma così carica di storia dell’architettura, la Roma prepotentemente protagonista della pittura di Francesco Trombadori. Tale elusione aveva, per Omiccioli, anche il significato di un rifiuto permanente della grandiosità dell’impianto urbanistico fascista che, a Roma, attraverso piani regolatori scellerati – purtroppo, anche se in parte, ripresi nella prima età repubblicana, come ha denunciato soprattutto Antonio Cederna sulle colonne de “Il Mondo” –, era costato lo sfollamento, la cacciata in periferia di molti residenti, la moltiplicazione di piccole tragedie umane. Un ultima suggestione: la Roma dei sobborghi, delle taverne riempite – fino a notte fonda – da pittori, scrittori e registi, è quella evocata nel celebre volume Osteria dei pittori di Ugo Pirro (Sellerio editore). Omiccioli, che fu anche scrittore, in alcune pagine della sua prosa inedita Memorie di un imballatore (uno stralcio è riportato a pagina 18 del volume – citato più sopra – curato da Pellegrini) rievoca con gusto proprio le atmosfere della trattoria “dai Fratelli Menghi”.