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Impresa mafiosa ed economia legale: dal concorrente esterno al riciclaggio
Buciol, Ruggero
2015-04-17
Abstract
La presente trattazione intende affrontare l’attuale e drammatico fenomeno dell’infiltrazione mafiosa nell’economica legale. La prospettiva scelta ha preso in considerazione, in particolare, due istituti che sono stati ritenuti significativi in questo contesto: il concorso esterno in associazione mafiosa ed il riciclaggio.
In particolare, l’analisi comincia da una doverosa esposizione della fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p. Il reato in questione, infatti, risulta essere stato elaborato dal legislatore in un’ottica tesa a valorizzare una precisa dimensione dell’associazione di stampo mafioso: la dimensione economica.
Da questo punto di vista l’attenzione deve essere posta sul terzo comma dell’art. 416 bis c.p. Quest’ultimo, nell’individuare le diverse finalità che costituiscono l’obiettivo del programma criminoso dell’associazione mafiosa, descrive quella di «acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti»: trattasi della c.d. finalità di monopolio.
In relazione a questo obiettivo, la mafia, avvalendosi del c.d. metodo mafioso caratterizzato, essenzialmente, da violenze ed intimidazioni, intende conquistare il dominio delle attività economiche ed attraverso ciò spazi sempre maggiori di potere reale. Il risultato finale di queste condotte è la lesione dell’ordine pubblico in particolare quello economico.
Lo strumento che è stato elaborato dalle associazioni mafiose per realizzare questo disegno criminoso è l’impresa mafiosa. L’impresa mafiosa gode rispetto alle altre imprese (non mafiose) di una superiorità economica che deriva da un triplice ordine di fattori: 1) crea, attraverso il metodo mafioso, un “ombrello protezionistico” nel mercato di riferimento che le consente di eliminare la concorrenza; 2) ha un costo del lavoro inferiore; 3) ha una maggiore solidità finanziaria che deriva, principalmente, dagli introiti che giungono dall’esercizio di attività illecite.
Nel corso degli anni l’impresa mafiosa ha subito un’evoluzione. Le prime imprese mafiose sono state costituite (o acquisite) per iniziativa di un’organizzazione criminale che spendeva all’esterno il suo nome. Successivamente si è passati ad un’altra tipologia di impresa, quella di c.d. proprietà del mafioso, in cui l’associazione criminale, pur conservando la proprietà sostanziale dell’impresa, non risulta la titolare formale della stessa. Ultimo stadio di evoluzione ha visto nascere la c.d. “società ad infiltrazione mafiosa” dove alla presenza mafiosa si è unita quella di un imprenditore che, pur estraneo all’organizzazione criminale, instaura con questa rapporti stabili di cointeressenza e ne accetta i “servizi”.
Attraverso l’impresa mafiosa l’associazione raggiunge un duplice risultato: si inserisce nella società sviluppando rapporti con i ceti imprenditoriali e le classi dirigenti; ricicla il denaro di provenienza illecita e lo investe in attività economiche.
Con riguardo al primo profilo l’analisi prosegue partendo dalla considerazione che la delinquenza mafiosa, come si evince proprio dall’impresa mafiosa, è caratterizzata al centro da una struttura organizzata ed attorno da un alone grigio dove si collocano soggetti che, in un modo o nell’altro, con l’associazione entrano in relazione. Si tratta di un’area grigia all’interno della quale non è facile comprendere se una condotta può dirsi illecita oppure lecita e nel primo caso in quale figura delittuosa essa è sussumibile.
Pertanto, prima di tutto, è stato individuato il limite dell’area penalmente rilevante nei rapporti la mafia e l’imprenditore.
Sul punto si è assistito ad una evoluzione giurisprudenziale tesa a distinguere l’imprenditore vittima da quello colluso con la mafia. In un primo momento è stato considerato vittima quell’imprenditore che, operante in aree ad alta infiltrazione mafiosa, non ha altra scelta che stipulare un patto con la mafia se intende svolgere la sua attività d’impresa. Secondo un successivo orientamento giurisprudenziale l’imprenditore vittima è stato individuato in quello che versava in una situazione di “ineluttabile coartazione” nei confronti dell’associazione mafiosa. Questa situazione andava dedotta, in particolare, dalla circostanza che fosse stato l’imprenditore a rivolgersi per primo all’associazione mafiosa e non viceversa. Infine, si è giunti alla definitiva affermazione che ritiene colluso l’imprenditore che con la mafia stipula un patto dal quale consegue un ingiusto vantaggio. Viceversa, se dal patto deriva un danno ingiusto allora l’imprenditore sarà vittima.
Distinto l’imprenditore vittima da quello colluso l’analisi prosegue nella individuazione del modo in cui la collusione potrà manifestarsi.
In questa prospettiva, l’imprenditore colluso potrà essere un vero e proprio affiliato all’associazione mafiosa ovvero stabilire con la consorteria criminale un rapporto sussumibile nella figura del concorso esterno in associazione di stampo mafioso.
Nella prima prospettiva, per l’individuazione della figura del partecipe, si sono alternati, in particolare, tre orientamenti giurisprudenziali. Il primo individuava il partecipe in colui che offriva un contributo causalmente rilevante nella vita dell’associazione (modello causale). Il secondo qualificava il partecipe in colui che si è organicamente inserito all’interno dell’associazione (modello organizzatorio). Il terzo, e definitivo, ha ritenuto di accompagnare un accertamento del contributo causalmente rilevante per il rafforzamento dell’associazione alla prova dell’inserimento del soggetto nella struttura organizzativa. Ferma, in ogni caso sotto il profilo soggettivo, la necessità dell’affectio societatis: la consapevolezza e volontà del partecipe di far parte del sodalizio mafioso e di contribuire al raggiungimento degli scopi dell’associazione.
Altro ruolo che può ricoprire l’imprenditore è quello di concorrente esterno nel reato associativo. Questa fattispecie incriminatrice è stata il risultato di quattro decisioni della Cassazione a Sezioni Unite che, in un modo o nell’altro, hanno sciolto tutti i dubbi di ammissibilità del concorso esterno nell’ambito del nostro sistema penale. Queste perplessità avevano riguardato molti aspetti tra i quali: la possibilità che l’esterno ponga in essere un contributo materiale; l’irragionevolezza del trattamento sanzionatorio dell’esterno; la sovrapponibilità dell’elemento psicologico dell’esterno con quello del partecipe; la possibilità di un contributo esterno ad un reato permanente; l’esistenza di uno spazio operativo della fattispecie in un settore dove sono presenti i reati di cui agli artt. 378, 418, 416 ter c.p. e l’aggravante dell’art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152.
Ulteriore sforzo ermeneutico ha riguardato i criteri di distinzione dell’intraneo dall’estraneo. In questo contesto la prima posizione individuava l’esterno in colui che, a differenza del partecipe, prestava il proprio contributo solo in una fase patologica della vita associativa. Successivamente, superate altre posizioni che facevano riferimento alla destinazione del contributo o alla sua natura, si è giunti alla necessità di operare un confronto tra le regole interne del sodalizio e, in relazione a queste ultime, verificare se il soggetto vi faccia parte o meno.
Le sentenze hanno anche affrontato il tema della natura tipica del contributo e del nesso eziologico che lo unisce all’associazione. In questo contesto la presa di posizione finale ha ritenuto rilevante quel contributo atipico che, attraverso un giudizio controfattuale ex post, facilita o agevola la verificazione dell’evento. Quest’ultimo non consiste in un evento indispensabile per il mantenimento “in vita dell’associazione” ma, viceversa, è tale da conservare o rafforzare l’associazione nel suo complesso. Questo effetto finale può aver luogo tanto se direttamente cagionato dalla condotta dell’estraneo quanto se opera attraverso l’”intermediazione” delle condotte dei soggetti intranei.
Per quanto concerne, infine, l’elemento soggettivo, le sentenze delle Sezioni Unite, ad una prima posizione che lo qualificava come dolo generico, si sono assestate in una definitiva qualificazione imperniata sul dolo diretto parziale: con il contributo l’estraneo persegue l’obiettivo di realizzare una parte del programma criminoso associativo.
Tutte le conclusioni delle decisioni delle Sezioni Unite non sono state messe in discussione dalla decisione della Suprema Corte pronunciata all’esito del famoso e recente processo in tema di concorso esterno nell’ambito dei rapporti mafia-imprenditori ossia quello che vedeva come imputato Dell’Utri.
Da ultimo, il metodo probatorio da applicare alle figure sostanziali dell’imprenditore partecipe o concorrente esterno ed, in particolare, all’accertamento del nesso eziologico, risulta caratterizzato dal ricorso alle massime d’esperienza quali regole di valenza dimostrativa riconosciuta a livello generale e non frutto di mere intuizioni personali del giudice.
Un ulteriore ipotesi di “incontro” tra la mafia ed il mondo delle imprese può avvenire nell’ambito della responsabilità da reato degli enti. Tuttavia, in quest’ultimo ambito, la struttura del d.lgs. n. 231 del 2001 appare inadeguata nel caso in cui il reato presupposto ha natura permanente come l’art. 416 bis c.p.
A questo punto l’analisi procede trattando l’altro obiettivo che la mafia persegue attraverso lo strumento dell’impresa mafiosa: il riciclaggio dei capitali di provenienza illecita ed il successivo investimento in attività anche lecite.
Il risultato di questa strategia consente alla mafia di conseguire il risultato economico delle attività illecite compiute, determinando, tuttavia, l’inquinamento dell’economia legale e la lesione dell’ordine economico.
Il sistema repressivo elaborato dal legislatore per contrastare il fenomeno criminoso del riciclaggio è costruito su più fattispecie incriminatrici. Rilevano in questo contesto l’art. 648 bis c.p. che punisce la fase di pulitura del denaro “sporco”; l’art. 648 ter c.p. che incrimina la successiva fase di impiego delle risorse economiche “lavate”; l’art. 12 quinquies comma 1, d.l. 8 giugno 1992 che reprime una particolare condotta diretta al compimento del riciclaggio o dell’impiego illecito.
Il rapporto tra tutte queste fattispecie incriminatrici ed il reato di associazione di stampo mafioso il quale, a sua volta, prevede, nel comma sesto dell’art. 416 bis c.p., una circostanza aggravante che concerne il riciclaggio dei proventi delittuosi, ha determinato una recente intervento della Cassazione a Sezioni Unite che, da un lato, ha risolto conflitti interpretativi sorti sul punto, dall’altro, ha accertato l’idoneità dell’associazione mafiosa, nella sua natura imprenditoriale, di essere fonte di proventi illeciti.
Da ultimo, la sostenuta insufficienza del sistema repressivo descritto ad arginare l’inquinamento mafioso dell’economia legale ha, recentemente, spinto il legislatore, anche a seguito di sollecitazioni sovranazionali, ad introdurre il nuovo reato di autoriciclaggio.
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Università degli studi di Trieste
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