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Paesaggio
Ziveri, Alberto
1953
Abstract
Nella monografia firmata nel 1988 da Maurizio Fagiolo dell’Arco (Alberto Ziveri, consulenza di N. Vespignani, Milano, Fabbri) l’autore da un lato annuncia – promessa, a quanto risulta, disattesa – che il catalogo ragionato dell’opera di Ziveri “è in preparazione avanzata”, dall’altro apre ad alcune “linee” che tale catalogo avrebbero dovuto ispirare. Lo stesso Fagiolo individua in circa mille le opere dell’artista conservate in musei e collezioni private; segnala, tra questo migliaio di opere, almeno duecento paesaggi: paesaggi della terra d’origine della famiglia dell’artista, l’Emilia, e squarci di periferia capitolina, “fuor di porta” romani. Tra le opere pubblicate non c’è, tuttavia, il Paesaggio esposto a Trieste alla fine del 1953. Menzionate, invece, nella sezione “Esposizioni-bibliografia” curata da Francesca Romana Morelli (p. 235 della monografia citata) la presenza dell’artista all’“Esposizione e Corso di critica della Pittura italiana Contemporanea, Università di Trieste”, e la recensione di Ghiglione comparsa ne “Il Secolo XIX” l’8 di dicembre dello stesso anno, articolo peraltro più volte indicato nelle sequenze di riferimenti relativi alla fortuna critica dell’esposizione universitaria e raccolto nell’archivio storico dell’Ateneo nella cartella relativa alla rassegna stampa. Insomma, resta ancora da fare la storia dell’opera conservata a Trieste. Storia che andrebbe a completare l’intera questione del rapporto tra Ziveri ed il Friuli Venezia Giulia: di origine friulane – majanesi, precisamente – era la moglie dell’artista, Nelda Riva. A Majano, Ziveri trascorse molte delle sue estati e non poche, né trascurabili sono le sue opere che hanno per soggetto il paesaggio friulano. Proprio a Majano, a partire dagli anni Ottanta, sono state organizzate tre mostre dedicate all’artista: Ziveri. Omaggio a Majano, del 1985; Alberto Ziveri. Taccuini di viaggio, del 1990; conclude la sequenza, nel 1998, l’esposizione di alcune incisioni del maestro. Ziveri è un artista complesso, per il quale risulta arduo procedere a rigide periodizzazioni su base stilistica. Non a caso, Fagiolo ricorre al termine anagrafico di “Maturità” per la fase successiva al 1948, fase cui appartiene la tela conservata presso il Rettorato triestino. Fase nella quale, almeno fino agli anni Sessanta, quando la sua pittura perde in tensione, Ziveri alterna la materia ricca, i colori violenti, le tavolozze torbide, i temi da illustrazione popolare dei suoi postriboli o dei bui anfratti di borgata romana a visioni incantate, popolate da figure imbambolate, sospese, che più che a Donghi sembrano rimandare ad alcune visioni di Edward Hopper. Non mancano, inoltre, opere nelle quali evidenti sono le citazioni dalla storia della pittura italiana ed europea: decisivi, in questo senso, i viaggi dell’artista che, alla fine degli anni Trenta, ebbe modo di studiare i quadri dei più importanti artisti conservati presso i principali musei centro e nord europei, tra Tiziano a Rembrandt, Courbet e Rubens, Goya e Teniers. Molte maniere, insomma, per un artista che non si è mai piegato ai gusti dominanti e che rimane realista nella misura in cui – così ha scritto Argan – è stato capace di “interrogarsi sul non-senso del reale”, di sacrificare il proprio punto di vista al costo di farlo naufragare nell’esistente; di costruire, come suggerisce Romeo Lucchese, che nel 1952 ha firmato con Leonardo Sinisgalli una celebre monografia dell’artista, una “comunione umana sensuale e affettuosa” con il vero. Nel Paesaggio presentato a Trieste nel 1953 è evidente come i tratti più popolari, sanguigni che avevano accompagnato l’artista negli anni Trenta e Quaranta siano stati puliti sulla scorta di un colorismo dal respiro internazionale, di una pittura di paesaggio caratterizzante le avanguardie europee tra Otto e Novecento. Lezione che, in tutta probabilità, Ziveri aveva appreso nelle sale della prima Biennale veneziana del secondo dopoguerra dove aveva potuto vedere i quadri dei fauve, degli impressionisti e dei post-impressionisti. Firma dell’artista, l’innesto di piccole e, come suggerisce Fagiolo dell’Arco nella monografia menzionata in apertura, “saporose” figure umane che rivelano suggestioni dalla pittura fiamminga.