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Etica e sport: la competizione
Grossini, Alex
2009-04-24
Abstract
Lo sport generalmente è il luogo in cui si viene a contatto per la prima volta con la competizione; per questo sembra necessario scoprire se la competizione è qualcosa di buono o no.
A una prima semplice analisi, la competizione crea una differenza tra vincitori e sconfitti. Lo sport non è “democratico”, non ha tendenze egalitarie e anzi la sua natura è proprio segnare la differenza: la competizione sportiva prevede vincitori e sconfitti. Questo banale dato di fatto genera una quantità di problemi apparentemente insormontabili, tutti riconducibili a una sola domanda: è giusto che ci siano sconfitti?
Il motto «L'importante è partecipare» che si fa popolarmente risalire al barone de Coubertin, ri-fondatore dei Giochi Olimpici, è piuttosto chiaro. Di più, è inequivocabile: non conta vincere o perdere. Lo sport, quello imbevuto di ideali “olimpici”, è un cimento in cui provare se stessi, e se si vince bene, altrimenti non se ne fa un dramma. Comunque, non vincere non è causa di squalifica sociale: il “perdente” non esiste, nell'utopico ideale “olimpico”.
Purtroppo però vediamo che nel mondo sportivo si impara anche a discriminare. Se la discriminazione vincitore/sconfitto è connaturata allo sport stesso, direi essenziale con terminologia aristotelica – vale a dire che se non c'è quella non c'è lo sport, la discriminazione verso persone o gruppi ritenuti inferiori a priori non ha alcuna attinenza con i valori sportivi. Proverò a dimostrare che anzi proprio la competizione sportiva è il metodo migliore per sviluppare antidoti alla discriminazione.
La discriminazione nello sport si realizza, come sostiene Michael Messner, per cerchi concentrici: al centro ci sono gli atleti, degli sport più popolari; man mano che ci si allontana dal centro incontriamo atleti "minori", tifosi, donne, non tifosi, omosessuali e così via. Più si è lontani dal centro, più la discriminazione incide. Le donne in particolare hanno subito nei secoli una costante esclusione dallo sport. La filosofia femminista ha cercato anche in questo campo soluzioni alla diseguaglianza tra uomini e donne, e una soluzione particolarmente proficua mi è sembrata quella di Jane English: la distinzione tra basic e scarce benefits.
I beni sono pochi, questo è un fatto: anche nello sport. Gli uomini hanno occupato il centro (Messner, di nuovo), dove godono della maggior quantità di benefits escludendo tutti gli altri. A questo livello la competizione è spietata, un "vinci o muori" con poche regole. Jane English suggerisce che i beni ai quali la maggior parte della gente punta sono in realtà quelli meno necessari: la fama e la ricchezza. La English sostiene che questi scarce benefits non abbiano niente a che vedere con la pratica sportiva, non sono essenziali allo sport, si possono ottenere in qualsiasi altro modo. Chi vuole accedere allo sport non lo fa per questi beni scarsi, ma per i basic benefits come la salute psicofisica, la socializzazione, l'autostima. Quello che davvero rende lo sport così importante è che questi ultimi benefits non vengono consumati se aumenta il numero dei praticanti, ma in genere incrementano: non ha alcun senso privare ampie fette di popolazione di benefici che non sono consumabili, ma anzi rigenerabili.
Quello che English sottintende è una "visione della vita buona" che considera non buona una vita priva di quei basic benefits. Il passaggio necessario quindi è cercare qualche giustificazione a una concezione di vita buona che comprenda i basic benefits.
Ci sono diverse teorie di "vita buona": le etiche della virtù (da Platone e Aristotele fino al revival novecentesco, passando per Tommaso d'Aquino - senza dimenticare Confucio in Oriente) sono l'esempio più immediato, ma anche le dottrine deontologiste e consequenzialiste hanno un ideale. Negli ultimi 30 anni circa un "nuovo" modello è stato proposto da Amartya Sen e Martha Nussbaum, in tempi diversi e indipendentemente l'uno dall'altra. La teoria che mi sembra più applicabile è quella di Martha Nussbaum: la sua declinazione della teoria delle capacità funziona meglio nel campo dello sport, rispetto a quella di Sen, perché provvede a fornire concreti esempi di capacità e funzionamenti di valore, mentre l'idea di Sen è non specificare praticamente nulla per ottenere uno strumento "universale". Si può dire che Sen è più kantiano e Nussbaum più aristotelica, anche se la stessa autrice ultimamente ha accolto istanze (neo)kantiane.
Martha Nussbaum è (neo)aristotelica: la sua distinzione tra capacità e funzionamenti è ricalcata sulla distinzione che lo Stagirita proponeva tra potenza e atto. Le capacità sono potenze (o potenzialità) che il soggetto ha di funzionare, e i funzionamenti sono le capacità esplicitate in azioni; quando un soggetto esercita un funzionamento ha la capacità di farlo, e sceglie di farlo. Per Nussbaum è molto importante anche l'impegno personale dell'agente - la deliberazione indica infatti il set di valori dell'agente: anche questo è aristotelismo, le azioni rivelano il carattere dell'agente. Il fatto che i funzionamenti di valore vengano scelti è per Nussbaum indizio di una differenza tra animale uomo e altri animali: la razionalità è il nostro tratto distintivo, intesa come deliberazione.
In Diventare donne Nussbaum propone una lista di dieci capacità: vita; salute fisica; integrità fisica; sensi, immaginazione e pensiero; emozioni; ragione pratica; appartenenza; rapporti con le altre specie; gioco; controllo del proprio ambiente politico e materiale. Queste capacità sono essenziali per una vita autenticamente umana, vale a dire che la privazione di anche una sola di queste comporta un vita non buona. Sono capacità individuali, ovvero ogni individuo le ha, e per vivere una vita buona deve avere la possibilità di esplicitarle in funzionamenti. Sono "quasi-diritti", non diritti in senso tradizionale perché nel piano neoaristotelico di Nussbaum il linguaggio delle capacità dovrebbe sostituire quello dei diritti, perché i diritti sono forme, e le forme rischiano di essere vuote, mentre il richiamo alle capacità dovrebbe garantire un impegno politico maggiore. Ultimamente Nussbaum ha però affiancato diritti e capacità, rendendoli complementari.
Quello che però è interessante è che il progetto di Nussbaum non indica un percorso verso uno stato paternalista, dove ci si impegna a far sviluppare le capacità fino in fondo. Sarebbe la negazione del liberalismo occidentale, cosa che Nussbaum, aristotelica e rawlsiana (fino a un certo punto) non può accettare. Quindi la soluzione è una forma politica che garantisca lo sviluppo di capacità fino a un livello di soglia, oltre il quale ogni individuo può poi decidere autonomamente se proseguire o fermarsi, "accontentarsi". Uno stato che impone certi funzionamenti è dittatoriale, uno che non ne impone nessuno è deficitario: bisogna, aristotelicamente, trovare una via di mezzo. Per esempio quello che normalmente noi occidentali chiamiamo diritto all'istruzione dovrebbe diventare un funzionamento, tra l'altro essenziale per lo sviluppo di altre capacità in altri funzionamenti - se non so leggere e scrivere non posso informarmi, non posso partecipare alla vita della comunità democratica tramite il mio voto. E in parte, con l'istituzione della scuola dell'obbligo, già lo interpretiamo così, come funzionamento necessario. Di fatto, la soluzione della soglia permette a Nussbaum di evitare l'accusa più fondata alla sua versione del capabilities approach, ovvero l'accusa di paternalismo. Inoltre, ben più importante nell'ambito della mia ricerca (ma solo qui), evidenziano uno "spirito sportivo" piuttosto marcato: nello sport ci si deve guadagnare la vittoria, non deve essere concessa (quasi come costrizione) dall'alto, dagli organismo che governano lo sport; ma prima di entrare nella competizione qualcuno fa in modo che l'individuo competitore abbia un minimo di capacità, e sviluppi una serie di funzionamenti. Non posso giocare a basket se non so tirare o palleggiare, se non conosco i regolamenti, se non conosco lo scopo del gioco e se non ho il buon senso di non trasformare il gioco in una rissa. Anche nello sport quindi la meta degli organismi governativi sono le capacità, non i funzionamenti, e certi funzionamenti vengono usati come mezzi per il fine "essere capaci di competere".
Se oltre il livello di soglia non vi sono interferenze (nemmeno in positivo) di enti governativi, allora quello spazio rimane aperto all'iniziativa degli individui; credo sia proprio in questo spazio che la politica debba cedere il passo all'etica. Si può dire che fino a un certo punto arrivano le regole costitutive, ovvero quelle che costruiscono lo spazio in cui si svolge il "gioco"; oltre ci si affida alle regole di strategia, le quali indicano come giocare "bene", comprendendo anche i rapporti con gli altri "giocatori".
La teoria di Robert Simon risulta particolarmente efficace proprio in uno spazio in cui i normali regolamenti non arrivano, perché proprio lì la competizione rischia di diventare bellum omnium contra omnes: Simon sostiene che la competizione è una mutual quest for excellence. Con questo vuole dire che essenza della competizione non è annientare l'avversario, ma collaborare con lui per aumentare i propri funzionamenti. Per i critici la competizione ha come obiettivo il miglioramento della posizione di un competitore a spese degli altri, ma non è per nulla inusuale constatare che gli atleti tra loro collaborano, persino da avversari: questo atteggiamento cooperativo può essere parte di un'etica della competizione difendibile, basata sul valore dell'essere all'altezza delle sfide proposte dal gioco. Ciò che conta non è vincere, ma affrontare "bene" la sfida che il gioco e l'avversario propongono: in questo senso il giocatore ha un obbligo nei confronti dell'avversario di fare il proprio meglio, per generare la miglior sfida possibile.
Le ineguaglianze quindi emergono nello sport, ma non sono male e non sono nemmeno l'essenza dello sport: l'essenza è la competizione, che presuppone collaborazione. Tutto dipende dal confronto con un gruppo di riferimento: chiunque intenda testare le proprie capacità in un determinato sport deve misurare i propri risultati non solo con lo scopo di fare un confronto con i propri risultati passati, ma anche con i risultati altrui nello stesso sport, in particolar modo con i risultati di chi è comunemente ritenuto capace in quello sport. Questa necessità produce appunto l'atteggiamento etico del confronto regolamentato, che è quello più facile da misurare: è come quando si fa un esperimento, e si fissano dei valori con lo scopo di semplificare la valutazione dei valori non fissati, le variabili da studiare. Il vero sportivo sa che gli avversari sono indispensabili per valutare le proprie capacità, visto che il regolamento è fisso e le capacità sono le variabili; ma non solo, un confronto così regolamentato lascia spazio per andare oltre la soglia, in quello spazio libero dove il confronto è meno imbrigliato - qui il competitore può migliorare le proprie capacità. Lo sport invita a non essere egoisti, perché un egoista non può misurarsi né migliorarsi. Così la competizione non è necessariamente discriminazione, ma anzi è il metodo in cui l'etica può superare la discriminazione e permettere a tutti (quelli che lo vogliono) di dedicarsi a un percorso di eccellenza.
Insegnamento
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Università degli studi di Trieste
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