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Ritratto del Rettore Alberto Asquini

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Il dipinto inaugura la serie dei quattordici ritratti di rettori dell’Università di Trieste, sei dei quali di mano dello stesso Sambo, definito «peintre en titre de l’Università» da Luigi Coletti nella lettera inviata al Rettore Ambrosino per convincerlo a estendere anche all’artista giuliano l’invito a partecipare alla mostra di pittura italiana del 1953 (Lettera di Luigi Coletti a Rodolfo Ambrosino, Archivio dell’Università di Trieste, 17 luglio 1953). Già direttore dell’Istituto di Studi Commerciali “Fondazione Revoltella”, in qualità di preside della facoltà di Economia (originario nucleo dell’Ateneo giuliano) Alberto Asquini ricoprì per primo la carica di Rettore della neo istituita Regia Università rimanendo in carica dal 23 settembre 1924 al 31 ottobre 1926. L’ufficialità della commissione affidata al già maturo artista triestino viene enfatizzata dalla semplicità di mezzi espressivi e dalle soluzioni compositive adottate. La figura del Rettore ispira infatti una reverenza dettata esclusivamente dalle scelte artistiche del pittore, non essendo in alcun modo intuibile il prestigioso ruolo dell’effigiato. Vestito di semplici abiti borghesi, Asquini viene isolato al centro dell’opera senza alcun elemento di contorno o decorazione che possa suggerire la sua carica. L’indeterminatezza spaziotemporale in cui è collocato contribuiscono dunque a enfatizzare la caratura morale del personaggio che, nel discorso inaugurale del 15 dicembre 1924, aveva orgogliosamente ripercorso le tappe di quel cammino che già nel 1848 aveva suggerito a personaggi del calibro di Kandler e De Rin di sollecitare la costituzione di un’Università italiana in un territorio ancora soggetto all’Impero austroungarico. Tuttavia il fondale neutro su cui si staglia la figura ha anche motivazioni più schiettamente artistiche, rimandando da un lato alla tradizione della ritrattistica borghese tardo-ottocentesca (che adottava questo espediente traendolo a prestito dalla recente tecnica fotografica), dall’altro l’adozione delle tonalità brunacee è utilizzata da Sambo per riscaldare la figura “sciogliendone” parzialmente l’ufficialità. Questo obiettivo è in realtà conseguito anche attraverso l’acuta osservazione del modello di cui l’artista sottolinea la bonarietà e integrità senza per questo glissare su aspetti di verosimiglianza fisica come le occhiaie che ne segnano pesantemente gli occhi. Già in occasione della sua esposizione alla Galleria Trieste nel 1937 l’opera si impose all’attenzione del pubblico poiché «la bellezza del tono che caratterizza il pallore è pari a quella dell’interpretazione incisiva del volto inquieto di pensiero», configurandosi quindi come il perfetto esempio della compenetrazione fra il dato reale e l’introspezione psicologica che caratterizza l’intera produzione ritrattistica di Sambo. Il dipinto si colloca stilisticamente nella fase in cui l’artista si accosta alle tendenze del gruppo Novecento condividendone la plastica definizione volumetrica delle figure e un tratto sintetico che, tuttavia, non gli impedisce di inserire quasi en passant dei riferimenti alle precedenti esperienze secessioniste e, più genericamente, tardo-impressioniste, qui evidenti nella linea serpeggiante della cravatta e nell’accostamento di colori vivaci pronti a rafforzarsi reciprocamente.
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