Pinacoteca del Rettorato

Viaggio virtuale in Rettorato

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    Cantiere
    (1952)
    Santomaso, Giuseppe
    Cantiere figurava tra le opere esposte alla mostra Esposizione nazionale di pittura italiana contemporanea allestita nell’Aula Magna dell’ateneo alla fine del 1953 e risulterà vincitrice del primo premio-acquisto di 500.000 lire previsto dal bando della mostra. Nelle prime due votazioni la giuria, dopo aver individuato una terna di candidati composta da Afro, lo stesso Santomaso ed Emilio Vedova, non era riuscita a nominare i vincitori per la mancanza di una maggioranza qualificata. Si dovrà così applicare la clausola del regolamento che prevedeva il sorteggio tra la terna più votata, escludendo così Vedova dai premiati (la sua Crocifissione contemporanea sarà in seguito acquistata dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma) e assegnando a Santomaso il primo premio-acquisto: una scelta che solleverà anche polemiche, vista l’assoluta preponderanza delle opere astratte (o presunte tali nel caso di quella in esame) tra i premiati, così infatti si era espresso Giulio Cesare Ghiglione sulle colonne del “Il Secolo XIX” di Genova riportando le impressioni degli artisti esclusi: "nè vogliamo infirmare la scelta della giuria a favore di uno o dell’altro della stessa tendenza, ma troviamo eccessivo che ambedue i premi siano stati conferiti alla stessa corrente, la quale rappresenta circa un terzo degli espositori", (Polemiche su un premio, 15 dicembre 1953). Al di là delle polemiche, che peraltro non avevano trovato riscontri sulla stampa locale e nazionale, la motivazione formulata dalla giuria a proposito della tela del pittore veneziano poneva l’accento sull’origine picassiana della sua ricerca pittorica: "Santomaso si è infatti proposto di sviluppare la scomposizione cubista fino a permettere una più lucida e costruttiva determinazione dell’oggetto e dello spazio; una più assertiva definizione dei valori plastici e coloristici; una più stretta e impegnativa relazione tra soggetto e oggetto. In questa ricerca, che partecipa con un suo personalissimo accento dei più vivi movimenti dell’arte moderna europea, Cantiere rappresenta indubbiamente un risultato assai importante, soprattutto perché concilia un’aperta emozione paesistica con una rigorosa architettura formale". Veniva così perfettamente inquadrato il carattere della ricerca del veneziano, i cui confini verranno ancor meglio precisati due anni dopo da Giuseppe Marchiori: "Nell’atmosfera limpida dei cantieri, il contrasto con le forti strutture degli scafi e col disegno netto dei tralicci metallici è accentuato sul piano della logica formale, con risultati che fanno del processo astrattivo un modo d’intendere più profondamente la realtà poetica dell’immagine: Gli elementi grafici (scale, fili, corde, grù, antenne) si accordano con la luce del fondo e coi motivi dominanti della partitura coloristica (barche, caldaie, macchine, cilindri, camini). Sono composizioni di oggetti che vanno sempre più trasformandosi in simboli e segni. La luce del cantiere, albale o mattutina, non è poi tanto diversa da quella, primaverile, che accoglie i riflessi verdi dell’erba, e che penetra dalla campagna nelle rimesse dove stanno i carri, gli aratri, le segatrici. Il pittore è dentro tutte le cose vedute, che la memoria ripete e trasforma sullo schermo della fantasia. È una scelta molto più valida di una rappresentazione obbiettiva. E in queste liriche della campagna, in cui gli oggetti si compongono nella misura esatta di un ritmo e di una struttura, c’è l’impulso vitale, c’è la partecipazione dell’essere, che è qualche cosa di più di un omaggio araldico alla fatica e al lavoro" (G. Marchiori, Santomaso. Pitture e disegni 1952-1954, Venezia [1954], p. 11). Una sorta di visionaria etica del lavoro quindi, che in termini pittorici si componeva di una sostanziale ibridazione dei motivi di estrazione neocubista assimilati alla fine degli anni quaranta con elementi di origine surrealista: “in Piccolo cantiere, del ‘52, e in altri lavori coevi [tra i quali si può sicuramente inserire anche il Cantiere dell’ateneo triestino], Santomaso riesce ad incrociare la cultura surrealista e in particolare Mirò, maturando una volta per tutte il taglio di un linguaggio personalissimo: da questo momento in poi è ormai chiaro in quale senso Santomaso afferma di voler «essere nelle cose», nel tessuto della loro energia, e secondo quali parametri egli intenda congiungere la realtà esteriore del mondo con la memoria che se ne ricava: una memoria che abita nelle cose stesse o, meglio, nella visione che il pittore ce ne restituisce” (Cortenova 1990, pp. 20-21).
      292  476
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    Natura morta in blu
    (1952)
    Salietti, Alberto
    La raffinata e suggestiva opera di Salietti, nata quale ideale pendant della Natura morta coi frutti (già New York, Graphic Society collection), piacque molto anche al suo creatore tanto da chiederne la momentanea restituzione per un’esposizione a Livorno nell’aprile del 1954. Il dipinto però rimase al suo posto, secondo quanto stabilito dal regolamento dell’esposizione. Tuttavia, non senza una punta di sarcasmo, Salietti scriveva nella stessa lettera del 21 febbraio, probabilmente sapendo già la risposta che avrebbe avuto: “Da una rivista triestina vedo che anche da voi gli allori sono ormai sempre per quelli. Beati loro. E vendite nulla? Molti ossequi e cordialità”. Del resto, la sua posizione politica e il ruolo di primo piano ricoperto in Novecento, lo avevano ormai messo fuori gioco da qualsiasi premiazione di prestigio nel dopoguerra, eccezion fatta per i premi Marzotto ricevuti nel 1955 e 1957. Aveva però, precisamente in quel momento tra 1952-53, ritrovato un eccellente mestiere che si esprimeva al meglio proprio con le nature morte. Anche Natura morta in blu effettivamente non tradì questo stato di grazia e, il vaso blu in primo piano su fondo blu, si impone come immagine di altissimo raggiungimento tecnico e formale. Il dipinto fu realizzato a Chiavari, ormai dimora stabile di Salietti e venne valutato dallo stesso pittore con la ragguardevole cifra di duecentoventimila lire.
      197  325
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    Venus
    (1950)
    Sambo, Edgardo
    Presentato all’Esposizione Nazionale di Pittura Italiana Contemporanea dell’Università di Trieste, il dipinto venne acquistato per la cifra di centomila lire nonostante gli elenchi dattiloscritti stilati nei giorni precedenti l’apertura della mostra ne segnalassero un valore di quattro volte superiore. Tale disparità di cifre non sfuggì al Rettore Ambrosino che, nel marzo del 1954, si affrettò a inviare una lettera a Sambo per pregarlo di «accettare il sacrificio che le chiedo considerando che la Sua opera sarà conservata da un’istituzione universitaria che ha vita secolare» (Lettera di Rodolfo Ambrosino a Edgardo Sambo, 11 marzo 1954). Nonostante l’esito del concorso indetto a margine dell’esposizione fosse andato a favore di opere stilisticamente molto diverse, Venus non era certo passata inosservata, vuoi per il fatto di uscire dal pennello di uno dei maggiori pittori triestini del secolo, vuoi per il fascino esercitato dal suo essere «pensosa e suggestiva» (Tranquilli, 6 dicembre 1953). Il dipinto può essere considerato il punto di arrivo della pittura di Sambo e, a un tempo, la perfetta summa dei suoi interessi: da un lato il culto della figura, nutrito sin dagli anni della formazione presso Zangrando e proseguito nella fitta schiera di ritratti che hanno costellato la sua produzione, dall’altro l’interesse per il mondo antico, inaugurato nel periodo romano del pensionato Rittmeyer e rafforzatosi negli anni Venti come conseguenza del contatto con Novecento e il gruppo di Valori Plastici. Le immagini di un tempo remoto e ormai in decadenza vengono utilizzate dall’artista triestino per puntellare ulteriormente l’idea di una pittura che è riflessione sui valori del presente, in crisi al pari dei monumenti (e degli ideali) su cui poggiava la grandezza del passato. Venus propone dunque un serrato e immediato confronto fra epoche lontane e principi estetici diversi: nonostante la figura in primo piano e la Venere di Milo sullo sfondo condividano le medesime rotondità e pudori, la femminilità provocante incarnata dalla giovane non è più quella di una divinità distaccata dai rumori del mondo ma piuttosto quella di una soda lavoratrice pronta ad affrontare la vita con tutte le problematiche della contemporaneità. Se dal punto di vista tematico il dipinto presenta evidenti affinità con I tre modelli, risalente al 1929 (Cataldi, 1999, cat. n. 89, p. 75), il motivo del ripiegamento interiore e il desiderio di rappresentare la condizione sociale del secondo dopoguerra che qui si possono percepire si riverberano in opere cronologicamente più prossime come Giovane operaio (ivi, cat. n. 229, p. 147), vicino al dipinto in esame anche sotto il profilo stilistico. Per accentuare l’approfondirsi dell’atteggiamento introspettivo comune all’intera sua produzione, negli anni cinquanta Sambo chiude le figure all’interno di spesse linee di contorno scure, quasi a voler sottolineare l’isolamento dell’uomo moderno e il suo bisogno/necessità di ripiegarsi su se stesso per non lasciarsi scalfire dagli eventi esterni. Questa soluzione compositiva, peraltro, si configura come un’evoluzione dell’attenzione alla plasticità delle forme che, pur percorrendo tutta la produzione dell’artista, si rafforza a seguito della citata vicinanza ai movimenti neoclassici che si affermano dal primo dopoguerra e del più recente neocubismo. Recuperando tonalità solari e una luce capace di creare marcate zone d’ombra, Sambo crea un’opera in cui vengono ribadite le qualità della sua arte, costantemente volta alla ricerca di semplicità compositiva, robustezza della figure, di un modo di procedere sintetico e del legame con la tradizione. Al tempo stesso, tuttavia, questi stessi sono i principi che, essendo perseguiti dalle più moderne correnti pittoriche, pongono Sambo a stretto contatto con il panorama artistico a lui contemporaneo confermandolo artista che, come ha voluto simboleggiare in Venus, tiene nella medesima considerazione passato e presente.
      202  172
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    Natura morta
    Brancaccio, Giovanni
    Tra i più appassionati partecipanti all’esposizione, di Giovanni Brancaccio e del suo dipinto Natura morta sappiamo sostanzialmente tutto grazie alla corrispondenza che egli intrattenne con l’allora rettore Rodolfo Ambrosino. Il rapporto epistolare ebbe inizio quando Brancaccio rispose da Napoli in data 11 settembre 1953: “Illustre Signor Rettore, La prego di scusarmi se, per una mia distrazione non ho risposto a una Sua gentile lettera del 17 luglio. L’involontaria scortesia è dipesa dal disordine che spesso regna nelle mie carte! Ad ogni modo, la ringrazio, per l’invito rivoltomi e se, a quanto è detto nel regolamento accluso alla lettera, non vi sono nuove disposizioni o rinvii, spedirò il mio quadro per la data stabilita e cioè 30 c. m.”. Quando giunse l’invito da parte del Rettore a partecipare all’inaugurazione dell’evento, Brancaccio declinò a causa dei suoi continui impegni tra Roma e Napoli. Infatti, dalla capitale egli informò in data 28 novembre: “Illustre Sig. Rettore. La ringrazio del cortese invito fattomi a presenziare all’inaugurazione dell’esposizione e sono dolente di non poter partecipare perché impegnato qui in Roma ai lavori di una commissione di concorsi presso il Ministero della Pubblica Istruzione. Con l’occasione formulo i migliori auguri per una perfetta riuscita della intelligente manifestazione”. Quando si presentò la volontà di acquistare l’opera da parte dell’Università, sorsero dei problemi di valutazione del dipinto che portarono Ambrosino, con capacità persuasive sorprendenti, a far reagire Brancaccio il 29 marzo 1954: “Le rispondo subito per informarla che può trattenere il mio quadro «Natura morta» per la somma comunicatami”. Si arricchì, dunque, il patrimonio artistico dell’Università di un’opera tipica del napoletano il quale, attraverso la figurazione, rispondeva ai concetti dell’astrazione portando colore, forma e materia a convivere in una sorta di spazio creato a tessere musive. Ne risulta un dipinto che ha in sé tutti gli elementi possibili per combattere tridimensionalità, tradizione e decorativismo ma utilizzando proprio quel linguaggio formale ancora comprensibile alla massa.
      157  94
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    Case del Paradiso
    (1953)
    Rosai, Ottane
    Tracce del passaggio della tela Case del paradiso di Ottone Rosai a Trieste in occasione della Mostra del 1953 si trovano nel denso volume che raccoglie la corrispondenza dell’artista (Lettere 1914-1957, a cura di Vittoria Corti, Prato 1974; tale passaggio, invece, non è menzionato in cataloghi e monografie sull’arte di Rosai, compreso il recente Cinquanta dipinti di Ottone Rosai a 50 anni dalla scomparsa, a cura di Luigi Cavallo, Firenze 2008). In una missiva indirizzata a Perseo Rosai e datata 6 ottobre 1953 (nell’epistolario citato più sopra, n. 685, pp. 627-628), Ottone scrive: “proprio in questi giorni sto mettendo insieme i quadri per la mostra a Trieste”; aggiunge che, a causa di non specificati “impegni” che non gli consentivano di assentarsi da Firenze “neanche per un giorno”, “non potrò esserci presente”. Conferma della mancata partecipazione dell’artista è l’assenza del suo nome nell’elenco degli artisti “che scendono dall’albergo Jolly” (Università di Trieste, Archivio storico). Dei legami tra Rosai e la città di Trieste è testimonianza anche un’altra lettera, di poco precedente (22 agosto 1952, n. 681, pp. 624-625), inviata alla moglie Francesca. Nel documento è fatta menzione di un viaggio della stessa Francesca nella Venezia Giulia, in visita ai parenti del ramo della famiglia Rosai riconducibile al già citato Perseo, il fratello più giovane di Ottone, uno dei ragazzi del ’99 inviati a combattere sul confine orientale del Regno d’Italia. Al termine della prima guerra mondiale Perseo si era trasferito definitivamente a Trieste, e a Trieste ancora vivono i suoi figli Maria Daria e Nevio, i parenti più prossimi dell’artista. È proprio Maria Daria detta Mariuccia (a lei ed alla sua famiglia vanno i più sentiti ringraziamenti per la disponibilità dimostrata) a dare conferma del fatto che Ottone non sia giunto a Trieste in occasione della mostra universitaria; a Trieste, invece, l’artista si era sicuramente recato qualche settimana prima, in concomitanza con l’esposizione di alcune sue opere presso la Galleria Casanuova, mostra la cui inaugurazione ha avuto luogo il 31 ottobre. Nel corso del primo e del secondo decennio del secolo, nella sua Firenze, Ottone studia disegno ed architettura all’Istituto di Arti decorative di piazza Santa Croce e all’Accademia di Belle Arti; in tali contesti, a causa di un temperamento poco incline alle regole della vita scolastica, l’artista colleziona più espulsioni che successi. L’amicizia con Ardengo Soffici – l’uomo che su “La Voce” fece da apripista, in Italia, ai maestri dell’impressionismo francese ed ai cubisti – fa conoscere a Rosai le poetiche delle avanguardie del Novecento; i contatti con Marinetti, Carrà, Palazzeschi, Boccioni imprimono alla sua arte una virata di segno futurista che contraddistingue, ancorché non in profondità, soprattutto la sua produzione del secondo decennio del Novecento. È negli anni Venti che l’artista matura la propria poetica. La stagione del ritorno all’ordine, lo studio dei maestri del Quattrocento fiorentino, Masaccio su tutti, mediati dall’assimilazione dell’arte di Cézanne – in Toscana più precoce e profonda che altrove – sono declinati in senso popolare, vernacolo, connotati dall’attenzione costante per una Firenze “minore”, popolare, ribobolesca, che spiega il legame profondo dell’artista con gli uomini e le battaglie di Strapaese, l’amicizia ed il lungo sodalizio con Mino Maccari. L’ultimo Rosai, quello degli anni Quaranta e Cinquanta, se da un lato (eccezion fatta per la retrospettiva alla Biennale del 1952 e, nel 1953, per una personale alla Strozzina curata da Ragghianti, cui si deve molto del merito della riscoperta della pittura italiana del terzo e quarto decennio del secolo, Strapaese incluso) ha sofferto dell’oblio calato su molta dell’arte italiana del Ventennio, arte che il clima resistenziale ha presto e spesso etichettato come fascista, dall’altro presenta caratteri di specificità e rivela un artista ormai maturo, capace di equilibrare, risolvere pittoricamente il dramma dei lavori degli anni precedenti: anche l’opera conservata presso il Rettorato triestino, che non è datata ma che Luigi Carluccio indica come “recentissima” (Una iniziativa senza precedenti. Pittori all’Università di Trieste, “Gazzetta del Popolo”, 6 dicembre 1953) e che in tutta probabilità si sostanzia di uno dei frequenti scorci di via San Leonardo in cui l’artista aveva il proprio studio, mostra un Rosai che riduce la propria pittura all’essenziale, ai pochi elementi “casa” – “muro” – “cipresso”, in una sorta di declinazione paesaggistica della concentrazione, della tensione morale delle nature morte morandiane. Una pittura, insomma, quella dell’ultimo Rosai, che nel 1971 Bilenchi non ha sbagliato a definire “chiarificata”, “pacificata”; pittura nella quale – si tenga a mente proprio gli scorci in cui, come nell’opera presentata alla mostra triestina del 1953, le stradine non presentano sbocchi, le facciate delle case sono mute – Ragghianti ha letto acutamente un “senso della limitazione, dell’insufficienza, dell’irraggiungibile” (i brani critici citati sono tratti dal repertorio di testi inseriti in Omaggio a Ottone Rosai (1895-1957). Oli e disegni, catalogo della mostra tenuta presso la Galleria La Casa dell’Arte di Sasso Marconi tra il maggio ed il giugno del 1980).Tracce del passaggio della tela Case del paradiso di Ottone Rosai a Trieste in occasione della Mostra del 1953 si trovano nel denso volume che raccoglie la corrispondenza dell’artista (Lettere 1914-1957, a cura di Vittoria Corti, Prato 1974; tale passaggio, invece, non è menzionato in cataloghi e monografie sull’arte di Rosai, compreso il recente Cinquanta dipinti di Ottone Rosai a 50 anni dalla scomparsa, a cura di Luigi Cavallo, Firenze 2008). In una missiva indirizzata a Perseo Rosai e datata 6 ottobre 1953 (nell’epistolario citato più sopra, n. 685, pp. 627-628), Ottone scrive: “proprio in questi giorni sto mettendo insieme i quadri per la mostra a Trieste”; aggiunge che, a causa di non specificati “impegni” che non gli consentivano di assentarsi da Firenze “neanche per un giorno”, “non potrò esserci presente”. Conferma della mancata partecipazione dell’artista è l’assenza del suo nome nell’elenco degli artisti “che scendono dall’albergo Jolly” (Università di Trieste, Archivio storico). Dei legami tra Rosai e la città di Trieste è testimonianza anche un’altra lettera, di poco precedente (22 agosto 1952, n. 681, pp. 624-625), inviata alla moglie Francesca. Nel documento è fatta menzione di un viaggio della stessa Francesca nella Venezia Giulia, in visita ai parenti del ramo della famiglia Rosai riconducibile al già citato Perseo, il fratello più giovane di Ottone, uno dei ragazzi del ’99 inviati a combattere sul confine orientale del Regno d’Italia. Al termine della prima guerra mondiale Perseo si era trasferito definitivamente a Trieste, e a Trieste ancora vivono i suoi figli Maria Daria e Nevio, i parenti più prossimi dell’artista. È proprio Maria Daria detta Mariuccia (a lei ed alla sua famiglia vanno i più sentiti ringraziamenti per la disponibilità dimostrata) a dare conferma del fatto che Ottone non sia giunto a Trieste in occasione della mostra universitaria; a Trieste, invece, l’artista si era sicuramente recato qualche settimana prima, in concomitanza con l’esposizione di alcune sue opere presso la Galleria Casanuova, mostra la cui inaugurazione ha avuto luogo il 31 ottobre. Nel corso del primo e del secondo decennio del secolo, nella sua Firenze, Ottone studia disegno ed architettura all’Istituto di Arti decorative di piazza Santa Croce e all’Accademia di Belle Arti; in tali contesti, a causa di un temperamento poco incline alle regole della vita scolastica, l’artista colleziona più espulsioni che successi. L’amicizia con Ardengo Soffici – l’uomo che su “La Voce” fece da apripista, in Italia, ai maestri dell’impressionismo francese ed ai cubisti – fa conoscere a Rosai le poetiche delle avanguardie del Novecento; i contatti con Marinetti, Carrà, Palazzeschi, Boccioni imprimono alla sua arte una virata di segno futurista che contraddistingue, ancorché non in profondità, soprattutto la sua produzione del secondo decennio del Novecento. È negli anni Venti che l’artista matura la propria poetica. La stagione del ritorno all’ordine, lo studio dei maestri del Quattrocento fiorentino, Masaccio su tutti, mediati dall’assimilazione dell’arte di Cézanne – in Toscana più precoce e profonda che altrove – sono declinati in senso popolare, vernacolo, connotati dall’attenzione costante per una Firenze “minore”, popolare, ribobolesca, che spiega il legame profondo dell’artista con gli uomini e le battaglie di Strapaese, l’amicizia ed il lungo sodalizio con Mino Maccari. L’ultimo Rosai, quello degli anni Quaranta e Cinquanta, se da un lato (eccezion fatta per la retrospettiva alla Biennale del 1952 e, nel 1953, per una personale alla Strozzina curata da Ragghianti, cui si deve molto del merito della riscoperta della pittura italiana del terzo e quarto decennio del secolo, Strapaese incluso) ha sofferto dell’oblio calato su molta dell’arte italiana del Ventennio, arte che il clima resistenziale ha presto e spesso etichettato come fascista, dall’altro presenta caratteri di specificità e rivela un artista ormai maturo, capace di equilibrare, risolvere pittoricamente il dramma dei lavori degli anni precedenti: anche l’opera conservata presso il Rettorato triestino, che non è datata ma che Luigi Carluccio indica come “recentissima” (Una iniziativa senza precedenti. Pittori all’Università di Trieste, “Gazzetta del Popolo”, 6 dicembre 1953) e che in tutta probabilità si sostanzia di uno dei frequenti scorci di via San Leonardo in cui l’artista aveva il proprio studio, mostra un Rosai che riduce la propria pittura all’essenziale, ai pochi elementi “casa” – “muro” – “cipresso”, in una sorta di declinazione paesaggistica della concentrazione, della tensione morale delle nature morte morandiane. Una pittura, insomma, quella dell’ultimo Rosai, che nel 1971 Bilenchi non ha sbagliato a definire “chiarificata”, “pacificata”; pittura nella quale – si tenga a mente proprio gli scorci in cui, come nell’opera presentata alla mostra triestina del 1953, le stradine non presentano sbocchi, le facciate delle case sono mute – Ragghianti ha letto acutamente un “senso della limitazione, dell’insufficienza, dell’irraggiungibile” (i brani critici citati sono tratti dal repertorio di testi inseriti in Omaggio a Ottone Rosai (1895-1957). Oli e disegni, catalogo della mostra tenuta presso la Galleria La Casa dell’Arte di Sasso Marconi tra il maggio ed il giugno del 1980).Tracce del passaggio della tela Case del paradiso di Ottone Rosai a Trieste in occasione della Mostra del 1953 si trovano nel denso volume che raccoglie la corrispondenza dell’artista (Lettere 1914-1957, a cura di Vittoria Corti, Prato 1974; tale passaggio, invece, non è menzionato in cataloghi e monografie sull’arte di Rosai, compreso il recente Cinquanta dipinti di Ottone Rosai a 50 anni dalla scomparsa, a cura di Luigi Cavallo, Firenze 2008). In una missiva indirizzata a Perseo Rosai e datata 6 ottobre 1953 (nell’epistolario citato più sopra, n. 685, pp. 627-628), Ottone scrive: “proprio in questi giorni sto mettendo insieme i quadri per la mostra a Trieste”; aggiunge che, a causa di non specificati “impegni” che non gli consentivano di assentarsi da Firenze “neanche per un giorno”, “non potrò esserci presente”. Conferma della mancata partecipazione dell’artista è l’assenza del suo nome nell’elenco degli artisti “che scendono dall’albergo Jolly” (Università di Trieste, Archivio storico). Dei legami tra Rosai e la città di Trieste è testimonianza anche un’altra lettera, di poco precedente (22 agosto 1952, n. 681, pp. 624-625), inviata alla moglie Francesca. Nel documento è fatta menzione di un viaggio della stessa Francesca nella Venezia Giulia, in visita ai parenti del ramo della famiglia Rosai riconducibile al già citato Perseo, il fratello più giovane di Ottone, uno dei ragazzi del ’99 inviati a combattere sul confine orientale del Regno d’Italia. Al termine della prima guerra mondiale Perseo si era trasferito definitivamente a Trieste, e a Trieste ancora vivono i suoi figli Maria Daria e Nevio, i parenti più prossimi dell’artista. È proprio Maria Daria detta Mariuccia (a lei ed alla sua famiglia vanno i più sentiti ringraziamenti per la disponibilità dimostrata) a dare conferma del fatto che Ottone non sia giunto a Trieste in occasione della mostra universitaria; a Trieste, invece, l’artista si era sicuramente recato qualche settimana prima, in concomitanza con l’esposizione di alcune sue opere presso la Galleria Casanuova, mostra la cui inaugurazione ha avuto luogo il 31 ottobre. Nel corso del primo e del secondo decennio del secolo, nella sua Firenze, Ottone studia disegno ed architettura all’Istituto di Arti decorative di piazza Santa Croce e all’Accademia di Belle Arti; in tali contesti, a causa di un temperamento poco incline alle regole della vita scolastica, l’artista colleziona più espulsioni che successi. L’amicizia con Ardengo Soffici – l’uomo che su “La Voce” fece da apripista, in Italia, ai maestri dell’impressionismo francese ed ai cubisti – fa conoscere a Rosai le poetiche delle avanguardie del Novecento; i contatti con Marinetti, Carrà, Palazzeschi, Boccioni imprimono alla sua arte una virata di segno futurista che contraddistingue, ancorché non in profondità, soprattutto la sua produzione del secondo decennio del Novecento. È negli anni Venti che l’artista matura la propria poetica. La stagione del ritorno all’ordine, lo studio dei maestri del Quattrocento fiorentino, Masaccio su tutti, mediati dall’assimilazione dell’arte di Cézanne – in Toscana più precoce e profonda che altrove – sono declinati in senso popolare, vernacolo, connotati dall’attenzione costante per una Firenze “minore”, popolare, ribobolesca, che spiega il legame profondo dell’artista con gli uomini e le battaglie di Strapaese, l’amicizia ed il lungo sodalizio con Mino Maccari. L’ultimo Rosai, quello degli anni Quaranta e Cinquanta, se da un lato (eccezion fatta per la retrospettiva alla Biennale del 1952 e, nel 1953, per una personale alla Strozzina curata da Ragghianti, cui si deve molto del merito della riscoperta della pittura italiana del terzo e quarto decennio del secolo, Strapaese incluso) ha sofferto dell’oblio calato su molta dell’arte italiana del Ventennio, arte che il clima resistenziale ha presto e spesso etichettato come fascista, dall’altro presenta caratteri di specificità e rivela un artista ormai maturo, capace di equilibrare, risolvere pittoricamente il dramma dei lavori degli anni precedenti: anche l’opera conservata presso il Rettorato triestino, che non è datata ma che Luigi Carluccio indica come “recentissima” (Una iniziativa senza precedenti. Pittori all’Università di Trieste, “Gazzetta del Popolo”, 6 dicembre 1953) e che in tutta probabilità si sostanzia di uno dei frequenti scorci di via San Leonardo in cui l’artista aveva il proprio studio, mostra un Rosai che riduce la propria pittura all’essenziale, ai pochi elementi “casa” – “muro” – “cipresso”, in una sorta di declinazione paesaggistica della concentrazione, della tensione morale delle nature morte morandiane. Una pittura, insomma, quella dell’ultimo Rosai, che nel 1971 Bilenchi non ha sbagliato a definire “chiarificata”, “pacificata”; pittura nella quale – si tenga a mente proprio gli scorci in cui, come nell’opera presentata alla mostra triestina del 1953, le stradine non presentano sbocchi, le facciate delle case sono mute – Ragghianti ha letto acutamente un “senso della limitazione, dell’insufficienza, dell’irraggiungibile” (i brani critici citati sono tratti dal repertorio di testi inseriti in Omaggio a Ottone Rosai (1895-1957). Oli e disegni, catalogo della mostra tenuta presso la Galleria La Casa dell’Arte di Sasso Marconi tra il maggio ed il giugno del 1980).Tracce del passaggio della tela Case del paradiso di Ottone Rosai a Trieste in occasione della Mostra del 1953 si trovano nel denso volume che raccoglie la corrispondenza dell’artista (Lettere 1914-1957, a cura di Vittoria Corti, Prato 1974; tale passaggio, invece, non è menzionato in cataloghi e monografie sull’arte di Rosai, compreso il recente Cinquanta ipinti di Ottone Rosai a 50 anni dalla scomparsa, a cura di Luigi Cavallo, Firenze 2008). In una missiva indirizzata a Perseo Rosai e datata 6 ottobre 1953 (nell’epistolario citato più sopra, n. 685, pp. 627-628), Ottone scrive: “proprio in questi giorni sto mettendo insieme i quadri per la mostra a Trieste”; aggiunge che, a causa di non specificati “impegni” che non gli consentivano di assentarsi da Firenze “neanche per un giorno”, “non potrò esserci presente”. Conferma della mancata partecipazione dell’artista è l’assenza del suo nome nell’elenco degli artisti “che scendono dall’albergo Jolly” (Università di Trieste, Archivio storico). Dei legami tra Rosai e la città di Trieste è testimonianza anche un’altra lettera, di poco precedente (22 agosto 1952, n. 681, pp. 624-625), inviata alla moglie Francesca. Nel documento è fatta menzione di un viaggio della stessa Francesca nella Venezia Giulia, in visita ai parenti del ramo della famiglia Rosai riconducibile al già citato Perseo, il fratello più giovane di Ottone, uno dei ragazzi del ’99 inviati a combattere sul confine orientale del Regno d’Italia. Al termine della prima guerra mondiale Perseo si era trasferito definitivamente a Trieste, e a Trieste ancora vivono i suoi figli Maria Daria e Nevio, i parenti più prossimi dell’artista. È proprio Maria Daria detta Mariuccia (a lei ed alla sua famiglia vanno i più sentiti ringraziamenti per la disponibilità dimostrata) a dare conferma del fatto che Ottone non sia giunto a Trieste in occasione della mostra universitaria; a Trieste, invece, l’artista si era sicuramente recato qualche settimana prima, in concomitanza con l’esposizione di alcune sue opere presso la Galleria Casanuova, mostra la cui inaugurazione ha avuto luogo il 31 ottobre. Nel corso del primo e del secondo decennio del secolo, nella sua Firenze, Ottone studia disegno ed architettura all’Istituto di Arti decorative di piazza Santa Croce e all’Accademia di Belle Arti; in tali contesti, a causa di un temperamento poco incline alle regole della vita scolastica, l’artista colleziona più espulsioni che successi. L’amicizia con Ardengo Soffici – l’uomo che su “La Voce” fece da apripista, in Italia, ai maestri dell’impressionismo francese ed ai cubisti – fa conoscere a Rosai le poetiche delle avanguardie del Novecento; i contatti con Marinetti, Carrà, Palazzeschi, Boccioni imprimono alla sua arte una virata di segno futurista che contraddistingue, ancorché non in profondità, soprattutto la sua produzione del secondo decennio del Novecento. È negli anni Venti che l’artista matura la propria poetica. La stagione del ritorno all’ordine, lo studio dei maestri del Quattrocento fiorentino, Masaccio su tutti, mediati dall’assimilazione dell’arte di Cézanne – in Toscana più precoce e profonda che altrove – sono declinati in senso popolare, vernacolo, connotati dall’attenzione costante per una Firenze “minore”, popolare, ribobolesca, che spiega il legame profondo dell’artista con gli uomini e le battaglie di Strapaese, l’amicizia ed il lungo sodalizio con Mino Maccari. L’ultimo Rosai, quello degli anni Quaranta e Cinquanta, se da un lato (eccezion fatta per la retrospettiva alla Biennale del 1952 e, nel 1953, per una personale alla Strozzina curata da Ragghianti, cui si deve molto del merito della riscoperta della pittura italiana del terzo e quarto decennio del secolo, Strapaese incluso) ha sofferto dell’oblio calato su molta dell’arte italiana del Ventennio, arte che il clima resistenziale ha presto e spesso etichettato come fascista, dall’altro presenta caratteri di specificità e rivela un artista ormai maturo, capace di equilibrare, risolvere pittoricamente il dramma dei lavori degli anni precedenti: anche l’opera conservata presso il Rettorato triestino, che non è datata ma che Luigi Carluccio indica come “recentissima” (Una iniziativa senza precedenti. Pittori all’Università di Trieste, “Gazzetta del Popolo”, 6 dicembre 1953) e che in tutta probabilità si sostanzia di uno dei frequenti scorci di via San Leonardo in cui l’artista aveva il proprio studio, mostra un Rosai che riduce la propria pittura all’essenziale, ai pochi elementi “casa” – “muro” – “cipresso”, in una sorta di declinazione paesaggistica della concentrazione, della tensione morale delle nature morte morandiane. Una pittura, insomma, quella dell’ultimo Rosai, che nel 1971 Bilenchi non ha sbagliato a definire “chiarificata”, “pacificata”; pittura nella quale – si tenga a mente proprio gli scorci in cui, come nell’opera presentata alla mostra triestina del 1953, le stradine non presentano sbocchi, le facciate delle case sono mute – Ragghianti ha letto acutamente un “senso della limitazione, dell’insufficienza, dell’irraggiungibile” (i brani critici citati sono tratti dal repertorio di testi inseriti in Omaggio a Ottone Rosai (1895-1957). Oli e disegni, catalogo della mostra tenuta presso la Galleria La Casa dell’Arte di Sasso Marconi tra il maggio ed il giugno del 1980).
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